CAPITOLO 1
La Rochelle, ottobre 1307
Ora che la brezza era caduta, tutto sembrava immobile: il sole al tramonto era sospeso sopra la linea dell’orizzonte, gli ultimi raggi sfioravano la superficie delle acque. Le increspature trascoloravano dal viola al grigio plumbeo. Non c’erano navi in vista: tutti i pescherecci erano rientrati in porto. Uomini e donne erano tornati alle loro case. Persino i gabbiani, stanchi di volare, si erano rifugiati nei nidi. La città di La Rochelle, immersa nel silenzio, si preparava alla cena e al riposo. In quei tempi privi di elettricità (come pure di petrolio, patate, pomodori, mais, cioccolato, tabacco e mille altre cose) il tramonto era una sentenza inappellabile che condannava tutti, signori e miserabili, all’oscurità o alla fumosa luce delle torce. Stava per calare il sipario su un giorno insolitamente sereno e soleggiato di quell’autunno, per altri versi tempestoso, dell’anno del Signore 1307.
Sulla deserta banchina del porto, nella luce del crepuscolo, due uomini passeggiavano in silenzio, avanti e indietro, come se non avessero un pensiero al mondo e fossero lì soltanto per contemplare lo spettacolo del sole che si inabissava nell’oceano. Se però qualcuno li avesse osservati da vicino, avrebbe visto nei loro sguardi rivolti all’orizzonte una totale mancanza di interesse per un tramonto così pittoresco.
Bastava guardarli per capire che erano soldati. Le folte barbe non riuscivano a nascondere le cicatrici che sfiguravano le guance. Le tuniche bianche erano ornate da croci rosse con le estremità dei bracci un po’ svasate. Quegli uomini erano templari e avevano alle spalle anni di milizia armata in Terrasanta. Il più alto dei due era il comandante della flotta di stanza a La Rochelle. Il suo nome era Geoffroy de Monredon. L’altro era Arthur Knolles, uno scozzese di statura inferiore alla media, ma combattente di razza, arrivato da Cipro pochi mesi prima con il suo Buscart e altre navi di scorta.
Monredon, che faticava a dominare una crescente inquietudine, ebbe uno scarto improvviso. Diede le spalle al mare e si voltò a guardare la città, le sue file di case che digradavano con regolarità dalle mura giù fino al porto formando quasi un anfiteatro: una prospettiva armonica, interrotta soltanto dalla mole del tempio.
«Questo ritardo mi sfinisce» sbottò.
«È ancora presto per essere nervosi» rispose l’altro senza alzare lo sguardo.
Monredon gli lanciò un’occhiata piena di irritazione. Knolles era bravissimo a dominare i propri sentimenti ma non teneva in alcun conto i sentimenti altrui. Si conoscevano da quasi vent’anni, fin dai tempi della difesa di San Giovanni d’Acri, e non erano mai stati in termini di amicizia. Ciononostante, in quel lungo assedio concluso con una ritirata, il temperamento di Knolles era stato prezioso: grazie al sangue freddo dello scozzese, i templari avevano potuto organizzare lo sganciamento e riparare a Cipro. Con perdite di vite umane, certo; ma questa è la guerra, purtroppo. Se non altro, la maggior parte dei cavalieri era stata messa in salvo, insieme ai tesori dell’ordine: reliquie, ori, sete, spezie. E tanti libri, carte geografiche, carte nautiche. Un patrimonio di conoscenze.
«Se perdiamo l’occasione di partire stanotte, la faccenda si complica» disse Monredon. «Potremmo andare a ridossarci sotto l’Île de Ré.»
Knolles fece una smorfia.
«Metteremmo al riparo le navi e gli equipaggi. Ma se il messaggero arriva con i soldati alle calcagna e non ci trova in porto ad aspettarlo, è perduto.»
Monredon allargò le braccia.
«Knolles, so cosa state pensando: buona parte del territorio fra qui e Parigi è feudo del re d’Inghilterra e finché sta sulle proprietà del re d’Inghilterra il messaggero può appellarsi a Londra. Ma la sovranità è sempre francese. Filippo può far arrestare chiunque nei territori di un suo feudatario. E secondo voi, in due giorni di cavalcata attraverso mezza Francia, il messaggero potrebbe essere raggiunto dalle guardie di Filippo soltanto alle porte di La Rochelle? No. Non ci credo. O arriva subito, con le ali ai piedi, o non arriva più. Probabilmente l’hanno già arrestato. Forse non è nemmeno riuscito a uscire da Parigi.»
Lo scozzese alzò le spalle.
«Può darsi. Ma secondo me è ancora in viaggio. Doveva percorrere più di trecento miglia sotto falso nome, montando ronzini di posta, compiendo giri viziosi per sfuggire agli inseguitori e magari anche sguainando la spada per farsi largo fra banditi e tagliagole.»
Monredon aveva una risposta sulla punta della lingua, ma non la disse. Non c’era scopo a discutere di cose per le quali non si poteva fare altro che attendere. E poi, dopo tutto, Knolles non aveva torto. C’era di mezzo l’onore: i templari non potevano abbandonare un compagno d’armi in pericolo. Non potevano ritirarsi per paura di combattere. Erano soldati, abituati a gettarsi nella mischia per vincere o morire, confortati dalla promessa del paradiso.
Peccato che negli ultimi vent’anni il Padreterno si fosse dimostrato piuttosto distratto nei confronti dei poveri soldati di Cristo e del tempio di Salomone, pensò Monredon. Accidenti, sarebbe bastato così poco per conservare un presidio cristiano in Terrasanta! Una spedizione di soccorso. Poche navi. Poche migliaia di soldati. Invece niente, nemmeno un’ambasceria agli arabi, niente! Ed eccoli qua, i poveri soldati di Cristo, scacciati dall’Oriente e maltrattati in patria.
«D’accordo, Knolles. Sia come Dio vuole. Il Buscart è pronto a salpare?»
«Abbiamo ultimato il carico mezz’ora fa. Possiamo sciogliere gli ormeggi in pochi minuti. Immagino che anche la Templière sia pronta a muovere.»
«Naturalmente. E così pure le altre navi della flotta…» Improvvisamente Monredon alzò la testa, preoccupato. «Ma che succede lassù?»
«Dove?»
«Alla porta orientale.»
Il sole era ormai mezzo affondato nell’oceano. La città sembrava estaticamente immobile nell’atmosfera del tramonto, le viuzze che sboccavano sul porto erano vuote, il silenzio era quasi palpabile. Ma da qualche parte presso le mura era echeggiato un grido e subito dopo era cominciato un furioso rumore di zoccoli. Lo strepito si approssimava. Poteva essere un cavallo imbizzarrito che correva verso il porto scalpitando sull’acciottolato della rue du Temple?
I due soldati rimasero perplessi, scrutando i tetti digradanti della città, senza capire. Poi, all’improvviso, un uomo a cavallo uscì da una via stretta fra le case e galoppò lungo la banchina verso Knolles e Monredon. Il cavaliere ciondolava in arcione come se fosse ferito o allo stremo delle forze; il cavallo aveva i fianchi insanguinati per le ferite inferte dagli speroni. Si arrestò fremendo davanti ai due templari.
«Bertrand!» esclamò Monredon.
«Sì, Bertrand de Bigorre. Sono proprio io» balbettò il cavaliere accasciandosi sulla sella. Poi rovinò a terra.
Bertrand de Bigorre era un uomo robusto. Si riebbe subito e, vergognandosi del suo attimo di debolezza, si precipitò a sciogliere la bisaccia di cuoio che portava legata alla sella. Appoggiandosi a Monredon, salì con le sue gambe a bordo della Templière e si lasciò condurre nella cabina del comandante. Per rifocillarlo, secondo i costumi spartani dei templari, gli furono portati pane, acqua e formaggio. Knolles e Monredon rimasero a osservarlo in silenzio mentre calmava la fame e la sete. Quando il servo di camera uscì portando via le stoviglie, Knolles chiuse la porta alle sue spalle con il catenaccio.
Era venuto il momento di conoscere gli avvenimenti di Parigi, e le notizie dovevano restare segrete.
«Prima di fare rapporto, Bertrand, diteci la cosa più urgente: siete stato inseguito? Che vantaggio avete sulle guardie del re?»
«Non lo so. Non li ho mai sentiti alle calcagna. Ma il vantaggio conta poco: gli uomini del re sono in allerta da giorni in tutta la Francia. Potrebbero piombare qui in ogni momento. Non abbiamo un minuto da perdere! La Rochelle è uno dei primi obiettivi di Filippo. Bisogna salpare immediatamente!»
Monredon tentennò il capo.
«È impossibile.»
«Impossibile? Come sarebbe a dire?»
«Si vede che non siete un uomo di mare. Tentare di uscir dal porto prima che cambi la marea è come risalire un fiume controcorrente. Dobbiamo aspettare il riflusso e la brezza di terra.»
«Ma se arrivano le guardie nel frattempo?»
Monredon si guardò le mani.
«Se arrivano» disse «dovremo combattere.»
Bigorre ebbe un gesto di disperazione.
«Non è detto che arrivino subito» cercò di rassicurarlo Knolles «un drappello non può correre a spron battuto come avete fatto voi: deve radunarsi, armarsi, organizzarsi. Non può neanche cambiare cavalli perché non tutte le stazioni di posta hanno venti cavalli disponibili. Ormai mancano poche ore: la marea cambierà prima di mezzanotte. Se le guardie arrivassero all’improvviso, terremo testa. Non possono essere più di una ventina.»
«Speriamo. Ma se fossero di più?»
Non ci fu risposta. Knolles taceva e seguiva con l’indice le venature del tavolo. Monredon versò acqua per tutti e tre.
«Fate rapporto, Bertrand. Abbiamo bisogno di sapere tutto, perché d’ora in avanti Knolles e io dovremo prendere decisioni come se fossimo altrettanti grandi maestri. Ci toccherà affrontare i fatti uno per volta, man mano che li troveremo sulla nostra strada. E che Dio ci aiuti! Adesso raccontateci che cosa è successo a Parigi.»
Il rapporto di Bertrand de Bigorre fu abbastanza sconclusionato, come ci si poteva aspettare da un fuggiasco che aveva cavalcato ininterrottamente per due giorni e una notte senza mangiare, bere, dormire, con il terrore di veder spuntare gli sbirri del re dietro ogni curva della strada. Ma Knolles e Monredon erano al corrente degli antefatti e non ebbero difficoltà a ricavare il senso.
Nel gennaio di quel terribile 1307 il gran maestro dei templari, Jacques de Molay, era stato richiamato da Cipro a Parigi. Il richiamo veniva dall’unica autorità che l’ordine riconoscesse: il papa. Ma il papa era politicamente manovrato da Filippo, re di Francia. Da tempo Filippo manifestava fastidio per la ricchezza, la popolarità e l’indipendenza dei templari. In un modo più sotterraneo, ma non meno pericoloso, anche i papi detestavano la loro potenza economica, la loro arroganza, la loro libertà.
Ultimamente, le circostanze erano precipitate. Per due volte il re aveva dovuto svalutare la moneta. Le casse erano vuote, ma gli impegni diventavano sempre più pressanti. Non restava che un colpo di forza o, per meglio dire, una vera e propria rapina. I templari erano una potenza concorrente: mettendo le mani sulle ricchezze dei templari, Filippo avrebbe preso due piccioni con una fava. Si diceva che, soltanto in Francia, l’ordine possedesse oltre novemila commende sparse per tutto il territorio, ciascuna con le sue colture, edifici, pascoli, bestiame. Complessivamente, una ricchezza capace di coprire tutti i debiti della corona.
Ma se il re aveva dalla sua il potere, anche i templari avevano le loro armi: una diplomazia accreditata presso tutte le corti d’Europa, denaro, spie e confidenti. Uno di questi ultimi rivelò al gran maestro che il re stava allertando tutte le province del regno perché a una data stabilita tutti i templari fossero arrestati e si procedesse alla confisca dei beni dell’ordine. Di fronte a una notizia così drammatica, Jacques de Molay decise: a mali estremi, estremi rimedi. Qualunque tradimento avesse perpetrato il re Filippo, il gran maestro dell’ordine sarebbe rimasto a Parigi, si sarebbe difeso invocando l’autorità del papa e avrebbe trasformato il colpo di mano di Filippo in un caso di risonanza mondiale. Se necessario, sarebbe morto gridando in faccia al re tutto il suo disprezzo. Ma l’ordine doveva vivere, e per questo era necessario mettere in salvo le cose più preziose. Fu predisposto un piano e si fece in modo che potesse scattare da un momento all’altro, su semplice ordine verbale del gran maestro.
Il 22 settembre il pubblico inquisitore di Francia inviò una lettera ai suoi subordinati di Tolosa e Carcassonne per comunicare che il re – d’accordo col papa, così diceva la lettera – aveva spedito a tutti i balivi del regno i mandati di cattura dei templari. Il contenuto della lettera venne a conoscenza delle spie templari e fu riferito al gran maestro, che diede il via al piano.
Al comando di due confratelli, Gérard de Villiers e Hugues de Châlons, un convoglio di carri trainati da buoi e coperti di fieno uscì da Parigi diretto a sudovest. Era scortato da una cinquantina di templari travestiti da contadini. Pochi giorni dopo le guardie del re penetrarono nel tempio, un’alta costruzione ornata da sette torri in cui si trovava la sede parigina dell’ordine. Fecero prigionieri Jacques de Molay e uno sparuto numero di cavalieri, ma non trovarono tesori, reliquie, libri. Niente di niente. Non erano rimasti neppure i registri contabili.