Capitolo 1
Nerina non aveva nessuna intenzione di svolgere un’indagine. Non era suo costume impicciarsi dei fatti altrui. Quella mattina, tra l’altro, si era ripromessa di andare al cimitero a cambiare i fiori sulla tomba di suo marito, come faceva tutti i mercoledì. Sarebbe rimasta un po’ con lui, a parlare, a raccontargli di come andavano le cose. Male, peraltro. La piccola bottega di quartiere che insieme avevano aperto tanti anni prima, ormai poteva contare soltanto su pochi affezionati clienti, spesso anziani come lei, che non se la sentivano di andare sino al centro commerciale per comperare due uova o un etto di prosciutto. “Oh, se fossi ancora vivo tu, Nanni!”, gli diceva sempre, “Qualcosa ti inventeresti, sicuramente. Magari le consegne a domicilio”. Nanni le sorrideva da quella foto che insieme avevano scelto di collocare sulla lapide, la foto di quando erano andati sul lago Maggiore in viaggio di nozze e lui, in primo piano, sullo sfondo del cielo, appoggiato alla ringhiera in ferro dell’albergo, mai più avrebbe pensato in quel momento di dover un giorno morire. Erano giovani allora, vent’anni, e non si erano mai più lasciati: mezzo secolo di vita insieme, quattro figli ormai grandi, finché lui si ammalò. Due mesi di sofferenza e poi il Signore se lo prese.
Un forte rumore proveniente dall’alloggio di fianco la fece spaventare. Ma che stava succedendo?
L’edificio in cui abitava da sempre era un’antica casetta rurale a un solo piano, miracolosamente sopravvissuta alle cementificazioni e ai consueti espropri dei palazzinari in terra ligure. Il suo alloggio, ricavato nel retro del negozio, confinava con l’appartamento di Ettore, un giovanotto di trent’anni che lavorava in banca. L’aveva visto crescere, quel ragazzo, e si era affezionata a lui. Quando voleva parlare con qualcuno, la sera gli bussava con una scusa qualunque “ho preparato la parmigiana, Ettore”, oppure, “ti stiro un paio di camicie”. I genitori di Ettore si erano trasferiti in Veneto lasciandogli la casa e Nerina lo aiutava a tenerla in ordine.
Possibile che Ettore si mettesse a fare tutto quel trambusto alle sette del mattino? Boh, vai a sapere cosa stava combinando! Beati i giovani.
Prese la borsa, infilò le scarpe e si apprestò a uscire ma, non appena aprì la porta, Bigio, il suo gatto, s’infilò dentro di corsa miagolando, mugolando. Spaventatissimo. Di più: terrorizzato. Qualcuno gli aveva fatto del male. Sicuramente.
Fu quello il motivo per cui cominciò a chiedersi chi. Non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Bigio aveva l’abitudine di infilarsi in casa di Ettore entrando dalla finestra del cortile, finestra resa sicura da un’inferriata ma solitamente lasciata socchiusa per arieggiare la stanza. Due soli balzi, una sciocchezza per un felino di cinque anni possente e nel pieno delle forze. Si sistemava sul letto o sul divano. Ettore adorava quel gattone tinta cipria dal pelo lungo e soffice. Lo riempiva di coccole. E lo viziava con splendidi piatti di carne trita. Spesso guardavano assieme la tivù. Gli aveva anche regalato un collarino in pelle, rosso, di cui Bigio andava orgogliosissimo, con sopra inciso nome e numero di telefono.
Per cui – pensò Nerina – qualcosa non quadrava. Se Ettore fosse stato in casa non avrebbe permesso che maltrattassero Bigio. Ne era sicura. Il che stava a significare che c’era qualcun altro in quell’abitazione. Ma chi? Una fidanzata segreta? Un’amica? O un amico? Fu quella la ragione per cui si mise a curiosare. Per cominciare guardò fuori dalla finestra, attraverso le persiane socchiuse, e vide un’auto col motore acceso e un uomo a bordo. Era una Mercedes grigia. Non che conoscesse tutti i modelli di auto, ma la Mercedes l’aveva sempre affascinata e poi quello stemma sul cofano era inconfondibile. Sulla fiancata era incollata una scritta adesiva: Immobiliare Casabella. Era l’auto di un’agenzia immobiliare. Qualcuno dunque era entrato dentro per visionare l’appartamento. Così pareva. Ma allora cos’era tutto quel fracasso? E perché spostare tutti i mobili? Se Ettore fosse stato intenzionato a vendere la casa, gliene avrebbe parlato. Certamente. Si conoscevano da una vita. E se fossero stati dei ladri? Quel tipo che era rimasto alla guida non la convinceva. C’era sotto qualcosa. Che fare? Chiamare la polizia? E se poi si fosse davvero trattato dei clienti di un’agenzia immobiliare? Meglio prima verificare.
E questo fu il presupposto per cui si dispose a origliare. Mica altro! Soltanto questo. Lo trovò giusto. Doveroso. Erano almeno in tre... sì, tre. Il calice poggiato al muro funzionava. Tre dentro più uno fuori, quattro.
Ahhh! Non le sconfinferava che quei tipi fossero lì.
– Cerchiamo dappertutto – sentì esclamare da uno di loro – smontiamo le prese, i caloriferi, i battiscopa.
– Il computer portiamolo via – disse un altro.
Da come parlava non sembrava italiano.
Oh mamma! Si trattava di ladri? Appoggiò ancora l’orecchio.
C’era anche una donna. Ne distinse la voce mentre diceva: – Potrebbe aver già fatto una copia di tutto.
Mio Dio! Ma che stava succedendo? Sentì il cuore sbatacchiare tanto che a momenti il bicchiere, usato come cornetta, rischiò di caderle.
Fece un grosso respiro per riacquistare equilibrio.
“Stai calma, Nerina”, si disse, “stai calma”.
Le pareti erano sottili. Se avesse chiamato il 113 c’era pericolo che quelli di là, nell’appartamento di Ettore, potessero sentire. Meglio non correre rischi. Fece un altro gran bel respiro. Le venne un’idea. Le serviva qualcosa su cui scrivere. Corse alla credenza e prese “la Settimana Enigmistica” e la matita.
Annotò la targa dell’auto. Che altro poteva fare? Ah, sì! riportò la scritta sulla fiancata: Immobiliare Casabella. Quando si accorse che i tre avevano finito e si apprestavano ad andarsene riprese a sbirciare attraverso le imposte attendendo che uscissero. Sì. Erano in tre. La donna era graziosa, vestita in modo sportivo. Di circa trentacinque anni. Non troppo alta. Bionda. Tinta. Prese posto dietro. I due uomini salirono uno dietro e l’altro davanti. Il primo era mulatto, probabilmente magrebino, capelli neri con frangia, cravatta blu, camicia azzurra, viso lungo e spigoloso. L’altro, quello che prese posto accanto al conducente, era robusto, quasi tarchiato, indossava un vestito grigio ed era quasi pelato. Gli erano rimaste solo le basette. Brizzolate.
“Cosa se le terrà a fare poi, le basette, uno che è calvo?”, si domandò non sapendo nemmeno perché. Forse semplicemente per allentare la tensione.
Osservò bene anche l’autista, quello che aveva atteso col motore acceso. Appuntò che non appena i suoi compari salirono, sgommò via.
– Oh mamma!
Ora che se n’erano andati le gambe cominciarono a cederle.
– Oh mamma, mamma, mamma!
Si trascinò alla vetrinetta vicino alla cucina e, con la mano tremante, afferrò una bottiglia.
Si versò un vermut dentro un bicchierino e quindi si lasciò sprofondare nella poltrona. Quando si riprese, l’occhio le cadde sull’orologio a parete. Erano le nove in punto. L’ora di aprire il negozio. Ma non ne aveva alcuna voglia. Sarebbe rimasta ancora un po’ lì. Doveva riprendersi dallo spavento. Allungò il braccio sul tavolino accanto al sofà e compose il numero di sua figlia Rosalba. Poi ci ripensò.
– Beliscimu – si disse – meglio non parlarne con nessuno. Non ora, per lo meno. Riattaccò mentre dalla cornetta la voce di sua figlia ripeteva insistentemente: “Sei tu, mamma, sei tu?”.