CAPITOLO IX

2493 Words
CAPITOLO IX Quando Spilett, Harbert e Nab seppero dell'accaduto, non si turbarono come Pencroff avrebbe creduto. Per lui, il disastro era gravissimo. Ma Nab, felice di aver ritrovato, e sano e salvo, il suo padrone, non lo ascoltò nemmeno; e Spilett disse al marinaio: - Vi assicuro, Pencroff, che non me ne importa proprio un gran che. - Ma lo sapete che non abbiamo più fuoco? - Peuh... - E neanche un mezzo per riaccenderlo? - Pazienza. - Ma, signor Spilett... - Non è qui, con noi, Cyrus Smith? Non è qui, vivo e sano? E allora state sicuro che troverà bene il modo di procurarci del fuoco. - Con che cosa? - Con niente. Che cosa poteva rispondere Pencroff? Niente, perché, in fondo, divideva egli pure la fiducia dei compagni nell'ingegnere. Per loro, l'ingegnere era un piccolo mondo, un concentrato di tutta la scienza e di tutta la intelligenza umana. Trovarsi in un'isola deserta con Cyrus Smith era come trovarsi in una grande città americana senza di lui. Con lui, non sarebbe mancato niente; con lui, era inutile disperare. Se fossero venuti a dire a quei naufraghi che una eruzione vulcanica stava per distruggere quella terra, che quella terra stava per sprofondare negli abissi dell'Oceano, essi avrebbero tranquillamente risposto: - C'è qui Cyrus, andate a dirlo a lui. Intanto, però, l'ingegnere dormiva profondamente, in preda a una prostrazione provocata dai disagi di quel lungo trasporto, e non si poteva ricorrere a lui. La cena allora doveva necessariamente essere fredda e magra. Finita la carne di tetras, portati via dal mare i couroucus, non c'era che... rinviare a miglior occasione il pranzo. Così, prima di tutto, venne portato l'ingegnere dentro la grotta, nel punto meglio riparato, e disteso sopra una cuccetta di alghe secche. La notte era scesa, e, con la notte, un freddo acuto che, penetrando per le fessure della grotta sconvolta dai marosi, tormentava i naufraghi. Anche l'ingegnere si sarebbe trovato assai male, se i suoi compagni, levatisi le giacche, non l'avessero sollecitamente coperto. Per tutta cena, quella sera ci si dovette accontentare dei soliti litodomi abbondantemente raccolti sulla spiaggia da Harbert e da Nab. Ma Harbert, ai molluschi, aggiunse una certa quantità di alghe commestibili che aveva trovato sopra alcune alte scogliere: erano alghe gelatinose assai ricche di elementi nutritivi. Il giornalista e i suoi compagni le gustarono, dopo i molluschi, e le trovarono abbastanza buone. - E' proprio tempo - osservò il marinaio - che l'ingegnere venga in nostro aiuto. Nel frattempo, il freddo si era fatto pungente, e non c'era alcun mezzo , per difendersene. Il marinaio cercò tutti i modi possibili per accendere un po' di fuoco, e Nab l'aiutò del suo meglio. Aveva trovato delle erbe secche e, sfregando energicamente due pietre, riuscì a ottenere delle scintille; ma le erbe secche non erano sufficientemente infiammabili, e non si accesero. Insomma, quel procedimento fallì. Pencroff tentò allora di fregare due pezzi di legno, all'usanza dei selvaggi. Certo, i movimenti che Nab e il marinaio impressero ai due legni, se non bastarono a produrre il fuoco, sarebbero bastati a far bollire una intera caldaia. Ma, quanto a fuoco, il risultato fu nulla. I due pezzi di legno si riscaldarono: i due operatori ancora di più; e questo fu tutto. Dopo un'ora di quella erculea fatica, Pencroff, tutto bagnato di sudore, buttò via i due legni, e brontolò: - Quando verranno a dirmi che i selvaggi accendono il fuoco in questa maniera, farà caldo anche d'inverno. Accenderei piuttosto le mie braccia, fregandole l'una contro l'altra. Ii marinaio sbagliava, nel negare l'efficacia di quel procedimento. I selvaggi ottengono veramente il fuoco; ma i loro movimenti sono rapidissimi, e poi non tutte le qualità di legno servono allo scopo; e infine c'è il «colpo», ossia il gesto preciso; ed è probabile che Pencroff non l'avesse... Comunque, il cattivo umore del marinaio non fu di lunga durata. I due pezzi di legno buttati via da lui, erano stati raccolti da Harbert che si era accinto vigorosamente all'impresa. - Frega, frega, figliolo - lo esortò ridendo Pencroff. - Sì, frego; ma non ho altro scopo che di riscaldarmi un poco; e presto avrò caldo come te, Pencroff. E difatti, fu così. Quanto al fuoco, bisognò rinunciarvi, per quella notte. Spilett ripeté per la ventesima volta che al fuoco avrebbe senz'altro provveduto l'ingegnere; e, in attesa, si stese sulla sabbia, in un angolo della grotta, e ben presto tutti lo imitarono. Top dormiva accucciato ai piedi del suo padrone. L'indomani, 28 marzo, svegliandosi che erano le otto del mattino, Cyrus Smith si vide intorno i suoi compagni che aspettavano il suo risveglio, e subito chiese: - Isola o continente? Era, come si vede, la sua idea fissa. - Signor Cyrus - gli rispose Pencroff. - Non ne sappiamo proprio nulla. - Non lo sapete ancora? - Oh, ma lo sapremo presto - aggiunse il marinaio. - Basterà che voi ci guidate un poco per questo paese. - Credo che sarò in condizioni di farlo - disse l'ingegnere alzandosi e tenendosi dritto in piedi senza troppo sforzo. - Ecco una bella cosa! - esclamò Pencroff. - Piuttosto - aggiunse Cyrus Smith, - sento che sto per morire di fame. Amici miei, un po' di cibo, per piacere. Penso che avrete un po' di fuoco. A queste parole fece seguito un desolato silenzio di tutti; poi il marinaio, sospirando, disse: - Ahimè, signor Cyrus, non abbiamo neanche un po' di fuoco; o, meglio, non ne abbiamo più. E gli raccontò quello che era accaduto il giorno prima, divertendo l'ingegnere con la storia dell'unico zolfanello e dei suoi disperati e vani tentativi per procurare del fuoco secondo l'uso dei selvaggi. - Beh, vedremo - fece l'ingegnere; - se non potremo procurarci qualche cosa che assomigli a un'esca... - Allora?... - Allora, fabbricheremo degli zolfanelli. - Chimici? - Chimici. - Facilissimo, come vedete - intervenne Spilett, battendo una mano sulla spalla di Pencroff. Quanto a Pencroff non era dello stesso parere circa la facilità di quella fabbricazione, ma non disse verbo. E tutti uscirono. Il tempo si era fatto bello, un sole fulgente brillava sul mare e metteva iridescenze dorate sopra la muraglia di granito. Dopo aver guardato in giro per poco, l'ingegnere si sedette sopra un sasso, Harbert gli offrì una manciata di litodomo e di alghe. - Non abbiamo altro, signor Cyrus. - Oh, grazie, ragazzo mio. Basterà, almeno per questa mattina. E mangiò con appetito quei magri cibi che annaffiò con l'acqua fresca e pura tratta dal fiume in una conchiglia. Intorno a lui, i suoi compagni lo guardavano in silenzio; e Cyrus, rifocillatosi, cominciò: - Allora, amici miei, non sapete ancora se il destino ci ha buttati sopra un'isola o un continente? - No. - Lo sapremo domani. E fino ad allora, non abbiamo niente da fare. - Oh, sì - fece Pencroff. - E che cosa? - Del fuoco. - Ne faremo, Pencroff. Ma, a proposito, mentre ieri mi trasportavate, mi è parso di vedere verso occidente una montagna che domina tutta questa zona. O m'inganno? - No, no; la montagna non c'è - lo assicurò Spilett, - e dev'essere abbastanza alta. - Bene, domani saliremo sulla sua cima e vedremo se siamo sopra un'isola o sopra un continente. Fino a quel momento, non possiamo far nulla. - Del fuoco, signor ingegnere - ripeté l'ostinato marinaio. - Ma sì, ma sì, ci sarà anche il fuoco - intervenne Spilett. Un po' di pazienza, Pencroff! Il marinaio guardò Spilett con aria di rimprovero, come se volesse dirgli: «se non ci foste che voi, qui, addio speranza di gustar mai dell'arrosto!». Ma non gli disse nulla. Cyrus Smith non aveva detto parola, pareva preoccupatissimo di questa faccenda del fuoco, ma, dopo qualche secondo di riflessione, disse: - Amici miei, la nostra situazione è proprio miserrima; ma ha questo di buono: che è semplicissima. O siamo sopra un continente, e allora, a costo di fatiche più o meno dure, arriveremo a qualche luogo abitato; o siamo sopra un'isola, e in questo caso due sono le ipotesi: o essa è abitata, e cercheremo di sistemarci coi suoi abitanti, o essa è disabitata, e ce la caveremo da soli. - Sì, più semplice di così... - fece Pencroff. - Ma, isola o continente - chiese Spilett - dove pensate mai che l'uragano ci abbia gettati? - Con precisione proprio non saprei dirvi; presumo sopra una terra del Pacifico. Difatti, quando abbiamo lasciato Richmond, il vento soffiava da nord-est, e la sua stessa violenza ci dimostra che non ha dovuto subire delle variazioni di direzione. Se la sua direzione si è dunque mantenuta da nord-est a sud-ovest, noi abbiamo traversato gli Stati della Carolina del nord e del sud, della Georgia, il golfo del Messico, il Messico e quindi una porzione del Pacifico. Credo che il percorso coperto dal pallone non sia stato inferiore alle sei o sette miglia, e, per poco che il vento abbia variato d'un mezzo quarto, ha dovuto portarci o sull'arcipelago di Mendana, o sulle Pomotou, oppure, se soffiava con una velocità maggiore di quanto io pensi, anche sulle coste della Nuova Zelanda. Se quest'ultima ipotesi fosse la vera, il nostro rimpatrio sarebbe facilissimo. Inglesi o Maori, troveremo sempre qualcuno con cui parlare. Se, viceversa, questa costa appartiene a qualche isola deserta di qualche arcipelago della Micronesia, potremo vederlo dall'alto della montagna, domani, e allora studieremo di sistemarci qui come se non dovessimo andarcene mai più. - Mai più?! - esclamò Spilett. - E siete voi che ci dite mai più?! - Meglio sempre prevedere il peggio, e serbare soltanto la sorpresa del meglio. - Ha ragione - intervenne Pencroff; - ha ragione il signor ingegnere. Bisogna poi anche sperare che quest'isola, se è un'isola, non sia proprio all'infuori delle rotte delle navi... - Ma non sapremo mai niente di preciso fino a quando non avremo fatto la salita di quella montagna, amici miei. - Domani... - intervenne pensoso ed esitante Harbert; - domani vi sentirete poi in condizione di poter affrontare un'escursione come quella? - Io lo spero - gli rispose l'ingegnere; - ma a una condizione: che Pencroff e te vi dimostriate dei bravi cacciatori. - Signor Cyrus - gli rispose pronto il marinaio, - dal momento che ci parlate di selvaggina, io vi dirò che se avessi la certezza di poterla fare arrostire al mio ritorno così come ho la certezza di portarvela qui alla grotta... - Beh, voi portatela, Pencroff. Fu così deciso che Cyrus e Spilett sarebbero rimasti alla grotta per esaminare la costa e salire fino all'altipiano, mentre Nab, Pencroff e Harbert sarebbero andati a compiere un lungo giro nella foresta per far provvista di legna e dare addosso a tutta quella selvaggina di piuma o di pelo che avessero potuto trovare. Verso le dieci del mattino, partirono, Harbert tutto fiducioso, Nab felice e Pencroff mormorante tra sé e sé: - Se quando torno trovo del fuoco, è segno che è sceso un fulmine ad accenderlo... Poi chiese ai suoi due compagni: - Che facciamo, prima? I cacciatori o i legnaioli? - Facciamo i cacciatori - gli rispose Harbert. - Vedo Top che punta già. - E allora andiamo a caccia. Al ritorno, passeremo di qui a fare la provvista di legna. Strapparono tre grossi rami a un albero e seguirono Top che andava correndo fra l'alte erbe. Ma, invece di seguire la sponda del fiume, questa volta, Pencroff si diresse direttamente verso il cuore della foresta. Erano sempre le stesse conifere che, qua e là, avevano dimensioni gigantesche e parevano quasi indicare che la latitudine di quella ignota terra fosse più elevata di quanto non supponesse l'ingegnere. Ogni tanto, qualche radura appariva completamente coperta di legna secca, e in tanta quantità da formare una riserva di combustibile inesauribile. Orientarsi in mezzo a quel colonnato di conifere era assai difficile; per questo, il marinaio segnava la sua strada spezzando dei rami che lasciava penzoloni sugli alberi, cosicché sarebbe stato poi facile, nel ritorno, riconoscere il cammino da seguire. Ma, forse, sarebbe stato meglio seguire ancora il corso del fiume, perché, dopo una buona ora di cammino, non avevano incontrato ombra di selvaggina. Top, correndo fra l'erbe, non aveva fatto levare che degli uccelli che non si lasciavano avvicinare. Invisibili erano anche i couroucus, e pareva ormai fatale che il marinaio si decidesse a tornare in quella parte acquitrinosa della foresta dove il giorno innanzi aveva così fruttuosamente «pescato» i tetras. - Pencroff mio - disse a un certo punto Nab, - se è tutta questa la selvaggina che avete promesso di portare a casa, non ci vorrà certo un gran fuoco per arrostirla. - Pazienza, Nab; non sarà certo la selvaggina che mancherà al nostro ritorno. - Non avete fiducia nel signor ingegnere? - Sì. - Ma non credete che potrà fare del fuoco? - Lo crederò quando vedrò la fiamma scoppiettare sul focolare. - La vedrete, dal momento che il mio padrone ve lo ha assicurato. - Staremo a vedere. Continuarono il cammino, e Harbert trovò un albero dai frutti commestibili: era un pino carico di pignoli, piccole mandorle speciali, in perfetto stato di maturità. Ne raccolsero moltissime, e Pencroff, riavviandosi, osservò: - Ecco qua: delle alghe come pane, dei molluschi come carne e dei pignoli come frutta: il pranzo tipico di chi non possiede nemmeno un fiammifero! - Non lamentiamoci, Pencroff! - lo ammonì Herbert. - Non mi lamento, figliolo mio; osservo soltanto che la carne è un po' poco rappresentata in questa lista. - Top ha visto qualcosa... - gridò Nab correndo verso un folto dove il cane si era lanciato abbaiando. Ai suoi latrati si mescolavano degli strani grugniti. Pencroff e Harbert avevano seguito Nab. Se c'era qualche capo di selvaggina, non era il momento di stare a discutere sul modo di farla cuocere; bisognava prima di tutto prenderla! Appena entrati in quel folto, videro Top alle prese con una bestia che aveva ghermito per un orecchio: era una specie di piccolo porco, lungo poco meno di un metro, nerastro, dal pelo duro e rado, che si teneva disperatamente aggrappato a terra con le sue zampe membranose. Harbert riconobbe subito in quell'animale un grosso roditore. Esso, invece di lottare contro il cane, se ne stava immobile, guardando con gli occhietti terrorizzati i tre uomini, che forse gli erano uno spettacolo nuovissimo. Nab, armato del suo bastone, stava per colpirlo, quando l'animale si svincolò dalla stretta di Top lasciandogli un pezzo d'orecchio in bocca, gettò un minaccioso grugnito e si buttò contro Harbert, rovesciandolo mezzo a terra e sparendo poi nel folto della foresta. - Ah, il manigoldo! - gridò Pencroff. Tutti e tre si lanciarono sulle peste di Top e già stavano per raggiungerlo quando il cane si buttò dentro un vasto acquitrino steso all'ombra di pini secolari. Nab, Herbert e Pencroff si fermarono a guardare. Top nuotava e cercava il roditore, che si era accucciato sul fondo dello stagno e non compariva. - Dovrà pur tornare alla superficie a respirare! - disse Harbert. - Non si annegherà? - chiese Nab. - No; è quasi un anfibio. Stiamo attenti. Mentre Top nuotava in mezzo allo stagno, Pencroff e Harbert andarono a collocarsi sulle rive in modo da chiudere ogni via di ritirata al roditore. Harbert, del resto, non si era ingannato; dopo qualche minuto l'animale riaffiorò alla superficie. Top con un balzo gli fu addosso, impedendogli di rituffarsi e trascinandolo verso la riva, dove Nab lo finiva con una randellata precisa. - Evviva! - esclamò Pencroff. - Datemi dei carboni ardenti, e vi preparerò un arrosto succulento. Col roditore sulle spalle, Nab si avviò, seguito dai due compagni, per la strada del ritorno. Dall'altezza del sole, giudicarono che dovessero essere le due del pomeriggio. A ritrovare la strada del ritorno, nel folto della foresta, li aiutò assai l'istinto dell'intelligente Top. Mezz'ora dopo, infatti, erano in vista della grotta. E allora Pencroff si fermò, stettero un attimo silenzioso, poi tendendo la mano verso la grotta, gridò: - Evviva! Evviva! Guardate, guardate! Una colonna di fumo saliva su dalla grotta e si perdeva in lente volute nel cielo.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD