Capitolo 2
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo, per me, mi accorgo di non avere più risorse...
Centofanti trattenne a stento un sorriso nel momento in cui si accorse che nella sua testa era improvvisamente partita la musica di quella canzoncina. Oddio, canzoncina nemmeno tanto. Era uno dei più celebri capolavori di Paolo Conte, che lui però stava ripensando interpretata da un giovanissimo Adriano Celentano, impegnato in un enorme e vuoto studio televisivo in bianco e nero a guidare una fila di ballerini che mimavano il treno dei desideri.
Ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va…
Si guardò intorno sperando che nessuno avesse notato la sua espressione ilare. Tenendo la testa bassa cominciò a roteare gli occhi a destra e a manca. Erano quasi tutti giornalisti, così come lo era stato del resto il defunto che per anni si era occupato di cronaca giudiziaria, bazzicando nei corridoi della Procura.
Per fortuna erano tutti concentrati sulle esequie. Contrariamente a lui. Il suo sguardo spaziò sulle tombe circostanti, sui lumini, sull’auto delle Pompe Funebri con il portellone ancora aperto e, infine, sui volti affranti dei presenti. No, nessuno sembrava essersi accorto di nulla.
Tirò su col naso cercando di rimanere serio e di non pensare più a Celentano. Non era mai stato al cimitero di Staglieno. Più volte gliene avevano parlato come di un posto pieno di opere d’arte, considerato un vero e proprio museo a cielo aperto. Era una splendida mattina di giugno, il sole luccicava sul marmo delle lapidi e con una primavera così aggressiva pareva di essere in visita ai monumenti di una località turistica. Anche il profumo di ginestre e rosmarino selvatico, mischiato a quello dei fiori sparsi ovunque e a quello dei ciottoli cotti dal sole, contribuiva a rallegrare il suo animo. Pessima scelta del destino far seppellire qualcuno con un tempo così. Ma, tant’è! La musichetta non la smetteva di girare nella sua testa.
Cercò di ragionare sul perché di quella sinapsi nella sua capoccia. Il verso della canzone recitava:
sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole tanti anni fa. quelle domeniche da solo in un cortile a passeggiar... ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar...
Sarà stato il prete, l’atmosfera, l’odore dell’incenso, fatto sta che gli era tornata alla mente tutta la sua infanzia, che quella canzone descriveva alla perfezione. Così aveva ripensato a Celentano impegnato nel trenino. E gli era scappato da ridere. E più ci rifletteva, più non riusciva a trattenersi. Con un colpo di tosse cercò di coprire la risata. Sollevò gli occhi per capire nuovamente se qualcuno lo stesse guardando.
In effetti uno c’era. Ma era distante. Se ne stava quasi nascosto dietro la colonna di marmo di una tomba di famiglia. Ma guardava lui. Ne era sicuro. O, perlomeno, nella sua direzione. Aveva gli occhi da pazzo, il viso sconvolto. Ma che voleva? Era qualcuno che conosceva? A giudicare di primo acchito sembrava di no. Era un tipo biondo, di circa trent’anni, con una camicia hawaiana, i pantaloni gialli, le scarpe da ginnastica bianche. Lo guardò bene, a lungo. No. Non lo conosceva affatto. Ma che aveva da guardare? Magari era soltanto una sua impressione. Certo che presentarsi conciato così a un funerale! Forse era quello il motivo per cui restava in disparte. Boh! Oppure...
Cercò di non distrarsi ma non si sentì in colpa perché non riusciva a essere triste.
Tristi bisogna esserlo in vita, quando non si riesce a far andare le cose come dovrebbero, pensò. E immediatamente dopo il suo cervello aggiunse una postilla a quel pensiero: “Ma quant’è che dura ‘sto caspita di funerale?”.
Finalmente qualcuno gettò la prima palata di terra nella fossa e poco dopo i presenti, una ventina, non di più, si dispersero in gruppetti di due o tre. Centofanti poté sentire alcuni di loro commentare sottovoce: – Beh, bravo era bravo, ma era un arrivista. Per la carriera era disposto a tutto.
– A quanto pare non aveva molti amici – gli sussurrò all’orecchio Toccalossi quando furono in fondo al vialetto.
– Direi proprio di no – concordò Centofanti.
L’auto della scorta era rimasta fuori. La si poteva vedere oltre il cancello in ferro. Eh già! Perché, da quando era stato trasferito a dirigere la Procura Distrettuale Antimafia, Toccalossi aveva pestato i piedi a qualcuno ed erano cominciate le minacce. Così il Ministero aveva deciso di affibbiargli una scorta.
“Oppure...”, meditò Centofanti ora che questo pensiero nato poco prima si era messo a fuoco nella sua mente. Fece due più due. In un attimo. L’uomo che lo stava fissando, nascosto dietro la colonna, era proprio tra loro e l’auto. E vestito in quel modo non era certo lì per il funerale. E se fosse lì per un attentato a Toccalossi? Matto lo sembrava. Aveva il viso sconvolto. Meglio non correre rischi.
Col braccio bloccò il Procuratore ed estrasse il cellulare.
– Che c’è, maresciallo?
– Un attimo, Procuratore... scorta? Sì, entrate con l’auto dentro il cimitero. In fretta.
Chiuse la comunicazione, mentre i due gorilla si precipitavano all’interno con l’auto.
– Ma che fa, maresciallo?
– Nulla, una piccola precauzione.
L’Alfa entrò sgommando a tutta birra sollevando un polverone bianco dal vialetto in pietrisco. Tutti i giornalisti si voltarono stupefatti. Qualcuno, per pura abitudine, cominciò a scattare delle foto.
– Proprio una bella idea, maresciallo – commentò seccato il Procuratore notandoli. – Ci stiamo facendo una pessima pubblicità.
– Salga, Procuratore, dopo le spiego.
Anche Centofanti, prima che l’auto sfrecciasse nuovamente oltre il cancello percorrendo a ritroso il tragitto per lasciare il cimitero, scattò una foto. Al tipo seminascosto dietro la colonna il quale, vedendoli passare nell’auto blindata, rimase immortalato con una ruga di delusione dipinta sul viso.