II

1962 Words
II La signora Bernard era stata istitutrice di Angela fin da quando la fanciulla, rimasta senza madre, era stata messa nel collegio della Trinità dei Monti. La buona signora non trascurava di andarla a rilevare ogni domenica, per condurla alla passeggiata e all'epoca delle vacanze era lei che conduceva l'allieva al mare o ai monti. Quando poi, uscita di collegio, la fanciulla fece il suo ingresso ufficiale in società, la brava signora Bernard divenne la sua ombra: si vedevano insieme dovunque: a teatro, ai concerti, alla passeggiata. La donna anziana e la fanciulla andavano perfettamente d'accordo ed erano legate da sincero affetto. L'istitutrice possedeva una casetta nel quartiere di Trastevere, ma per non far gravare tutta la pigione sul suo magro bilancio, ne cedeva in affitto una stanza a qualche signorina di passaggio, alla quale restava completamente affidato l'appartamento durante le ore del giorno, quando la signorina si recava dalle sue allieve. Angela, tornata a casa dopo aver appreso la disgrazia che la colpiva così duramente, non aveva saputo far altro che mandare a chiamare la signora Bernard. Sua zia non si era offerta di restare presso di lei, nè di condurla con sè al palazzo e la giovane aveva giustamente pensato che soltanto l'affetto della buona donna avrebbe potuto portarle qualche conforto in quell'ora così tragica della sua vita. La marchesa, intanto, prima di lasciare il palazzo Chiaromonte, aveva proceduto a prendere tutti i provvedimenti da lei considerati indispensabili: chiudere a chiave i cassetti della scrivania del cognato, far chiamare il notaio per apporre i suggelli all'appartamento privato del defunto principe, provvedere con l'intendente all'arredamento della camera ardente e ai funerali. Un piccolo altare doveva essere eretto nel salone a pian terreno trasformato in camera ardente. Lì si dovevano celebrare ininterrottamente le Messe nel giorno seguente. I servi, per turno, avrebbero vegliata la salma giorno e notte fino all'ora del funerale. Prese queste disposizioni, la marchesa si dispose a tornare al suo palazzo, fiera e soddisfatta del proprio spirito organizzativo. Si allontanò, portandosi ripetute volte il fazzoletto agli occhi e dimenticò su una sedia la sua borsetta; se ne ricordò appena la carrozza ebbe varcati i cancelli della villa e mandò indietro il servo a riprenderla. Era una circostanza senza importanza alcuna, ma più tardi essa fu ricordata dal custode, dal maggiordomo di casa Chiaromonte e dal servo, il quale ritornando verso la sua padrona aprì la borsetta per constatare che cosa essa contenesse e vi trovò soltanto un portabiglietti in cuoio: la marchesa, talvolta, vi custodiva delle sigarette che piacevano molto al servo, ma quel giorno non vi era altro che un portabiglietti. La signora Bernard, una francese tutto cuore, arrivò al palazzo in uno stato di vera desolazione. Ella era molto affezionata alla sua allieva e comprendeva tutta la gravità della sua sventura. Trovò Angela seduta accanto al fuoco, nel piccolo salottino del primo piano. Un vassoio con qualche cibo era stato posto accanto a lei, ma ella non l'aveva toccato. I suoi occhi erano asciutti, ma le mani le bruciavano come per febbre; quando riusciva ad avvertire una qualsiasi sensazione, sentiva un terribile male alla testa. La guardò come stupita di vederla lì a quell'ora: aveva dimenticato l'ordine dato alla cameriera. Lentamente però le tornò la coscienza dei fatti ed ella permise che la signora si incaricasse di dare le disposizioni del caso: si lasciò persino indurre a prendere un po' di cibo. Di lì a poco giunse la sarta e i servi portarono nella stanza due grandi scatole nere: anche la cameriera di Angela era molto affaccendata, a misurare, a ritoccare, a consigliare. Cappelli, veli, guanti furono posati qua e là sulle seggiole: in meno di due ore la fanciulla fu vestita a lutto, dalla testa ai piedi. Discese a pregare nella camera ardente ormai pronta, nascondendosi dietro un paravento che la sottraeva agli occhi dei curiosi: tutto era incerto, cupo, intorno a lei. Un acre odore di ceri e di fiori le feriva le narici, salendole fino al cervello, intollerabile. Come in una visione, ella vedeva dinanzi a sè il corpo di un Cavaliere dell'Ordine di Malta, disteso sul suo letto di morte, con l'enorme croce bianca sul petto, e ai due lati i grandi candelabri d'argento. In fondo alla sala, a qualche distanza dalla testa del Cavaliere morto, erano tre preti in paramenti neri e oro, inginocchiati dinanzi al piccolo altare improvvisato: recitavano le preghiere dei defunti, lenti, monotoni, instancabili: uno intonava la litania, gli altri gli tenevano dietro. E meccanicamente anche Angela rispondeva con loro, ma tanto sottovoce che nessuno l'udiva. E mentre le sillabe latine lentamente le uscivano dalle labbra, il suo pensiero vagava lontano, si sperdeva in un mondo nuovo, nel quale tutto era incertezza e solitudine. Il terribile mistero della morte, anzichè spaurirla, le dava un senso di dubbiosa depressione. Che cosa voleva dire tutto ciò? Era suo padre morto, quell'uomo che giaceva esanime su quella coltre mortuaria? Sì, somigliava a suo padre, quel fiero Cavaliere con le braccia incrociate sul petto; eppure era diverso. Forse era solo una immagine di cera, forse ella era piombata in un sogno pauroso dal quale non riusciva a risvegliarsi. E quella preghiera monotona e quel ripetersi incessante della risposta alla litania! Sì, anche le sue labbra rispondevano, quasi inconscie, ma tutto non era che un sogno, un terribile sogno, un incubo atroce. Come era possibile che non fosse così? Quella mattina ella aveva salutato suo padre; come sempre, egli le aveva dato un bacio sulla fronte e si erano lasciati per rivedersi la sera, all'ora del pranzo. Quella mattina, come sempre, ella aveva desiderato da lui una parola affettuosa, una carezza più tenera: ma egli era stato, come al solito, rigidamente gentile e severamente paterno. E ora? Ora le avevano detto che suo padre era morto, l'avevano condotta a pregare dinanzi alla sua salma. No, non era lui, non poteva essere lui. Quella era la personificazione della morte, qualche cosa di inumano, che avrebbe potuto spiegare l'enigma della vita e della morte; forse era la personificazione dell'enigma stesso. Ma non era suo padre. Pareva gli somigliasse, ma era solo uno scherzo della sua fantasia eccitata. Le voci dei preti venivano lentamente elevandosi; ella le udiva distintamente, ora, e rispondeva senza esitazione ai versetti che il prete intonava. In collegio si era gloriata di sapere a memoria quelle preghiere, meglio delle suore, e spesso era stata ripresa per questo suo atto di orgoglio. Ora, nel momento più grave della sua vita, quelle parole non avevano più significato per lei, non le davano conforto, non l'avvicinavano a Dio, di cui aveva tanto bisogno. Nulla aveva più significato e importanza per lei: nulla, tranne il mistero chiuso nel rigido corpo del Cavaliere di Malta. Chi le avrebbe dato la chiave di quel mistero? Il grande apostolo del pensiero moderno aveva posto tre quesiti: Che posso sapere? Quale dovere ha l'essere vivente? Che cosa posso sperare nell'al di là? Angela, non aveva mai sentito nominare Kant e si chiedeva semplicemente che cosa fosse la vita, che cosa fosse la morte: colui che avrebbe potuto risponderle era silenzioso, disteso sul suo letto di morte, tra i grandi candelabri d'argento. Forse nella bianca croce che gli stava sul petto era la desiderata risposta: ma essa era troppo in alto perchè un povero essere umano potesse comprenderla. Angela avrebbe voluto che l'avessero portato via, quel morto, che non era suo padre, che non poteva essere suo padre: forse, sola nella sua stanza, avrebbe saputo pregare meglio. Pregare? Per che cosa? Per quanto si rifiutasse di credere alla realtà, ella sapeva e credeva che suo padre si era ora totalmente distaccato dalla sua spoglia mortale, che la parte spirituale di lui, immutabile, eterna, si era dipartita dal suo corpo. Era diventata parte del mistero che non è dato agli uomini di penetrare: «invisibile», al di là di ogni cosa umana e terrena. Ma tutto ciò era troppo grave perchè la sua giovane anima ne potesse ritrarre comprensione e conforto. I pensieri si confusero, lanciati a fissare il morto Cavaliere di Malta, e le labbra instancabili ripetevano le parole del rito, che rimbombavano sorde in un cuore devastato dall'angoscia. A un tratto anche le labbra s'arrestarono, paralizzate. Che cosa vi era oltre la morte? Era veramente Dio che aveva chiamato a sè suo padre, o una forza ignota lo aveva di colpo strappato alla vita? Angela rabbrividì; nessuna sofferenza fisica avrebbe potuto darle quel brivido: esso le partì dal cuore e dal cervello, contemporaneamente, e le attraversò la persona, come un guizzo infernale. Fino la punta delle dita ne fu colpita. Morire non è nulla, se oltre la vita è il cielo: martirio, sacrificio, dolore sono nulla, se Dio ci attende all'altra riva. La vita non è che un periodo transitorio, durante il quale bisogna tenersi lontani dal peccato. Morire nella grazia del Signore, voleva dire essere salvi per l'eternità. Questo le avevano insegnato e questo ella aveva creduto fin da quando aveva avuto l'uso della ragione. Quale perdita poteva esser grave come la perdita di Dio? Pure, tanti increduli vivevano nel peccato! Angela si domandava come potessero godere la vita, divertirsi, incuranti di tutto. Non credere voleva dire non sperare: vivere senza speranza significava vivere in un inferno. Come ci si poteva rassegnare a questo? Così aveva sempre pensato. E ora, ora che sentiva maggiormente il bisogno di aggrapparsi a qualcosa che l'aiutasse a credere e a sperare, si sentiva presa dalla più terribile delle disperazioni. «Gli spiriti dell'inferno mi hanno in loro potere» si diceva, e le labbra non sapevano più ripetere le parole dell'officiante. Tutto era buio intorno a lei, solo la luce dei ceri rischiarava la stanza. Angela chiuse gli occhi per non vedere quell'oscurità: la sua anima anelava la speranza, come i suoi occhi desideravano la luce: così raccolta in se stessa, le parve più facile riavvicinarsi a quel Dio che aveva sempre adorato e invocato. A poco a poco tornò la calma nel suo cuore. Non credere voleva dire peccare, e contro il peccato non v'è che la preghiera e la volontà di non peccare. Si raccolse in se stessa e pregò con tutto il fervore dei suoi giovani anni: un senso di rassegnato dolore si sovrappose alla disperazione. Sì, tutto quanto avveniva era volere del Signore, padrone del cielo e della terra. Agli uomini non restava che pregare e sperare: pregare per l'anima di coloro che sono morti, sperare di raggiungerli in un mondo migliore, per l'eternità. Certo, suo padre era nel regno dei cieli: nessun uomo sulla terra avrebbe potuto essere più ossequiante alle leggi divine. Era stato severo quasi fino alla crudeltà, ma lo era stato a fin di bene, affinchè ognuno fosse indotto a compiere il proprio dovere: lo era stato innanzi tutto con se stesso. Non era trascorso giorno senza che avesse ascoltata la Messa, nè settimana senza che si fosse confessato e comunicato: aveva digiunato nei giorni prescritti e altri se n'era imposti per maggiore sacrificio: non aveva fatto al suo prossimo ciò che desiderava non fosse fatto a se stesso, non aveva ingannato alcuno, non aveva parlato mai male di nessuno, aveva praticato il bene sempre che aveva potuto, aveva venerato il Vicario di Dio sulla terra: aveva pregato per i peccatori. Il Tribunale Divino non poteva condannarlo. Era un uomo giusto e probo. La sua anima doveva essere salita direttamente al cielo. Se un uomo come suo padre non andava in Paradiso, allora ogni speranza era perduta: questo pensava Angela: ella non conosceva anima più retta e devota di lui. Questo pensiero le fu di grande conforto e, fissando l'esanime corpo del principe, potè finalmente piangere: lagrime di dolcezza e di consolazione dopo i terribili momenti di ribellione e di dubbio, lagrime di dolore per la perdita di colui che le aveva dato la vita. «Sia fatta la volontà di Dio! – ella mormorò tra i singhiozzi, e la piccola mano si portò alla fronte. «Nel Nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo». Le mani si congiunsero, bianchi petali di rosa, e le labbra mormorarono: «E così sia!».
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