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2085 Words
Non sono sicura di aver afferrato il significato delle sue parole, ma annuisco lo stesso. Suona la campanella. «Oh, be’, il dovere chiama.» Il professore mette sottobraccio la sua cartelletta piena di schizzi e fogli da disegno, e aggiunge: «Ci vediamo più tardi.» Prima che se ne vada, però, ho un favore da chiedergli. «Professore.» Si volta. «Sì?» «Potrebbe riferire a Roger Bennett che faremo i conti all’intervallo?» Il professore mi guarda, confuso, poi scoppia a ridere. Roger Bennett frequenta il terzo anno e Bevilacqua ha la prima ora nella sua classe. È uno dei migliori amici di Vittorio (è stato lui, infatti, ad appendere l’annuncio in bacheca) e suo padre è il proprietario della sala di registrazione che affittiamo per le prove. È un ragazzo adorabile, tranne che per un piccolo difetto: non sa tenere la bocca chiusa. Un po’ di strizza addosso, perciò, gli servirà di lezione. Non c’era bisogno che l’intero istituto sapesse dell’esibizione di ieri sera. No, accidenti. «Sarà fatto», dice Bevilacqua, toccandosi il basco. Rispondo con un lieve cenno del capo e uno sguardo malefi­co, poi mi dirigo in classe. * * * La professoressa Sasso mi chiama per l’interrogazione. Inutile, ci azzecco sempre. Come zia Rebecca. «Immagino che questa volta si sia preparata, signorina Moore.» Mi scruta da sopra gli occhiali a mezzaluna. «Nessuno sprecherebbe l’opportunità di rimediare a un’insufficienza, so­prattutto in vista dei prossimi test di verifica.» Quando parla sembra che sia perennemente raffreddata. Gira la pagina del libro che ha davanti con le unghie smaltate di rosso. «Vediamo, mi parli delle caratteristiche dei composti biochimici.» La settimana scorsa mi ha interrogato tre volte, sullo stesso argomento per giunta, e per tutte e tre le volte ho masticato un chewing gum alla fragola gonfiando palloni e facendomeli scoppiare sulle labbra. Mi ha mandato a posto con gli occhi iniettati di sangue. Pareva una specie di serpe impazzita. Il problema non è la materia in sé, biologia potrebbe anche piacermi, il vero problema è lei. Il suo modo di fare austero e indisponente. L’opposto del professor Bevilacqua per intender­ci. È evidente che ce l’ha con me, vorrei solo capire cosa le ho fatto per meritare questo trattamento. Finché non si deciderà a mettere a nudo i suoi risentimenti, tra noi sarà la guerra. La odio. Di fronte al mio silenzio, sfila lentamente gli occhiali e as­sottiglia lo sguardo. «Signorina Moore, le conviene rispondere sinceramente: è preparata o siamo alle solite?» Non è l’insinuazione a farmi salire il sangue al cervello ma il tono con cui la sputa fuori. Affilato apposta per ferire. Vorrei risponderle che dovrebbe cambiare mestiere perché in questo è un fallimento totale, ma ho talmente tanta rabbia in corpo che me ne resto impalata a fissarla. Lei, dal canto suo, sembra non essersi divertita abbastanza. «E vogliamo parlare del suo abbigliamento?» persevera. Mi squadra da capo a piedi, trattenendo a stento una smorfia di di­sprezzo. «Quando imparerà a vestirsi in modo conveniente? Non siamo mica in uno di quei… squallidi locali che frequenta. Un mendicante farebbe una figura più decorosa al confronto. Tutto questo… ferrame.» Agita una mano in direzione del col­lare, degli anelli che ingioiellano le mie dita e degli anfibi. «Santo cielo, che indecenza! È chiaro che le manchino delle figure di riferimento. Una vera disgrazia, la sua.» Le lacrime fanno in fretta ad annebbiarmi la vista. Bruciano, proprio come il dolore che mi marchia a fuoco l’anima. Questo è troppo. Non avrebbe dovuto permettersi. «Stronza», sibilo, a voce abbastanza alta perché possa sentirmi. Ci metto dentro tutto il veleno che riesco, incurante delle con­seguenze. Il viso della Sasso si contrae, diventa una maschera di cera. Le labbra balbettano a vuoto. Forse sta per venirle un infarto. È quello che si merita, non proverei la minima compassione. «Molto bene», mormora poi. La voce le trema per l’indigna­zione. Scrive qualcosa sul registro, alla sezione delle note, quindi riporta l’attenzione su di me. «Sono sicura che una visita nell’ufficio del preside le schiarirà le idee sul tipo di comportamento da tenere qui dentro.» Esco dalla classe sbattendomi la porta alle spalle, non aspet­to neanche che mi dia l’autorizzazione. Un peso invisibile mi schiaccia il petto. Quelle parole… Ser­virsi della mia famiglia e del terribile incidente che me l’ha portata via per giudicarmi… Furiosa, assesto un calcio alla parete sudicia di impronte, manate e scarabocchi. Mi faccio male, me ne infischio. Nessu­na sofferenza potrà essere più grande di quella che ha distrutto la mia vita. La giornata non poteva cominciare in modo migliore. Questo significa che adesso dovrò scontare un paio di noiosissime ore extracurricolari per correggere la mia condotta scolastica. Dannazione. Abbasso il cappuccio sulla testa e infilo le mani nelle tasche dei jeans. C’è silenzio, a parte il brusio degli studenti attutito dalle porte chiuse. Paul, il coordinatore del campus, dietro il banco della reception legge le pagine sportive del giornale che il professor Bevilacqua ha lasciato sul termosifone. Non solleva lo sguardo, però si accorge della mia presenza. «Un’altra capatina dal preside, Moore?» Si inumidisce il polpastrello con la lingua e volta pagina. «Ah… quand’è che impareremo a fare la brava ragazza?» Gli piace scherzare. Peccato, però, che non sia dell’umore giusto per stare al gioco. Sollevo il dito medio e salgo i primi gradini della scala che porta al secondo piano. * * * L’ufficio del preside sta fra la segreteria e la biblioteca. Una volta davanti alla porta con la targhetta laminata in oro e il nome del signor Thompson inciso con una calligrafia tutta ric­cioli e svolazzi, prendo un bel respiro e busso. «Avanti», mi risponde una voce bassa e profonda. Entro. Nella stanza c’è un forte odore di incenso e acqua di colonia. Ai lati si profilano imponenti librerie traboccanti di libri e trofei, tutti quelli vinti dalle nostre squadre di basket e calcio, oltre a una serie di premi e riconoscimenti per l’impegno dell’istituto nel sostenere una politica di integrazione e fusione culturale, e per attività di vario tipo. Dietro la scrivania, invece, sono incorniciati i primi piani del Presidente degli Stati Uniti, della fondatrice di questa scuola e del precedente preside, il signor White, morto di cancro dieci anni fa. Ogni volta che guardo la sua foto mi convinco che doveva essere un tipo davvero in gamba. Non so perché, qualcosa nei suoi occhi sicuri mi dice che doveva amare molto il suo lavoro. Abbasso il cappuccio della felpa sulle spalle. Il preside è seduto alla scrivania e sta controllando qualcosa al computer. Nonostante i suoi sessant’anni, con quei capelli arruffati e le basette conserva un’aria giovanile. Me ne resto immobile sulla soglia, senza sapere bene cosa fare o dire. Poi, finalmente, lui solleva lo sguardo. «Signorina Moore.» Più che un’affermazione sembra una domanda. Infatti aggiun­ge: «Cos’è successo questa volta?» Questa volta. Oramai avrà perso il conto pure lui. Faccio spallucce. «Chieda alla professoressa Sasso, mi ha spedito lei qui.» «La professoressa…» Le parole gli muoiono in bocca. Si stropiccia gli occhi e all’improvviso il suo sguardo si fa stanco, come se non dormisse da giorni. Mi fa un cenno con la mano. «Si metta seduta, la prego.» Obbedisco, anche se in piedi stavo più comoda. Mi appoggio allo schienale di pelle e incrocio le caviglie. Poiché non ho voglia di guardare altro, mi metto a contemplare la piantina di ciclamino che è accanto al computer e che avreb­be bisogno di essere innaffiata. Il preside, però, non sembra gradire. Si schiarisce la voce, costringendomi ad alzare gli occhi. «Me lo aveva promesso, si­gnorina Moore, e io le avevo dato fiducia.» Scuote la testa. «Non posso assegnarle ore extrascolastiche all’infinito, lo sa? Prima o poi scatterà la sospensione.» «Sì», sussurro, giocherellando con i laccetti del cappuccio. «E allora perché non prova ad assumere un atteggiamento diverso, più… come dire, disponibile e rispettoso?» Sospira. «Abbiamo accolto la sua richiesta di trasferimento anche se era stata presentata oltre i termini di scadenza e i docenti si sono fatti in quattro per farle recuperare i mesi di studio arretrato. Ma lei in tutti questi anni non ha mostrato la minima gratitudi­ne. Mi dica, se fosse al mio posto, quale misura prenderebbe?» Inarco le sopracciglia. Che diavolo di domanda è? «E io che cavolo ne so! Di sicuro non mi accanirei con l’alunna. Insom­ma, magari la colpa è anche dell’insegnante. Può essere, no?» Il preside annuisce e si passa una mano sulla fronte. «Senza ombra di dubbio. Ma non crede che sia troppo facile scaricare la responsabilità delle proprie azioni su chi cerca semplicemen­te di compiere il suo dovere?» Schiocco la lingua contro il palato. Quasi me l’aspettavo una risposta del genere. Thompson prenderebbe le difese dei suoi docenti a ogni costo. «È difficile accettare una perdita, signorina Moore, lo capi­sco. Lo comprendo perfettamente ma…» Lo interrompo di colpo. «Questo non c’entra.» Un’altra volta questa storia. Mi sa che vogliono vedere la parte peggiore della sottoscritta. «D’accordo, allora collaboriamo. Mi dimostri che non è così.» Comincio a sentirmi a disagio, mi sudano le mani. «Facciamo una cosa», dice, intuendo la mia agitazione. «Sta­mattina ho ricevuto una email importantissima da parte dei miei colleghi oltreoceano, ma non riesco ad aprirne il contenu­to. Magari potrebbe darci un’occhiata. Se le voci che mi sono arrivate non mentono, lei è una specie di genio dell’informati­ca, giusto?» Genio. Ora non esageriamo. «Più o meno», dico, sulla difen­siva. Immagino la mia mano stretta intorno al collo di Roger Ben­nett. È un dannato spione, non cambierà mai. Il preside sfodera un sorriso entusiasta. «Perfetto. Per questa volta niente ore extracurricolari allora, tuttavia mi aspetto un maggiore impegno da parte sua. Se dovesse verificarsi un’altra situazione incresciosa, mi vedrò costretto a informare sua zia e a sospenderla. Tutto chiaro?» «Sì. Chiarissimo.» Non sono certa di esserne uscita indenne. Per niente. Bussano alla porta. «Avanti», dice il preside. Il viso occhialuto di Nora, la segretaria, fa capolino. «Signor Thompson, c’è una persona che vorrebbe parlarle. È piuttosto urgente.» «Arrivo subito.» Nora annuisce e si dissolve in una frazione di secondo così come era comparsa. Gli occhi di Thompson tornano a fissarsi su di me. «Mi as­sento un attimo, lei però faccia pure. Ho già scaricato il file al­legato all’email, lo trova sul desktop.» «Come… come l’ha nominato?» «Oh, sì. Il nome.» Tossicchia. «Future.» Annuisco. «Future. Capito.» Si alza. «Tifo per lei, signorina Moore. In quel file c’è in ballo il futuro della scuola e in un certo senso… anche il suo.» Si allontana con un sorriso tirato e a me prende il panico. Panico vero. Okay, con i computer sono più che bravina direi, ma potrei anche commettere un passo falso e rovinare per sempre il futuro della scuola, oltre che il mio. A ogni modo, Thompson è stato chiaro: o gli do una mano o mi spedisce a casa a calci nel sedere. E visto che zia Rebecca si spacca la schiena per pagar­mi la retta scolastica, mi conviene starlo a sentire. Prendo posto dietro la scrivania e muovo il mouse per riatti­vare lo schermo in stand by. Cerco di regolarizzare il battito cardiaco facendo dei lenti e profondi respiri. Individuo subito il file in questione e quando lo seleziono mi accorgo che è un .zip, una cartella compressa. Penso a quello che direbbe Vittorio se fosse qui. Dio santo, il preside di una scuola come l’American Overseas School non riesce ad aprire un cazzo di file compresso? Certo che siete proprio nei casini. Soffoco una risata ed estraggo il contenuto della cartella. Sono sessantaquattro elementi, ci mette un po’ per decompri­merli tutti. Ritornando a Vittorio, è strano che non mi abbia inviato un altro migliaio di messaggi. Controllo il cellulare, ma non ho ri­cevuto nulla. Che se la sia presa? E anche se fosse, perché do­vrebbe importarmi? Dopo un paio di minuti sullo schermo compare una finestra con i file allineati in ordine alfabetico. Operazione completata. Un gioco da ragazzi. Sto per ritornare al mio posto quando l’occhio cade su un documento in particolare. Il sudore mi imperla la fronte. Conficco le unghie nei brac­cioli della sedia. Forse c’è un errore, forse la vista mi sta gio­cando brutti scherzi. Chiudo e riapro gli occhi. Una, due, tre volte. Ma il file è ancora lì. Test uno: Suzie Moore. Che significa? Che razza di scherzo è mai questo? L’istinto mi ordina di lasciar perdere, ma la curiosità ha la meglio. Voglio sapere cosa nasconde all’interno e cosa c’entra il preside con tutto questo. Penso di averne il diritto, dopotutto. Quello è il mio nome. Con mano tremante clicco sull’icona ma mi viene richiesta una password. «Merda», impreco. Un attimo dopo, sento dei passi avvicinarsi. Va bene, non mi resta che un’ultima alternativa. E se non voglio passare guai, devo muovermi in fretta. Tiro fuori la chiavetta USB dalla tasca dei jeans e la collego al computer. Grazie al cielo la porto sempre con me. Il sistema, per fortuna, la rileva subito. Faccio una copia del file e la incollo nei venti megabyte rimasti liberi, sperando siano sufficienti. Distinguo la voce del preside che saluta il suo interlocutore con la promessa di una telefonata. Mi inumidisco le labbra im­provvisamente secche. «Avanti, avanti…» incito come un’ebete il PC. Ottanta per cento. Forza muoviti, razza di catorcio. Novanta per cento. Cento per cento. Salvataggio completato. Chiudo la finestra e tolgo la chiavetta infilandola di nuovo in tasca. Tira un bel sospiro. Grande, Suzie, sei fuori pericolo. Giusto in tempo. La porta si apre e il preside fa ritorno nella stanza. Ha un’aria gioiosa, la fronte distesa e una strana luce negli occhi. Strofino le mani sui pantaloni e cerco di mascherare il nervosi­smo che ancora mi attanaglia. «Allora, signorina Moore», dice sorridendo, «ha buone noti­zie per me?»
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