Cuore di cane-2

2005 Words
La vecchia non mi degnò di una risposta. Sentiva la mia ostilità e non avvertiva alcuna necessità di dissimulare il disprezzo che aveva sempre provato nei miei confronti, sin dal momento in cui le ero stato presentato a cena da una figlia ventunenne, sognante ed estasiata. Senza dentiera e coi capelli sconvolti dalla malattia, sembrava decisamente meno minacciosa, come un falco con la testa imprigionata in un cappuccio. “So come ti comporti con lei,” mi disse soltanto, dopo un silenzio che pareva fatto di cemento, “non durerà ancora a lungo.” “Cosa diavolo ne sai tu?” “Dicono che la morte apra gli occhi alle persone, forse è vero. So perfettamente cosa farai e non so se provare più pena per te o per mia figlia.” “Non sai cosa stai dicendo.” “Vi detestate e non avete il coraggio di ammetterlo. Perché stai qui con me, quando potresti sparire senza rendere conto a nessuno? Quando non ci sarò più capirai cosa sto dicendo.” “Ti preferivo in coma, dico davvero.” “Anna?” “Mmmh.” “Anna, stai dormendo?” “Alex, ti prego, sono le due.” “Stavo pensando una cosa.” “Mmmh.” “Anna, per piacere. È una cosa importante.” “Non ne possiamo parlare domattina, magari? Sono stanchissima, è stata una giornata davvero…” “Credo sia molto importante. Non riesco proprio a dormire, mi sento osservato.” “Da chi? Se stai parlando della foto di mia madre, ti avviso che…” “Macché foto, non sono ancora così paranoico. Mi sento osservato dal tuo cane, anche adesso che lo sento abbaiare giù da basso. Pensi che sia una cosa stupida?” “Penso che dovresti dormire come sto cercando di fare io. Buonanotte.” “No, ascolta. Stai dormendo? Come fai a dormire a comando, così? Anna…” “Alex, mi devo alzare presto! Piantala, dai.” “Non so se hai mai guardato negli occhi il tuo cane. Prova a farlo.” “Certo che l’ho guardato negli occhi.” “Non ci hai visto niente di strano?” “Ci ho visto gli occhi di un cane. Color nocciola, rotondi.” “Io quando li guardo ho i brividi. Anche la prima volta che ci siamo incontrati, al parco. Da lontano il cane mi è sembrato un ottimo pretesto per provarci con una bella ragazza, ma da vicino…” “Stai dicendo che mi sei venuto incontro appositamente con l’intenzione di potarmi a…” “Non metterla così. Sai come sono fatti gli uomini, dopotutto.” “Che schifo. Dovresti ringraziare quel cane allora, invece di preoccuparti dei suoi occhi o del suo muso. È un cane normalissimo, come tutti i cani del mondo.” “A me mette i brividi. Guardalo bene, ha gli occhi di un uomo.” “Adesso dormi. Boogie è giù a rincorrere le lucertole come ogni notte, il vicino sta scrivendo le solite lettere minatorie al dottor Mengoni, la tua povera Anna sta cercando di riposare un pochino prima di correre in ufficio e…” “Non è che potresti venderlo? Il cane, dico.” “Sei impazzito?” “Mi fa paura!” “Alex, adesso dormi. Non ho voglia di parlare di queste cose.” “Non ti sto dicendo di abbandonarlo in autostrada, solo di mettere qualche annuncio.” “Buonanotte.” La prima notte che passai fuori di casa mi distrusse. Sentire così amplificati tutti i rumori della natura che normalmente un uomo sente dal proprio letto, protetto dalla robusta affidabilità di quattro solide mura e di un soffitto uniforme, fu come vedere per la prima volta il mondo nella sua interezza. Mi resi conto, solo toccando l’erba umida e saggiando la consistenza burrosa della terra, di quanto diversi fossero di notte i posti che ero abituato a conoscere di giorno. Quando il sole spariva dietro la modesta fila di case e di alberi che delimitava fisicamente il mio quartiere, infatti, prendeva il sopravvento un buio colloso e invadente, che creava strane ombre inquietanti giocando coi lampioni e faceva risplendere fitte nel cielo intere costellazioni magnifiche e indifferenti. Avevo fatto un passo decisivo, oltre il quale non sarei più potuto tornare indietro. Un po’ mi dispiaceva per Anna. Saperla sola, in una casa piena di ricordi e di rimpianti, mi faceva più paura delle strane forme che la luce fredda del lampione proiettava sull’erba e sugli alberi del parco. Era stata una decisione crudele, andarsene così, ma pur sempre necessaria per non morire. Avevo capito guardando sua madre spegnersi nel letto di un ospedale bianchissimo che il mio tempo non era infinito e che stavo perdendo giorni, mesi e anni preziosi solo per non guardare in faccia la realtà. Non amavo più mia moglie, eravamo due sconosciuti. Sedendo muto sulla panchina di ferro e di legno, mi piaceva pensare di averlo fatto anche per il suo bene. Avrebbe pianto, certo, si sarebbe disperata ma un giorno avrebbe capito. Forse mi avrebbe anche ringraziato. Le infinite possibilità che mi si erano aperte davanti mi rendevano euforico. Mi tremavano i polsi. Come chi ha tanta strada di fronte e poche orme alle spalle, mi alzai e lasciai che gli irrigatori automatici del parco mi battezzassero per una vita nuova. “Che occhi hai, eh? Bello. Hai gli occhi di un bellissimo cane. Non ascoltarlo.” Mi feci leccare il viso da Boogie, che mi aveva raggiunto scodinzolando non appena mi aveva sentito aprire la porta d’ingresso. Aveva il pelo umido e puzzava terribilmente. In fondo al giardino, accanto al vialetto di sassi bianchi che la notte aveva reso scivoloso di brina, vidi un’altra pagina delle memorie del mio povero vicino. Curando che non fosse nei paraggi, andai a prenderla e me la infilai velocemente nella tasca del pigiama. La curiosità aveva preso più o meno tutti, nel quartiere: soltanto Alex, che comunque restava un nuovo arrivato, sembrava essere insensibile a quell’interesse morboso per la vita professionale del povero ometto col riporto e la ventiquattrore nera. Il mio cane mi raggiunse scodinzolando e rimase a fissare il cancello con un’attenzione particolare. Aveva una sensibilità molto superiore ai nostri sensi umani, certe volte lo vedevo assorto, concentrato su qualcosa che per me era completamente invisibile. Per fortuna, almeno, non dava nessuno spunto ad Alex per ingigantire la sua paura: certe volte lo sorprendevo a osservare il cane con una strana aria circospetta. Non gli avrebbe mai fatto del male, ne ero sicura. Ma non lo conoscevo ancora abbastanza bene per poterne essere certa, ci eravamo conosciuti solo un paio di mesi prima. Il tempo passava più veloce ormai, Fausto stava diventando un ricordo e non faceva più male come una volta. Mi inginocchiai, guardai negli occhi Boogie e lo abbracciai. “Non fare così! Ascoltami, forse non ti eri accorta di nulla? È questo che mi vuoi dire? Adesso non piangere, per piacere, non piangere. Mi fai andare in bestia quando piangi. È la tua arma preferita, ogni volta che non sai come rispondere a qualcosa che ti faccio notare, ti metti a piangere e lasci che siano le lacrime a fare tutto. Ma le lacrime non risolvono nulla, lo sai anche tu. È da quando è morta tua madre che non mi rivolgi la parola, ti incontro semplicemente perché abitiamo nella stessa casa. Non siamo più marito e moglie, siamo coinquilini! Tieni un fazzoletto, dai. Prendilo. Non siamo più marito e moglie, ti dicevo, ormai è già tanto se ci salutiamo. Non sto dicendo che sia stata colpa tua, assolutamente… Cazzo, non sai come mi sento a dirti queste cose, non è colpa di nessuno, okay? Semplicemente certe volte le cose si allentano e l’amore finisce; non siamo i primi e non saremo nemmeno gli ultimi a vivere una fase del genere. Non voglio rinnegare tutti i bei momenti che abbiamo passato insieme, anzi li porterò sempre nel mio cuore… Okay, questa potevo risparmiarmela, troppo melensa, ma è così. Siamo stati molto bene, io sono stato veramente felice con te, ma ormai è finito tutto. Mi dispiace. Mi sento in colpa, credimi, ma certe volte bisogna essere realisti. E noi, realisticamente, non possiamo più stare insieme facendo finta che le cose vadano bene. Cerca di prendere la cosa con filosofia. Voglio dire, cerca di vedere la cosa come… Insomma, hai capito. Mi dispiace davvero, Anna.” Certe volte, a letto, mi dimenticavo della sua assenza. Mi voltavo e abbracciavo Alex, convinta che si trattasse ancora di Fausto. Per fortuna non confusi mai i nomi e non commisi il grave errore di aumentare la già sviluppata gelosia del mio nuovo compagno. Fisicamente non avevano molto in comune eppure, guardando le loro schiene dalla mia prospettiva in penombra, avevo la netta impressione che fossero la stessa persona. Alex era entrato nella mia vita in un momento di fragilità, aveva approfittato della mia debolezza a suo vantaggio, ma non l’aveva fatto con cattiveria. Aveva colmato la mia solitudine. Tanto bastava. Ogni giorno, quando rincasava per l’ora di cena, mi toccava sul viso con le mani calde e mi baciava. Sapeva di menta. Forse la mia confusione dipendeva dall’odore. Siamo molto più simili agli animali di quanto non crediamo, in fondo: annusando i capelli chiari di Alex sul cuscino e chiudendo gli occhi, Fausto mi tornava in mente con prepotenza. Gli odori erano molto più pericolosi delle foto, da questo punto di vista. Erano ricordi pronti a esplodere. “Mi spiace di non avere un tuo vestito, mamma,” dissi una sera alla fotografia che tenevo in camera, “mi piacerebbe poterti ricordare come faccio con Fausto. I ricordi non dovrebbero farmi paura, dovrebbero rendermi più giudiziosa. Vorrei ricordare anche te.” Quella vecchiaccia non aveva fretta, mi ricordo che impiegò una vita per morire, in un certo senso. Dal letto comandava e dispensava consigli, come Socrate dopo aver bevuto il veleno, e Anna era pronta a soddisfare ogni sua richiesta, senza nemmeno avere la possibilità di ribattere alle sue angherie. Fin da quando era piccola l’aveva schiacciata e anche da vecchia, ora, riusciva a succhiare dal suo corpo sottile ed esausto ogni stilla di linfa vitale, per strappare al calendario un altro misero giorno di non vita, costretta in quel letto bianco e minaccioso. Non aveva fretta. Mi guardava con sufficienza e mi giudicava. Talvolta la sentivo parlare fitta con mia moglie, facendo schermo alla bocca con una mano nervosa e bluastra per impedirmi di capire cosa stesse dicendo. Probabilmente le stava soltanto suggerendo di trovarsi un uomo più adeguato alle sue alte aspettative. Stare con Anna non aveva aiutato molto la mia autostima traballante, perché mi sentivo piccolo e docile al suo fianco, come un bambino o come un animale da compagnia. Ogni tanto mi rifilava una carezza, ma non ero molto altro che un dettaglio nella vita perfetta che la madre aveva sempre cercato di costruire con lei. Sarebbero migliorate le cose, dopo l’uscita di scena della vecchia? O l’equilibrio si sarebbe rotto per sempre? La stavo perdendo già da tempo, stavo perdendo il mio posto. Una sera, mentre aspettavo mia moglie sedendo quietamente al capezzale di mia suocera, accadde qualcosa che mi turbò parecchio. Stavo leggendo un giornale, svogliato. Scorrevo le pagine guardando appena le immagini. A un tratto, nel silenzio assoluto in cui l’ospedale era immerso, mi parve di sentire un rumore particolare. Uno stridio. Mi alzai, piegai il giornale e cercai la fonte del rumore fuori dalla finestra, ma non riuscii a trovare nulla che potesse produrre un verso del genere: fu solo quando mi voltai a guardare mia suocera che capii ogni cosa. La sera, davanti al camino, io e il mio cane restavamo in silenzio per un’ora. Non avevo molta voglia di parlare. Era una fortuna che avessi trovato immediatamente un compagno di vita che non mi facesse pesare l’assenza di Fausto e di mia madre eppure sentivo da qualche parte, nel profondo, che Alex non era la persona adatta per me.
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