1 Le nuvole di Caterina
Vinci, 1458
Succedeva sempre più frequentemente che La buca dei golosi non avesse più tavoli disponibili, la pasticceria di Ser Accattabriga era diventata un nome conosciuto nella Val d’Elsa. Non si trattava di una delle tante taverne simili a bordelli dove veniva servito del pessimo vino annacquato e ci si guardava alle spalle dagli attentatori. No, dall’Accattabriga si andava per peccare di gola.
I commensali parlavano con la bocca piena e lo sguardo eccitato, alcuni ridevano sguaiatamente dandosi pesanti colpi sulle spalle, altri mangiavano a testa china i bocconi dolci e polposi gocciolanti di creme. A ingozzarsi del cibo del peccato erano rozzi contadini, arroganti commercianti e noti banchieri, ogni tanto, però, capitavano anche signori di palazzo e artisti di corte.
Gli uomini non toglievano gli occhi di dosso da donna Caterina, alcuni l’avevano già spogliata col pensiero, non resistevano all’impulso di afferrarla dai fianchi morbidi per sentirla fremere e divincolarsi sotto le loro mani, ma la bella locandiera era una femmina capace di farsi rispettare, anche se i suoi ceffoni e i morsi rabbiosi su quegli omoni scatenavano solo grasse risate.
Quel giorno, però, Caterina non aveva badato ai fischi e agli apprezzamenti pesanti dei clienti con la bocca sporca di miele e canditi, nemmeno li aveva guardati in faccia. Impastava, versava salse, sfornava torte. Ciocche di riccioli le scendevano sul lungo collo, le guance e il seno erano spolverati di farina e aveva le tempie sudate. Per tutti era lei il vero dolce.
Era passato molto tempo da quando era la serva delle famiglie ricche del Valdarno e sognava di fuggire da Vinci per diventare una gran dama!
Sognava a occhi aperti pensando che Cosimo il Vecchio aveva avuto un figlio dalla sua schiava Maddalena, Carlo de’ Medici, divenuto poi presbitero. Maddalena avrà ricevuto di certo dei trattamenti speciali dal signore di Firenze, pensava continuamente.
La vita aveva dato ben altro destino a Caterina costringendola a sposare il burbero Accattabriga. Da quel momento i suoi compiti erano cucinare, governare la taverna e partorire figli, possibilmente maschi. Il miraggio di essere amata e sposata dal notaio Ser Piero da Vinci era rimasto tale.
L’amore non è cosa per le serve, il matrimonio men che mai, si ripeteva.
Negli ultimi mesi il lavoro non mancava alla Buca dei golosi, gli incassi erano decisamente buoni. Caterina sapeva che ogni moneta finiva dritto nelle tasche del marito, ma era pur vero che quel marito rozzo e un po’ ignorante l’adorava e non le faceva mancare niente.
Le braccia le dolevano a forza di caricare pesi e le scarpe strette le causavano sofferenza per tutte quelle ore in piedi, ma poco importava, presto avrebbe potuto permettersi un paio di scarpe nuove e un vestito diverso dalla sottana di lana che le pungeva le gambe.
Lo zucchero e il sale erano merce rara, dall’uso farmaceutico fatto nel Medioevo erano ora considerati delle spezie e quindi beni di lusso per i banchetti dei ricchi signori, per quanto, quel diavolo di pasticcere riusciva a servirli anche ai popolani. I cittadini di Vinci e dintorni, pur di assaggiare il nettare degli dei erano disposti a spendere più del dovuto e ad affrontare i sensi di colpa.
Nelle altre bettole si mangiava per rifocillarsi prima di tornare al lavoro o per scaldarsi dal freddo con zuppe bollenti, dall’Accattabriga, invece, si andava per soddisfare il piacere. I dolci del burbero erano una perdizione per il corpo e per lo spirito, toccavano i sensi, tutti, non solo il gusto, davano forza, smuovevano passioni assopite o, semplicemente, facevano tornare il buon umore.
Quello che di giorno era un forno con mulino per la vendita di farine, olio, pane e focacce, di sera si trasformava in un luogo dove gustare dolci di ogni forma, consistenza e sapore.
Non solo gli uomini vi si recavano, anche le donne, nascoste dentro lunghi mantelli, varcavano la porta della Buca. Non erano prostitute o locandiere, erano serve, contadine, balie, si portavano dietro un sacchetto di velluto contenente qualche fiorino. Pagavano con mani tremanti le loro fette di torta o le deliziose creme, le mangiavano in un angolo chiudendo gli occhi per gustarne il succo e se ne andavano piene di sensi di colpa.
Frutta caramellata, malto lavorato con mandorle e noci, pan di zenzero, torte soffici e profumate, latte e miele addensati, creme di ogni colore formavano un’onda avvolgente di aromi irresistibili e sconosciuti.
Si entrava per brevi assaggi e ci si fermava per ore ad affondare le mani e i cucchiai di legno nei dolci impasti, poi si buttava giù in un solo sorso del buon vino liquoroso per ovattare i sensi già indeboliti.
Quei momenti di piacere erano pura condivisione, svegliavano antichi ricordi, pensieri nascosti, toglievano ogni inibizione. Le discussioni o le chiacchiere duravano anche tutta la serata e si finiva per piangere, ridere o per fare l’amore.
Accattabriga aveva rischiato la galera per avere materializzato il girone dei golosi, lo avevano scoperto sfornare dolci nel periodo della Quaresima e si sa che nei quaranta giorni in cui bisogna allontanare ogni tentazione, non era ammissibile vedere un viavai di persone entrare nella pasticceria di Vinci e uscirne sazi di zuccheri con lo sguardo ebbro di piacere. Le guardie erano state allertate e il clero aveva mandato i suoi giustizieri, il pasticcere si era salvato solo perché tra gli abitudinari vi era Giacomo Ammannati Piccolomini, il cardinale, vescovo di Pavia, il quale aveva abilmente celato lo scandalo.
Quali erano le pozioni magiche che l’uomo univa a uova, miele, latte e farina?
“Non dite nefandezze!” reagiva offeso verso chi gli rivolgeva quella domanda. Il magazzino del retrobottega, però, era stipato di sacchi e cesti di frutta sconosciuta, aromi, spezie, miele di ogni tipo e poi ampolle, recipienti con infusi di erbe e fiori.
Le spezie valevano quanto l’oro, messere Antonio di Piero Buti del Vacca lo sapeva e aveva affinato l’astuzia per comprare la merce di contrabbando dai pirati e dai mercanti che tornavano con i carichi da Costantinopoli.
Che fossero foglie, semi, radici o frutti, erano tutti prodotti della terra, rari e costosi, davano benessere al corpo e piacere ai sensi, il profumo intenso era un balsamo per lo spirito, una carica di energia, colpiva l’olfatto e arrivava al cervello.
Nel sestiere del Molo di Genova, in zona Mandraccio, si incontravano e si scontravano razze, costumi, lingue di ogni parte del mondo allora conosciuto. Una statua, rappresentante la divinità protettrice dei naviganti, Diana Efesia, vegliava sui marinai e sui mercanti e il mare portava a galla o nascondeva negli abissi le storie e l’anima della sua gente.
Ogni giorno arrivavano le galee a remi e a vela salpate da terre lontane con carichi di merce preziosa e racconti di pirati.
Accattabriga era diventato in poco tempo uno dei clienti migliori, sapeva quali erano i bastimenti da aspettare e quali i mercanti o i pirati con cui contrattare.
Al ritorno, nei cesti intrecciati e foderati di foglie di vite o nei sacchi di juta, sistemava le nuove spezie: quelle energizzanti come il ginepro, il pepe nero e la curcuma; quelle afrodisiache come la cannella, lo zenzero, il peperoncino; le rilassanti e confortanti come il sambuco e il papavero. Le nascondeva tutte sotto altri oggetti perché non si vedessero, ma soffocare l’odore delle droghe era impossibile e ogni volta l’uomo correva grossi rischi.
“Suvvia Ser delle Vigne, provate questa bontà di pan di zenzero e rosa canina.” Caterina aveva una voce volutamente civettuola.
“Donna Caterina, qui c’è dell’altro, ditemi cosa c’è in questa crema rossa che copre i dolci? Ditemi, qual è il nome di codesto nettare a cui non so resistere?”
“Cosa importa messere? Vi porta la forza e il buon umore che avete sempre avuto ma che vi stava abbandonando.”
Ser Accattabriga scuoteva la testa divertito, la sua Caterina sapeva sempre come ottenere quello che voleva, aveva un cervello la sua donna. Quante donne potevano dire di avere un cervello?
“Sapete cosa c’è nel cibo che preparate, marito mio?”
“Ditemelo voi, amata moglie.” Il pasticcere stava al gioco ridacchiando.
“Il diavolo e gli dei. I vostri dolci confortano corpo e mente oppure li portano alla perdizione, è un piacere lento o un brivido immediato.”
“Parlate piano o vi prenderanno per una strega. La gola è un peccato, non lo sapete?” L’uomo buttò giù un po’ di liquore di ginepro.
Una volta rimasto solo Accattabriga rifletté sulla sua fortuna, pensandoci bene Caterina avrebbe potuto sposare l’arrogante Ser Piero da Vinci, un borioso notaio che aveva lasciato il paesino per fare carriera a Firenze, ma Ser Piero non poteva avere per sposa una giovane serva, avrebbe ostacolato la sua immagine di uomo di successo e, per quanto quella donna fosse il fuoco e la tentazione, la abbandonò.
Adesso la bella Caterina era sua, solo sua!
In una piccola casa di Anchiano, una frazione di Vinci, nella notte di sabato quindici aprile 1452, Caterina diede alla luce Leonardo. Il grido al mondo della creatura fu l’urlo che per tutta la vita avrebbe accompagnato la ribellione e il genio di colui che sarebbe diventato il più grande uomo di scienza di tutti i tempi.
La serva Caterina partorì nella sua piccola ma dignitosa casa di mattoni rossi con una grande aia ai piedi del bosco.
Madre e figlio vissero insieme pochi mesi, presto Ser Antonio da Vinci pretese di avere il nipote nella sua abitazione in zona Santa Croce dove il bambino crebbe.
Leonardo non fu, tuttavia, legittimato, era pur sempre figlio di una serva e non poteva ambire all’eredità di famiglia!
Antonio era un notaio molto rispettato a Vinci, un cittadino benestante che divideva la casa con i figli Piero e Francesco. La famiglia possedeva alcuni appezzamenti dove coltivava principalmente il grano, erano suoi anche diversi terrazzamenti di uliveti e vigneti da cui si ricavava olio e vino e, non per ultimo, era proprietario di un mulino accanto a una fornace. A far bene i conti, il vecchio Antonio e sua moglie Lucia non erano ricchi, ma la cifra di millequattrocento fiorini permetteva loro una vita dignitosa e qualche agio.
Ser Piero aveva poco più di vent’anni quando conobbe Caterina.
Capitò nell’estate del 1451, a Firenze. Piero si stava affermando come notaio nella città del giglio, ma, appena poteva, andava a trovare i vecchi amati genitori e tutte le estati trascorreva i mesi più caldi nel paese natale. Raccontava a tutti di lavorare presso le più alte magistrature fiorentine, si vantava di fare una bella vita e di avere trovato un agiato alloggio intorno alla Badia Fiorentina.
Caterina era solo una serva, conduceva una vita umile, ma la sua bellezza non lasciava indifferenti. Si diceva che era stata comprata come schiava molti anni prima da un ricco nobile, erano solo voci ma la sua pelle ambrata e gli occhi nerissimi dal taglio allungato facevano pensare che quelle voci erano fondate.
La campagna di Vinci, i profumi dell’estate, l’allegria delle feste di paese, le tiepide notti stellate sotto il respiro del vento caldo furono complici del sentimento tra Piero e Caterina, la loro fu una bruciante passione, tanto intensa quanto breve.
Caterina non sapeva leggere e tanto meno scrivere, però aveva una mente fervida e curiosa. Le piaceva ascoltare i racconti fiorentini di Ser Piero, adorava apprendere tutte le vicende politiche e si divertiva con gli scandali di corte. Chiudeva gli occhi e si vedeva nella città dei Medici, con la fantasia sedeva ai banchetti dei signori di Firenze o si faceva ritrarre dal Pollaiolo, tutti dicevano che era bravo a dipingere i volti di donna.
Antonio temeva che la bruciante passione tra Caterina e suo figlio potesse trascinare la famiglia nello scandalo, non furono abbastanza intimidatorie le lettere che mandava a Ser Piero in cui minacciava di togliergli l’eredità se avesse sposato una serva. Il vecchio attese che il fuoco diventasse brace e passò ai fatti obbligando il figlio a contrarre matrimonio con una donna fiorentina benestante.