Cuore di cane-1

2006 Words
Cuore di cane Capii di essere diventato un estraneo quando Anna chiuse dietro di sé la porta della camera da letto. Rimasi per ore a fissare la superficie levigata del legno, nella vana speranza che si disfacesse sotto i miei occhi e mi lasciasse intravedere anche solo per un istante il corpo di mia moglie agitarsi fra le lenzuola che tante volte ci avevano visti dormire abbracciati. Ero profondamente addormentata, quando una luce mi scoppiò negli occhi. Mi svegliò il cane che abbaiava furiosamente al vicino di casa, un ometto con un imbarazzante riporto tinto di nero di seppia che faceva il rappresentante e aveva sempre addosso la stessa misera giacchetta blu elettrico. Era una mattina fredda, una di quelle mattine che non meriterebbero il risveglio di nessuno. Fu solo la frenesia dei guaiti a smuovermi dal letto, che aveva al centro la calda conca accogliente lasciata da una notte di sonno sereno e senza sogni. Corsi d’istinto ad affacciarmi alla finestra e fissai senza intervenire il mio cane spiccare balzi sempre più alti e sbraitare quasi fosse umano contro il vicino che incespicava verso il suo cancelletto, con una ventiquattrore sfondata e un minuscolo ombrello appeso alla mano destra. Certe volte i sogni si avverano. Quel giorno, non so perché, sognai che la valigetta si aprisse e riversasse sullo stretto viale tutto il suo contenuto. E così puntualmente accadde. Il vicino proruppe in una bestemmia colossale e il cane smise persino di abbaiare, mentre pagine e pagine cariche di cifre per me incomprensibili cominciarono a volare dovunque, trasportate da un irridente turbine di vento fuori dal perimetro del mio giardino. Forse avevo sognato anche che Fausto sparisse. Forse era stata colpa mia, dopotutto. Un foglio scritto fitto finì contro la mia finestra facendomi arretrare di un passo e restò incollato al vetro giusto il tempo per leggerne qualche riga. Era una lettera. Egregio dott. Mengoni, in riferimento alla sua ultima comunicazione, con la presente intendo informarla della mia irrevocabile decisione di interrompere ogni rapporto commerciale con la sua… Improvvisamente il vento strappò via il foglio e lo mandò a perdersi in un cielo bianco che odorava di pioggia e mi ritrovai a fissare il mio stesso riflesso su un vetro ormai sgombro. Pioveva. La nostra relazione si sfilacciò lentamente a partire dal giorno in cui andammo all’ospedale a trovare sua madre, poco prima che morisse. Durante il tragitto in auto, non osai rivolgerle la parola perché avvertivo come un muro insuperabile che ci teneva irrimediabilmente lontani, benché fossimo all’interno dello stesso angusto abitacolo. Anna si mangiava le unghie e non parlava, aveva lo sguardo perso sul parabrezza coperto di minuscole gocce di pioggia. Io guidavo lanciandole occhiate sospettose, come se mi aspettassi da un momento all’altro una sua esplosione di pianto o anche solo una smorfia che mi facesse capire cosa stesse provando in quel preciso momento. Non avevo mai dovuto affrontare il dolore, con lei. Non avevo ancora idea di come reagisse e temevo sinceramente che il suo equilibrio, la sua forza, che erano stati alla base del nostro rapporto, fossero destinati a scalfirsi e a spezzarsi come un vecchio muro diroccato. Fino ad allora eravamo vissuti sulla luna. Lontani da tutto e da tutti, chiusi in un mondo perfetto e precario che soddisfaceva misteriosamente le ossessioni e i bisogni di entrambi. Ma davanti a un evento importante come la morte di un genitore, non potemmo far altro che uscire e affrontare tutto quello che ci eravamo sforzati per anni di tenere chiuso fuori dalla porta di casa. Mentre guidavo, la pioggia disegnava strani arabeschi sul vetro, che vivevano appena un istante prima di essere cancellati brutalmente dal movimento ripetitivo del tergicristalli. “Non vuoi parlare?” le chiesi seguendo con lo sguardo il percorso tragicomico di una gocciolina esaurirsi sul fondo del parabrezza. “Non mi va, Fausto, ti prego.” “Invece dovresti sfogarti, secondo me. Con me non dovresti…” “Fausto.” Un cane attraversò la strada, costringendomi a inchiodare. Rimasi immobile col fiato corto a guardare gli occhi malinconici del cane fissarci oltre una frangia scomposta di pelo bagnato. Esitò, con la lingua penzolante fuori dalla bocca socchiusa. Poi riprese a correre, ignaro di essere scampato a una morte atroce sotto la presa delle ruote, e si dileguò nei cespugli contorti che costeggiavano la carreggiata. Arrivammo all’ospedale dopo qualche minuto, senza dire nulla. Anna aveva i capelli bagnati appiccicati alla fronte e quando vide la madre distesa sul letto, immobile, assente, si pulì appena il viso dicendo: “È soltanto la pioggia”. Mio marito era sparito da un mese, ormai. Le serate avevano cominciato a pesarmi di meno, la sua assenza stava cominciando a diventare sopportabile. La cosa più brutta, quando finisce una relazione, per quanto malandata e malsana essa sia, è il vuoto che ti porta dall’essere parte di un meccanismo complesso e magnifico all’essere un ingranaggio rotto dimenticato sul fondo del cassetto da un orologiaio sbadato. Improvvisamente la casa era diventata veramente vuota. Un mattina, però, mi svegliai con uno strano senso di onnipotenza e tolsi ogni sua foto dalla casa. Le cercai con attenzione, le scovai in ogni cornice dimenticata e le consegnai alle fiamme, osservando placidamente il fuoco del camino farne cenere sottilissima. Poi venne il turno degli oggetti che mi ricordavano i nostri anni insieme, i suoi regali, i suoi ultimi pacchetti di sigarette, persino i documenti che teneva nello studio in due pile ordinate ai bordi della scrivania. Bruciai tutto. Al posto del nostro ritratto che tenevamo in camera da letto, sul comodino, misi la foto di mia madre che avevamo utilizzato per il funerale. Aveva la dentiera nuova e i capelli bianchi acconciati da poco da un parrucchiere esperto, in modo da sembrare molto più giovane di quanto in verità non fosse, e trasmetteva una strana sensazione di pace perché mi vegliava col suo sguardo annoiato e superiore come faceva quando ero bambina. La sera, quando la solitudine si faceva troppo pesante e non avevo voglia di guardare la televisione, mi mettevo semplicemente davanti alla foto e parlavo per ore, senza avere bisogno che mia madre rispondesse: mi bastava sapere che da qualche parte stesse ascoltando le mie pene. Provai la parte ancora una volta. Non è difficile, impegnati, cazzo. “Anna,” la voce mi uscì tremula e strozzata. Non andava bene così, forse dovevo concentrarmi su qualcos’altro per riuscire a parlare come avrei voluto. Feci i gargarismi con ardore, mi lavai i denti e mi schiarii la voce. Concentrai la mia attenzione sulla curva delle mie sopracciglia riflessa nello specchio del bagno per riprovarci, questa volta immaginandomi davanti il viso spossato di mia moglie, al ritorno da una giornata di lavoro. “Anna, dobbiamo parlare,” mi riuscì molto meglio. Provai diverse intonazioni, modulando il diaframma come se fossi un cantante lirico, finché non trovai quella che ritenevo più adatta alle circostanze. La mia storia d’amore con Anna può risolversi in una serie di prove allo specchio del bagno, ripensandoci. Avevo cominciato a recitare una parte perché mi trovasse interessante, avevo provato con trasporto ogni parola che le avevo detto per invitarla al cinema, per convincerla a diventare la mia donna, per annunciarle di aver trovato un lavoro. Dopo tanti anni, non riuscivo ancora a immaginare di dirle qualcosa di veramente importante senza provare le parole all’infinito allo specchio, rinchiuso nel bagno con uno spazzolino da denti fra le dita sbiancate dalla tensione. Mi chiesi se anche lei mi trovasse invecchiato, se si fosse resa conto di ogni ruga che mi si era aperta sulla fronte e di ogni capello che avevo perduto per sempre sul cuscino o nello scarico del lavandino. Io mi accorgevo di ogni anno che lei aveva dovuto superare, perché i silenzi che un tempo mi sembravano dolci e sereni si erano fatti stranamente ingombranti e avevano reso ogni cena un’antica e perversa tortura, a cui entrambi eravamo costretti a sottoporci. C’erano solo frasi di stretta utilità. “Metti i bicchieri nel lavandino.” “Non mangiare la pizza con le mani.” “Porto fuori io la spazzatura.” “Domani devi andare in ufficio presto?” Mentre mi lavavo i denti, sentii aprirsi la porta d’ingresso, quindi sospirai e scesi le scale con passo malfermo. “Boogie, qui! Boogie!” Lo persi di vista non appena fummo al parco. Ho sempre odiato i cani proprio per questo motivo, non sono capace di controllarli quanto vorrei. Nonostante il suo carattere burrascoso e tipicamente canino, sentivo di dovere molto a quella bestia che, con la sua lingua umida e le sue orecchie di velluto, riusciva sempre a strapparmi un sorriso. Non capivo soltanto perché continuasse a comportarsi in pubblico in questo modo, mentre in casa sembrava sempre così mansueto. Probabilmente sentiva l’odore della primavera. Cercai la sua coda a sbuffo fare capolino da qualche arbusto striminzito, ma non trovai altro che rifiuti dimenticati dal tempo e qualche foglio di carta. Le pagine del vicino dovevano essere arrivate fino al parco, trasportate dal vento. Tutta la sua ardente corrispondenza col misterioso dottor Mengoni era stata consegnata al quartiere, che ormai si era appassionato alla tragica interruzione dei loro rapporti commerciali e aveva iniziato una vera e propria caccia alle pagine mancanti di quello strano romanzo d’amore e di formalità antiquate. Tra un egregio dott. e uno spett., si annidavano shakespeariane daghe affilate. Mi sistemai sulla panchina più vicina e lessi un’altra lettera, in cui però il vicino sembrava essere ancora in buoni rapporti col suo interlocutore. Oltre alle formule di rito e alle cortesie affettate, si poteva intravedere una certa dose di stima sincera impressa su carta. Malgrado la carta fosse stata rovinata dalla pioggia dei giorni prima, si riusciva a leggere tranquillamente ogni parola all’infuori della firma in calce, che si era disciolta in una chiazza deforme e bluastra. Lessi rapita qualche riga, prima di rivedere la sagoma familiare del mio cane emergere coperta di foglie secche dal fondo del parco. “Boogie, torna qui subito!” Stavolta mi obbedì quietamente e si fece riallacciare il guinzaglio. Dietro di noi, sentii un’ombra togliermi il calore del sole, così mi voltai e cercai di capire chi ci avesse avvicinati. Era un uomo qualunque, alto, con una camicia bianca tenuta slacciata fino al secondo bottone, con le maniche rimboccate al gomito. Pur sembrando incredibilmente accaldato, emanava un ottimo odore di ammorbidente e di pulito, quell’odore tipico di chi ispira fiducia e ammirazione anche nei più completi sconosciuti. “Ha proprio un bel cagnone. Di che razza è?” Quando le restavano poche ore di vita, la madre di Anna entrò in quella fase nota agli esperti del settore con il nome evocativo di canto del cigno. Tralasciando le pur interessantissime questioni terminologiche e ballettistiche, era chiaro anche per me in che cosa consistesse: il suo corpo, con una ammirevole lungimiranza, aveva capito di essere spacciato e dunque sceglieva più o meno consciamente di regalarsi un’ultima, faticosissima ora di benessere per poi lasciarsi andare del tutto. Ero seduto accanto al suo letto con un giornale, quando mia suocera entrò in quella fase. “Che cosa stai facendo qui?” mi chiese aprendo perfettamente gli occhi e squadrandomi con piglio severo, come aveva sempre fatto quando ancora era in perfetta salute. Le rivolsi uno sguardo compassionevole, pensando ad Anna. Mi avvicinai e le sistemai il più amorevolmente possibile il cuscino e le coperte, mentre la signora esplorava brevemente la stanza con gli occhi e ricostruiva mentalmente cosa era successo dal momento in cui aveva perso conoscenza, due giorni prima. Doveva avere ricordi molto confusi a riguardo. “Penso di essere al capolinea, non è così?” Si mosse appena sotto le coperte, le gambe e le braccia erano finissime. “Alla fine non è stata una brutta esperienza”. “Parli dell’ospedale?” “Parlo di tutto quanto. Dov’è Anna?” “È dovuta andare a lavoro, sarà di ritorno fra qualche minuto ormai. È rimasta a vegliarti tutta la notte, dovresti essere orgogliosa di lei.”
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