Capitolo 1
“Voglio che si ricordi per sempre di me come della v****a che gli è sfuggita.”
Anabelle
Anabelle.
I miei genitori non potevano scegliere per me nome più femminile, ma sapete una cosa, non l’hanno scelto perché era carino o femminile.
No.
Lo hanno scelto a causa del wrestling.
Tutto è sempre ruotato attorno al wrestling.
Prima che nascessi, mio padre desiderava un figlio maschio, come spesso fanno gli uomini, qualcuno che portasse avanti il nome di famiglia.
La tradizione dei Donnelly: il wrestling.
Lo sport scorre nel sangue della famiglia Donnelly dacché ho memoria. È il lavoro di mio padre.
Il mio nonno irlandese era un wrestler.
Mio padre era un wrestler.
Invece di un figlio, ha avuto me, una Anabelle invece di un Anthony. Ana invece di Abe.
Una bambina spaventata dalla propria ombra, che invece di interessarsi agli hobby di suo padre, si aggrappava alla sua gamba. Una bambina che portava in giro le sue bambole e piangeva cercando sua madre, nelle rare occasioni in cui il padre aveva pietà di lei e cercava di insegnarle alcune mosse di autodifesa.
Ai tempi del college, in Mississippi, quando papà era un lottatore agli esordi, il suo migliore amico nella squadra si chiamava Lucien Belletonio. Belle, lo chiamavano, anche se era l’antitesi di un soprannome tanto femminile: duro e introverso, destinato a fare strada.
Un campione.
L’anno prima che nascessi, solo cinque mesi dopo che i miei genitori si erano incontrati, Belle e mio padre ricevettero un’ottima proposta.
Allenare.
Tutto andava bene e non faceva che migliorare, Belle era un astro nascente sul materassino e fuori, mio padre aveva una moglie e un bambino in arrivo. Poi il destino si intromise, insieme a cinque tonnellate di acciaio, che misero fine alla vita di Belle. Quel giorno mio padre perse il suo migliore amico.
Belle.
Anabelle.
Femminile, intelligente e forte, sulla carta.
Mio padre non voleva dimenticare Lucien Belletonio, e non lo avrebbe fatto, grazie a me.
Mamma non mi rese le cose facili, se volevo vederlo o andare a fargli visita, dopo che ebbero divorziato. Tirava sempre fuori qualche patetica scusa: tuo padre è troppo impegnato con la sua carriera perché tu stia con lui; è la stagione del wrestling; si sta quasi avvicinando la stagione del wrestling; a lui importa più di quei ragazzi che di te.
Ci avevo creduto.
Fino a quando ero cresciuta e avevo capito che cosa intendeva veramente. Che lui teneva più ai suoi ragazzi che a lei.
Io? Non mi ero mai sentita abbandonata da mio padre, non mi ero sentita esclusa.
Diventata più grande e più saggia, avevo iniziato a guardare papà in televisione, sul canale ESPN. Sapevo che era un uomo importante, con un lavoro altrettanto importante, e lo rispettavo.
Era mia madre che non rispettava il suo lavoro.
Giovane e con un bambino piccolo, non era stata disposta a fare i sacrifici che molte mogli di allenatori invece fanno: i tagli di paga, gli aumenti, promozioni seguite da retrocessioni, trasferimenti dall’altra parte del Paese o comunque andare dove veniva offerto un posto di lavoro.
Ripensarci non è piacevole.
Mi muovo a passo svelto sul tapis roulant, i pensieri sul divorzio dei miei genitori mi spingono a continuare, ho impostato la macchina su salita ripida. Spingendomi al limite. Facendomi sudare. Imponendo alle mie gambe di salire e correre più veloce, battendo i piedi a ritmo con la musica: il mio allenamento è la metafora della mia vita.
È ora di andare, Anabelle. È ora di andare. I piedi scandiscono il ritmo delle parole.
È ora di cambiare. Le mie gambe si muovono al ritmo della cantilena.
È ora di…
«Ehi, hai quasi finito con questa macchina?» La domanda è seguita da un colpetto sull’avambraccio. Do un’occhiata, curiosa di scoprire chi sia la persona con il fegato di interrompere il mio allenamento.
Non mi tolgo nemmeno gli auricolari, la mia coda di cavallo ondeggia mentre scuoto la testa. «Altri quindici minuti.» Controllo la stanza, la fila di tapis roulant liberi. «Potresti usare uno di quelli.»
Cerco di essere più educata possibile, ma lui resta in piedi a guardarmi. Muove le labbra, ma con le orecchie tappate, riesco a malapena a capire cosa stia dicendo.
Continua a muoverle.
Tolgo un auricolare, tenendolo vicino alla testa. «Che c’è?»
«Questo è il mio tapis roulant portafortuna.» Mi fa un sorriso enorme, convinto che mi farà sloggiare in un attimo.
Si sbaglia. «Il tuo tapis roulant portafortuna? Ma non mi dire.»
Seriamente, chi crede a una cosa del genere? È da stupidi.
«Sì. Il numero sette mi porta fortuna.»
Do una rapida occhiata, contando le macchine da destra a sinistra. Ha ragione; occupo il settimo tapis roulant.
«Okay, bene, dammi altri tredici minuti, ed è tutto tuo.»
Incrocia le braccia al petto. «Posso aspettare.»
«Puoi, uhm, aspettare laggiù?»
Lo trovo un po’ invadente e mi sta innervosendo.
Decisa a ignorarlo, mi rimetto la musica nelle orecchie, aumentando il volume per sovrastare le sue chiacchiere. Muove di nuovo le labbra.
Mi indico le orecchie. «La musica è troppo forte, non riesco a sentirti.»
La bocca del ragazzo si incurva in un sorrisetto compiaciuto, e se non sapessi che è impossibile, giurerei che abbia detto “Grazie a Dio non somigli affatto a tuo padre.”
Non può aver detto una cosa simile, vero? Questo tizio non mi conosce nemmeno.
Non sa che mio padre è il coach Donnelly, l’allenatore con più vittorie all’attivo in tutta la storia del wrestling universitario. Non sa che sono qui per vivere con lui e con la mia matrigna, finché non riuscirò a trovare un posto fuori dal campus, prima possibile, perché papà mi sta sempre addosso e rischia di farmi impazzire.
Capisco il suo bisogno di vigilare su di me, davvero.
Non mi vede da più di un anno, e ho vissuto ad almeno millecinquecento chilometri di distanza da lui da quando avevo otto anni, da quando mia madre aveva fatto le valigie e ci eravamo trasferite sulla costa orientale.
Ma non sono più una bambina.
Papà non ha bisogno di sapere dove sono e cosa sto facendo a tutte le ore del giorno. Mi prepara il pranzo come se andassi ancora all’asilo, mi lascia le luci accese all’ingresso di notte come si fa con un bambino che ha paura del buio. Sua moglie, la mia matrigna, Linda, è stata fantastica, e ha preparato la camera degli ospiti per il mio arrivo, arredandola con tutto ciò di cui avevo bisogno.
O meglio, di cui avrei avuto bisogno se avessi avuto dodici anni.
È tutto rosa.
Il problema, un problema enorme a dire il vero, è che non sono più una studentessa del primo anno. Non voglio vivere con i miei genitori e sono assolutamente certa di non voler vivere in uno di quei maledetti dormitori.
Voglio una casa o un appartamento mio. Voglio tornare a casa e sedermi sul divano in mutande, mangiare la pizza direttamente dalla scatola e guardare la TV fino alle due del mattino senza che mio padre entri nella stanza per spegnerla.
Voglio quello che avevo prima di trasferirmi.
Un appartamento. Una compagna di stanza.
Amici.
Adoro la mia famiglia, ma l’esperienza del college non è la stessa se vivi a casa dei tuoi.
Sospirando, finalmente raggiungo il traguardo dei venti minuti e di un chilometro e mezzo all’attivo per quella mattina. Non troppo male.
Premo il pulsante per il programma di raffreddamento sulla console dei comandi, lasciando che il tapis roulant rallenti da solo. Da una corsa sostenuta passa a una corsa leggera, fino a diventare una camminata. Mi guardo in giro e vedo il ragazzo con i capelli biondi e il sorriso arrogante appoggiato contro il muro ad osservarmi. Lo studio a mia volta.
La maglietta senza maniche.
I bicipiti. Il sudore sotto le ascelle che gli macchia la maglietta. I capelli umidi.
Il logo della squadra di wrestling.
Stringo le labbra.
Non lo sto giudicando, semplicemente non voglio che sappia chi sono. Non ancora.
Non se è un lottatore.
C’è solo un modo per scoprirlo.
Quattro minuti ancora.
Due e mezzo.
Diminuisco la velocità, continuando fino a quando la macchina non raggiunge due punti di pendenza. Passi lenti e stanchi.
Il biondino si avvicina, con le cuffie appese al collo. «Finito?»
Annuisco. «Finito.»
Ha le mani posate sui fianchi stretti, che ovviamente non hanno un filo di grasso. Mi offre un sorriso accondiscendente. «Grazie per la comprensione.»
Combatto l’impulso di scuotere la testa. «Bene.»
«Vieni qui spesso?» mi domanda, avvicinandosi con una salviettina disinfettante e cominciando a pulire le maniglie del tapis roulant prima ancora che sia scesa.
«No. Sono nuova qui.»
«Terzo anno?»
«Sì. Trasferita qui per il secondo semestre.»
«Da dove?»
Fa un sacco di domande, vero?
«Un piccolo college dell’est.»
Un college cattolico davvero piccolo, se vogliamo essere precisi. Lo stesso che aveva frequentato mia madre, nella città in cui a quel tempo aveva conosciuto mio padre, che stava iniziando la sua carriera da allenatore. Erano giovani ed eccitati e ancora non litigavano per tutto il tempo in cui lui era lontano e la lasciava da sola.
Appena laureato e pieno di ambizioni, il suo primo incarico era stato quello di assistente allenatore al College Immacolata Concezione nel Massachusetts. Era finito addosso a mia madre mentre svoltava l’angolo vicino alla palestra, l’aveva fatta cadere, e quando si era mosso per aiutarla a rialzarsi… be’, il resto è storia.
Finché era finita.
Non so perché mamma avesse insistito tanto perché mi iscrivessi lì. Lei odia mio padre con la passione di mille soli splendenti, incolpa lui per il fallimento del loro matrimonio. E incolpa il sistema di reclutamento dei college, la determinazione di mio padre a volere sempre di più, a diventare qualcosa di più, ad avere di più.
E a vincere.
Ero piccola quando si separarono, ma riesco ancora a ricordare come litigavano ogni volta che mio padre otteneva un incarico in un nuovo college o in una università, facendo del suo meglio per arrivare sempre più in alto nel mondo degli allenatori. Una scuola più prestigiosa. Il livello successivo.
Finché era riuscito a ottenere il posto nell’Iowa.
Il College Immacolata Concezione doveva averle lasciato dei bei ricordi, perché mi aveva implorato di dargli una possibilità, di provare almeno per un anno prima di trasferirmi.
Vi ero rimasta per due anni e mezzo.
«Come si chiamava il tuo piccolo college?» Il ragazzo insiste, asciugando i manici e sfregando la salvietta avanti e indietro sopra il pannello di controllo.
Persa nei miei pensieri, ho dimenticato l’argomento della nostra conversazione. «Huh?»
«L’ultima università in cui sei stata... come si chiamava?»
Giusto. «Oh, non la conosci, fidati.»
«Mettimi alla prova.» È così arrogante che è quasi assurdo.
Questa volta, scuoto la testa. «College dell’Immacolata Concezione, nel Massachusetts.»
Spalanca gli occhi sorpreso. «Già, non ne ho mai sentito parlare.»
Mi fa ridere; è un po’ goffo, anche se determinato. Non riesco a decidere se è più fastidioso o rinfrancante, forse un po’ di entrambe le cose.
Lo osservo con attenzione. È nella media, ma ha l’aspetto di un lottatore, non ci sono dubbi: fronte ampia, orecchie un tantino rovinate, occhi di un intenso castano che mi fissano.
Mi passo nervosamente una mano sul davanti dei pantaloni attillati, consapevole del mio aspetto, della mia canottiera aderente, del sudore che gocciola nell’incavo tra i seni. La pelle della schiena visibile attraverso il reggiseno sportivo. La massa di lunghi capelli castani disordinata.
«Sei immacolata?» chiede.
«Sono immacolata?» Faccio la finta tonta. «Che cosa significa?»
Agita una mano come se niente fosse. «Sai, ti stai preservando per il matrimonio e tutta quella roba lì?»
Alzo la testa, irritata. «È una questione personale, non ti conosco nemmeno.»
Fa un sorrisetto arrogante, come se avesse già capito me… e tutto l’universo. «Così ti stai preservando.»
Sospiro. «L’Immacolata Concezione è l’istituto che ha frequentato mia madre. E dove voleva che andassi anch’io, e così ho fatto.»
«Come sei finita qui?»
Afferro l’asciugamano appeso alla sbarra, mi asciugo il sudore che mi bagna il petto e i capelli sulla nuca. «Questioni familiari.»
Mio padre.
La retta ridotta per i membri del personale.
La prestigiosa facoltà di legge dell'Iowa.
«Quale famiglia?»
Gli lancio un'occhiataccia. «Perché sei così ficcanaso?»
«Perché non mi rispondi?»
«Non ti conosco.»
«Mi chiamo Eric. Adesso mi conosci.»
«Forse non voglio conoscerti.» Rido. «Sembri un tale...» Coglione. Troppo invadente per i miei gusti. «Sei un completo sconosciuto.»
«Non sono un pervertito di sessantacinque anni, questo è sicuro.»
«Non ancora, ma lo sarai un giorno.» Lo dico prima di riuscire a fermarmi e mi copro la bocca, ridendo. «Ops, l’ho detto ad alta voce?»
Sembra sorpreso. «Ti sto mettendo a disagio?»
«Sei troppo insistente» rispondo onestamente.
«Insistente? Che vuol dire?»
Socchiudo gli occhi mentre raccolgo le mie cose. «Guardati intorno, amico. Non puoi venirmi a dire che devi correre su questo preciso tapis roulant ogni giorno e che se non lo fai, avrai una botta di sfortuna. È un’assoluta cazzata.»