Prologo
Prologo
Eric Johnson
Avevamo sentito tutti delle voci su di lei, ma non sapevamo se fossero vere:
Il coach ha una figlia.
Una ragazza, che non è cresciuta con lui ma che adesso vive in casa sua, una studentessa, che si è trasferita da un college più piccolo dell’est. Come faccio a saperlo? Dei ragazzi hanno sentito per caso alcuni membri dello staff tecnico parlare di lei, una sera in cui avevano dimenticato che anche i muri hanno le orecchie.
«Avrà preso tutto dal padre.»
«Finalmente potremo conoscerla dopo tutti gli anni che ha passato con la madre.»
«Assomiglierà alla sua ex-moglie.»
Speriamo sia così; il coach è un bastardo dall’aspetto rude. Basso, incazzato e prematuramente grigio, mi piace paragonarlo a un troll vecchio e rugoso che vive sotto un ponte, uno che ha visto tempi migliori. Uno stronzo vecchio e infelice, che non ho mai visto fare un sorriso, nemmeno una volta.
Comunque di sicuro mai rivolto a me.
Faccio qualche altro squat, gocce di sudore mi scendono lungo la schiena, le ginocchia si piegano sotto i centocinquanta chili caricati sulla barra. Mi alleno duramente da quando sono entrato nel programma di wrestling dell’Iowa, adesso più che mai: la pressione emotiva di fare bella figura è forte visto che il nuovo arrivato, Rhett Rabideaux, sta minacciando il posto di tutti in squadra.
Da quando i nostri due campioni se ne sono andati, cerco ogni occasione per entrare nelle grazie del coach, per diventare il nuovo ragazzo d’oro, prendere il loro posto e raggiungere la vetta.
Quei due ci facevano sembrare tutti scarsi.
Dei rammolliti.
Faccio altri tre squat prima di essere interrotto da Rex Gunderson, il mio compagno di stanza e
manager della squadra di wrestling. Ha in mano un asciugamano e una bottiglia d’acqua, con il mio nome sbiadito scritto sopra con un pennarello.
«Fermati.» Mi frusta il culo con l’asciugamano. «Riunione della squadra fra cinque minuti.»
Sollevo di nuovo i pesi.
Mi piego.
Mi stendo.
Squat. Lascio cadere la barra a terra, facendo un passo indietro mentre rimbalza sul pavimento della sala pesi con un tonfo soddisfacente.
«Di cosa si tratta?» Gli strappo l’asciugamano bianco dalle mani prima che possa colpirmi una seconda volta.
Gunderson scrolla le spalle sotto la polo nera della squadra di wrestling dell’Iowa. Con quegli stupidi pantaloni color kaki sembra una completa testa di cazzo.
«Non lo so, non mi dicono più niente.»
Non gli faccio notare che non gli dicono niente perché non si fidano più di lui; non riesce a tenere la boccaccia chiusa, e fa sempre un sacco di scherzi.
Lui continua a blaterare, scrollando le spalle ossute. «Probabilmente informazioni sull’incontro con la Clemson di questo weekend.»
Può darsi, anche se non c’è niente di eccezionale che riguardi la Clemson University al punto da dover indire una riunione di emergenza. Tuttavia mi tolgo la maglietta fradicia di sudore e mi asciugo il petto e il collo. Do una scrollata ai miei capelli biondi.
Sto sudando come una prostituta in chiesa, magnifico!
Ci vogliono tre minuti per raggiungere lo spogliatoio, e sedermi sulla panchina vicino al mio armadietto. Gunderson resta in piedi sulla soglia con il suo blocco, intento a prendere nota e ad assicurarsi che tutti siano stati avvisati e presenti per ascoltare quello che l’allenatore ha da dire.
Deve essere importante, l’ho visto solo due volte controllare le presenze nei due anni della mia permanenza in squadra.
«Signorine, ascoltate» dritto al punto, l’allenatore non perde tempo. «Domani voglio i vostri culi sull’autobus alle nove in punto, partiremo presto. Masters, ti voglio in palestra alle prime luci dell’alba ad allenarti, hai un aspetto di merda. Ultimamente ti stai rammollendo.» Donnelly si appoggia contro la scrivania di metallo davanti allo spogliatoio, incrociando le braccia grassocce. La sua pelle segnata testimonia che in passato ha avuto la sua parte di duro lavoro.
Si sfrega il mento, la barba che ha iniziato a far crescere è grigia.
«Signori, c’è un’altra cosa di cui voglio parlarvi prima di lasciarvi andare stasera. Una cosa che voglio chiarire: mia figlia, che finora sono riuscito a tenere lontano, molto lontano da voi ingrati, si è trasferita qui per studiare.» Questo gli fa guadagnare sguardi curiosi e sopracciglia inarcate da parte degli altri membri della squadra.
L’allenatore continua. «Quando inizieranno i corsi, senza dubbio la vedrete entrare e uscire dal mio ufficio, di tanto in tanto. Userà questa struttura per allenarsi. Vi sto avvisando, state lontani da lei. Se beccherò qualcuno di voi a gironzolarle intorno, gli farò così male che quando si risveglierà, i suoi vestiti saranno andati fuori moda.»
Alcuni ragazzi ridono.
Il coach socchiude gli occhi grigi e stanchi. «Non voglio che facciate amicizia con lei. Non voglio che vi offriate di farle da guida turistica. Non voglio che le chiediate di uscire.»
Vedo Gunderson che solleva il blocco per coprirsi la bocca; il deficiente sta sorridendo.
«Siate educati. Siate gentili. Ma lasciatela in pace. Siamo intesi?»
La stanza rimane silenziosa.
«Ho detto, siamo intesi?» Il coach urla quando solo pochi ragazzi annuiscono. Alcuni borbottano.
«Sì coach» gridiamo in coro come dei bravi boy scout.
Il coach prende un quaderno a spirale dalla scrivania e si alza. «Vestitevi e andatevene da qui. Coprifuoco stasera alle undici, mi aspetto che siate tutti a casa.»
Mi sfilo i pantaloncini e mi avvolgo un asciugamano intorno alla vita. Apro la doccia, l’acqua fresca si riversa sul mio corpo solido. Insapono, risciacquo. Non sono il membro più alto della squadra, né il più in forma o il più bello, ma me la cavo bene.
Sinceramente, i miei risultati non sono dei migliori, ma non faccio nemmeno schifo, e almeno continuo a far parte della squadra, che è più di quanto si possa dire del mio compagno di stanza, che sguscia accanto a me quando torno verso il mio armadietto.
La spalla ossuta di Gunderson colpisce l’armadietto in cui conservo tutta la mia roba, i suoi occhi piccoli e vivaci mi guardano con un luccichio malizioso.
«Pensi anche tu quello che penso io?» inizia Rex mentre mi asciugo le cosce e il petto, per poi infilarmi un paio di pantaloncini puliti.
«Non ho proprio idea di cosa stai pensando.»
Non so se voglio saperlo.
«A proposito della figlia del coach.»
«Intendi il fatto di starle lontano?» Tiro fuori la borsa, lasciandola cadere a terra. Butto dentro le scarpe da ginnastica. «Quella figlia del coach?»
«Sì.» Si avvicina, un po’ troppo per i miei gusti. «Scommetto che non hai le palle per scopartela.»
Mi fermo e per la prima volta, da quando si è avvicinato, mi giro per affrontarlo. «Sei uscito di testa?»
Perché fa queste stronzate?
Perché lo lasciamo parlare? Dovrei dirgli di stare zitto, mettere fine a questa conversazione, ma resistere non è mai stato il mio punto forte. Se ci fosse un grosso bottone rosso sul muro che dice NON PREMERE... Io lo premerei.
«L’ultima volta che hai avuto un’idea, ci hai messo nei guai.»
Me lo ricordo bene, avevamo tappezzato il campus di fotografie del brutto muso del nostro ex compagno di stanza per aiutarlo a trovare una ragazza da scopare. Aveva funzionato, un po’ troppo, perché se n’era andato con la sua fidanzata sexy, lasciandoci con la sua parte di affitto da pagare e una grande camera da letto vuota che non riusciamo ad affittare.
Per non parlare del coach, che ci sta col fiato sul collo per tutti gli scherzi che gli abbiamo fatto. Lo staff tecnico continuava a definirlo “nonnismo”, voglio dire, tecnicamente sì, forse lo è, ma nessuno si è fatto male, o è morto, o si è ritrovato con i pantaloni abbassati in pubblico.
La parte merdosa di tutto ciò? Io e Gunderson abbiamo dovuto volare basso, lavorare sodo e stare fuori dai guai, visto che ci stanno tenendo d’occhio. Ho dovuto rompermi le palle con gli allenamenti in palestra e sui materassini, solo per provare di nuovo che sono degno di far parte della squadra e che vale la pena tenermi.
Gunderson si avvicina. «Non dirmi che non ci hai fatto subito un pensierino quando l’ha nominata.»
«No, non l’ho fatto.» Prendo una maglietta pulita dal mio armadietto. «Nemmeno mezzo.»
Ma adesso che...
«Perché no?» mi punzecchia, col fiato sul collo e abbassando la voce. «Non credi di riuscire a scoparti la figlia del coach?»
Controllo in giro per assicurarmi che nessuno ci stia ascoltando. «Cristo, potresti evitare di parlare di certe cose qui? Se qualcuno ti sentisse, saremmo fottuti entrambi.»
Lui fa un passo indietro, colpendomi il bicipite. «Pensaci, amico. Se ti scopassi la figlia del coach potresti vantartene per mesi.»
La maglietta mi scivola giù per la testa. «Non sappiamo nemmeno com’è. Potrebbe essere un cesso.»
«Forse sì o forse no, c’è solo un modo per scoprirlo.»
Appallottolo l’asciugamano e lo tiro nel cesto posto all’angolo della stanza, mirando in alto e facendo canestro. Entra al primo colpo.
«Devi smetterla con queste stronzate prima che ti buttino fuori dalla squadra.»
«Non faccio parte della squadra» afferma. «Sono solo il manager. Nessuna pollastrella vuole mai scopare me.»
È vero; nella scala sociale, come manager, Gunderson si trova sul gradino più basso, ben dopo la miriade di atleti e l’élite del corpo studentesco, con i quali le ragazze preferiscono spassarsela.
Manager suona importante, ma in realtà è poco più di un portaborracce.
«Inoltre» continua lui, arrampicandosi sui vetri, «sei molto più bello di me.»
Anche questo è vero.
«Dammi una buona ragione per cui dovrei continuare ad ascoltare le tue cazzate. Perché dovrei rischiare il mio posto in squadra per fare una cosa così stupida?»
Eppure… sarebbe davvero bello, riuscire a convincerla a uscire con me e scoparmela... chiunque sia.
«Perché non riesci a resistere a una scommessa?»
Un altro punto a suo favore: non riesco mai a rifiutare una scommessa.
Prendo la felpa dall’armadietto, chiudo lo sportello e inserisco la combinazione. «Qual è la posta?»
Che cazzo sto dicendo?
Gunderson appoggia una mano contro il muro. «Rendiamo le cose interessanti.»
La mia risata è vuota. «Dovrebbe essere davvero interessante per convincermi ad accettare.»
«Il primo di noi che si scoperà la pollastrella…»
«Oh, vuoi provarci anche tu?» Che diavolo sta pensando di fare?
«Ho avuto qualche minuto per pensarci un po’ mentre resistevi all’idea.»
Giusto, come se avesse dei pensieri che attraversano quella testaccia dura.
Rido.
Aggrotta la fronte. «Non credi che possa farcela?»
Rido di nuovo, sollevando la sacca. «So che non ci riuscirai.»
Mi segue come un cagnolino smarrito. «Il vincitore si prenderà la camera da letto grande, quella che ha appena lasciato Rhett.»
Mi fermo di botto. Muoio dalla voglia di trasferirmi in quella maledetta camera da letto, ma quando se n’era andato Rabideaux, Gunderson e io avevamo concordato che per quella potevamo far pagare di più dal momento che è la stanza più grande delle tre, e abbiamo bisogno di soldi più che di una camera da letto grande.
«La stanza grande?»
Ciliegina sulla torta? Ha il bagno personale.
Lui annuisce. «Quella grande.»
Be’ merda.
L’intera stupida idea mi fa riflettere.
Mi giro verso di lui, sul viso mi appare un sorrisetto compiaciuto, che rispecchia il suo.
Gli tendo la mano.
Gunderson allunga la sua.
Voglio quella camera da letto.
«Affare fatto.»