CAPITOLO IV-3

2039 Words
Gli capitava di ricevere da luoghi remoti della Germania o dell'Italia una tela comprata a Parigi per millecinquecento franchi e di rivenderla, previa esibizione d'una fattura che la portava a quattromila, al prezzo di favore di tremilacinquecento. Con i pittori, uno dei suoi scherzi consueti era quello d'esigere, come buonamano, una copia in formato ridotto dei quadri, col pretesto di ricavarne un'incisione; invariabilmente, vendeva la copia e l'incisione non c'era caso che comparisse. A chi si lagnava d'esser sfruttato, rispondeva con una manata sulla pancia. Gran brav'uomo per altro, era prodigo di sigari, dava del tu agli sconosciuti, s'entusiasmava per un'opera o per una persona e allora, ostinandosi, non badando a nulla, moltiplicava le visite, le lettere, le inserzioni pubblicitarie. Si riteneva onesto e, nel suo bisogno di confidarsi, raccontava anche le sue scorrettezze. Una volta, per dar fastidio a un collega che inaugurava con un gran ricevimento un'altra rivista di pittura, pregò Federico di scrivere sotto i suoi occhi, un po' prima dell'ora fissata, dei biglietti con i quali venivano disdetti gli inviti. «Non macchierà certo il suo onore, no?» E il giovane non trovò il coraggio di rifiutargli quel favore. Il giorno dopo, mentre entrava nell'ufficio insieme a Hussonnet, Federico vide attraverso la porta (quella che dava sulle scale) il lembo d'una veste che spariva. «Mille scuse,» disse Hussonnet. «Se avessi saputo che c'eran delle donne...» «Ah! Quella? Era mia moglie,» rispose Arnoux. «Passava e s'è fermata a farmi una visitina.» «Come?» Disse Federico. «Già, adesso se n'è andata, torna a casa.» Di colpo, quanto stava in quell'ambiente perse tutto il suo incanto. Ciò che vi aveva avvertito di confusamente aleggiante era svanito, anzi, non c'era mai stato. Provava un'infinita sorpresa, il dolore, quasi, d'un tradimento. Arnoux, frugando nel suo cassetto, sorrideva. Si burlava di lui? Il commesso posò sulla scrivania un fascio di fogli umidi. «Ah, i manifesti!» Esclamò il mercante. «L'ora di cena s'allontana, stasera!» Regimbart stava cercando il cappello. «Come, mi lasciate solo?» «Le sette!» Rispose Regimbart. Federico lo seguì. All'angolo di rue Montmartre, si voltò, diede un'occhiata alle finestre del primo piano e si mise, in silenzio, a ridere di pietà per se stesso, ricordando quante volte e con quanto amore le aveva contemplate. Ma allora, dove viveva? E come fare, adesso, per incontrarla? Intorno al suo desiderio si spalancava di nuovo, più grande che mai, la solitudine. «Vieni a prenderla?» Disse Regimbart. «A prendere chi?» «Una goccia d'assenzio.» Cedendo alle sue insistenze, si lasciò condurre al caffè Bordelais. Mentre il suo compagno, appoggiato sul gomito, contemplava la caraffa, Federico si guardava intorno con impazienza. Ed ecco che scorse, sul marciapiede, il profilo di Pellerin; picchiò vivamente contro il vetro, e il pittore stava ancora sedendosi quando Regimbart gli chiese come mai non lo si vedesse più a L'Art industriel. «Mi venga un colpo se ci rimetto piede! A un bruto, un borghese, un miserabile, un buffone!» Quelle ingiurie accarezzavano la rabbia di Federico. Al tempo stesso, ne era ferito, perché gli sembrava che toccassero in qualche modo anche Madame Arnoux. «Ma cosa le ha fatto?» Disse Regimbart. Invece di rispondere, Pellerin batté un piede a terra e soffiò con vigore. S'era abbandonato a qualche lavoro clandestino, come ritratti a due colori o imitazioni dei grandi maestri ad uso di amatori poco esperti; e poiché se ne vergognava, preferiva per lo più non parlarne. Ma la “lercia avarizia” di Arnoux lo esasperava troppo, si concesse uno sfogo. In seguito a un'ordinazione, di cui lo stesso Federico poteva testimoniare, gli aveva portato due quadri. Al che s'era permesso, il mercante, di far delle critiche! Ne aveva biasimato la composizione, il colore e il disegno, il disegno soprattutto; insomma, non li aveva voluti a nessun prezzo. Sennonché, costretto dalla scadenza d'una cambiale, Pellerin li aveva ceduti al vecchio Isacco, l'ebreo; e, quindici giorni dopo, Arnoux, proprio Arnoux, li vendeva a uno spagnolo per duemila franchi. «Non un soldo di meno, capite? Che razza di furfante! E ha fatto anche di peggio, maledizione. Un giorno o l'altro, lo vedremo in Corte d'assise.» «Che esagerazione,» disse timidamente Federico. «Ma sì! Ma certo! Sono io che esagero,» esclamò il pittore picchiando un gran pugno sul tavolo. Tanta violenza ridiede al giovane tutto il suo sangue freddo. Senza dubbio, era possibile comportarsi con maggior cortesia; ma d'altra parte, se Arnoux riteneva che i due quadri fossero... «Brutti! Avanti, lo dica pure. Ebbene, li ha forse visti lei? Ed è forse questo il suo mestiere? Se lo tenga pure per detto, ragazzo mio: se c'è una cosa che io non tollero son proprio i dilettanti.» «Non sono affari miei, alla fine,» disse Federico. «E allora, che interesse ha a difenderlo?» Replicò freddamente Pellerin. Il giovane balbettò: «Ma... è mio amico.» «Lo abbracci da parte mia! Buona sera.» E il pittore se ne andò furioso, senza far motto, naturalmente, della sua consumazione. Nel difendere Arnoux, Federico aveva finito col convincersi da solo. Scaldandosi alla sua propria eloquenza, fu preso da tenerezza per quell'uomo buono e intelligente che gli amici calunniavano e che stava lavorando, adesso, da solo, abbandonato da tutti. Non seppe resistere al singolare bisogno di rivederlo subito. Dopo dieci minuti, spingeva la porta della bottega. Arnoux, insieme al suo commesso, stava elaborando giganteschi manifesti per un'esposizione di quadri. «Toh! Come mai di ritorno?» La semplicissima domanda mise in imbarazzo Federico; non sapendo cosa rispondere, gli chiese se non avevan trovato, alle volte, il suo taccuino, un taccuino piccolo di cuoio blu. «È lì che mette le lettere delle sue donne?» Disse Arnoux. Federico, arrossendo come una vergine, si schermì da tale supposizione. «Le sue poesie, allora,» replicò il mercante. Maneggiava i manifesti stesi sul tavolo, ne discuteva la forma, il colore, la marginatura; e Federico si sentiva via via più irritato dalla sua aria meditabonda e soprattutto dalle sue mani che andavano su e giù sopra i manifesti: mani grosse e un po' molli, dalle unghie piatte. Alla fine Arnoux, sollevatosi, esclamò: «Ecco fatto!» E gli passò affettuosamente la mano sotto il mento. Tanta confidenza dispiacque a Federico, che fece per tirarsi indietro; dopo di che varcò - convinto che fosse per l'ultima volta - la porta dell'ufficio. Madame Arnoux, persino lei, appariva in qualche modo diminuita dalla volgarità del marito. La stessa settimana gli arrivò una lettera nella quale Deslauriers gli annunciava il suo arrivo a Parigi per il giovedì successivo. Federico si ributtò con violenza su quell'affetto tanto più solido e più elevato. Un uomo così valeva più di qualsiasi donna. Non avrebbe più avuto bisogno di Regimbart, di Pellerin, di Hussonnet, di nessuno! Per poter sistemare meglio l'amico comprò un lettino di ferro, un'altra poltrona, divise in due la spalliera del suo letto; e la mattina del giovedì stava vestendosi per andare incontro a Deslauriers quando il campanello della sua porta risuonò, e comparve Arnoux. «Una parola, di fretta! Ieri m'è arrivata da Ginevra una bella trota; contiamo su di lei, è per stasera alle sette in punto... In rue de Choiseul 24 bis. Non se ne scordi!» Federico dovette sedersi, le ginocchia non lo reggevano. Ripeteva fra sé: “Finalmente, finalmente!” Poi si diede a scrivere al sarto, al cappellaio, al calzolaio, facendo recapitare i tre biglietti da tre diversi fattorini. La chiave girò nella serratura e comparve il portinaio con un baule in spalla. Quando ravvisò l'amico, Federico si mise a tremare come un'adultera sotto lo sguardo dello sposo. «Cosa diavolo ti succede?» Disse Deslauriers. «Dovresti aver ricevuto la mia lettera!» Federico non ebbe la forza di mentire. A braccia aperte, si gettò sul suo petto. Lo scrivano raccontò la sua storia. Il padre s'era rifiutato di dargli il rendiconto della tutela, pensando che in dieci anni fosse andato in prescrizione. Ma Deslauriers, forte in procedura, aveva finito per strappargli l'intera eredità materna, settemila franchi netti, che aveva con sé in un vecchio portafogli. «È una riserva, se dovesse capitare qualche disgrazia. Bisogna che pensi a metterli al sicuro, e a sistemarmi anch'io, da domattina. Per oggi, vacanza completa, son tutto per te, vecchio mio!» «Oh, non preoccuparti,» disse Federico. «Se tu avessi qualcosa d'importante per questa sera...» «Ma no, via! Sarei una bella carogna.» L'epiteto, buttato là a caso, colpì Federico in pieno cuore come un'allusione oltraggiosa. Il portinaio aveva disposto sul tavolo, accanto al fuoco, cotolette, galantina, un'aragosta, dei dolci e due bottiglie di Bordeaux. La magnifica accoglienza commosse Deslauriers. «In fede mia, mi tratti come un re!» Parlarono del passato, dell'avvenire; e ogni tanto; stringendosi le mani al di sopra del tavolo, si guardavano per un attimo con tenerezza. Ma arrivò un fattorino col cappello nuovo. Deslauriers, a voce alta, fece notare com'era lucida la fodera. Poi venne il sarto, di persona, a consegnare il vestito stirato. «Si direbbe che vai a sposarti,» disse Deslauriers. Un'ora dopo, sopraggiunse un terzo individuo che tirò fuori da una grande borsa scura un paio di scarpe di vernice, splendenti. Mentre Federico le provava, il calzolaio lanciava occhiate ironiche ai piedi del giovane provinciale. «Il signore non ha bisogno di nulla?» «No, grazie,» rispose lo scrivano, nascondendo sotto la sedia le sue vecchie scarpe stringate. L'umiliazione dell'amico mise Federico a disagio. Continuava a rimandare la sua confessione. Alla fine, come se un pensiero l'avesse colpito all'improvviso, esclamò: «Accidenti, me n'ero dimenticato!» «Di che cosa?» «Stasera son fuori a pranzo.» «Dai Dambreuse? E come mai non mi dicevi niente nelle tue lettere?» Non era dai Dambreuse, ma dagli Arnoux. «Dovevi avvertirmi,» disse Deslauriers. «Sarei arrivato un giorno dopo.» «Impossibile,» rispose Federico bruscamente. «Mi hanno invitato da poco, proprio stamattina.» Per rimediare alla colpa e distrarre l'amico, si mise a sgrovigliare le corde del baule, a sistemar la roba nei cassetti; voleva cedergli il letto e dormire lui nel ripostiglio. Poi, quando furono le quattro, cominciò a prepararsi. «Tempo ne hai,» osservò l'altro. Alla fine di vestirsi, e se ne andò. «Questi ricchi», pensava Deslauriers. E andò a cenare in un piccolo ristorante che conosceva, in rue Saint-Jacques. Sulle scale Federico si fermò parecchie volte, tanto il cuore gli batteva forte. Un guanto, troppo su misura, gli si era scucito; e proprio mentre cercava di nasconder lo strappo sotto il polsino della camicia, Arnoux, che saliva alle sue spalle, lo prese a braccetto e lo fece entrare. L'anticamera era decorata alla cinese, con un lampadario dipinto appeso al soffitto e mobiletti di canna negli angoli. Attraversando il salone, Federico incespicò in una pelle di tigre. I candelieri erano ancora spenti, ma in fondo, nel boudoir, erano accese due lampade. Mademoiselle Marta venne a dire che la mamma si stava vestendo. Arnoux la sollevò sino all'altezza della bocca per baciarla; poi, dato che voleva sceglier di persona, in cantina, certe bottiglie di vino, lasciò Federico con la bambina. Era molto cresciuta, dal giorno del viaggio a Montereau. I capelli bruni le scendevano in fitte bande ricciute lungo le braccia nude. La veste, a sbuffi come la gonnellina d'una danzatrice, le scopriva le tenere gambe rosa, e la sua persona gentile sapeva tutta di fresco, come un mazzo di fiori. Stette a sentire i complimenti del signore con un'aria vezzosa, lo fissava con i suoi occhi profondi; poi sparì, scivolando fra i mobili, come un gatto. Federico non sentiva più alcun turbamento. I globi delle lampade, coperti da paralumi di carta traforata, facevano una luce biancastra che addolciva il color malva della tappezzeria di raso sulle pareti. Attraverso le lame del parafuoco, simile a un grande ventaglio, si vedevano ardere i carboni; sopra, a ridosso della pendola, era posato un cofanetto coi fermagli d'argento. Qua e là, sparse, le cose che parlavano di lei: una bambola sul piccolo canapé, una sciarpa abbandonata contro la spalliera d'una sedia e, sul piano del tavolino, un lavoro a maglia dal quale spuntavano, con la punta rivolta verso il basso, i due aghi d'avorio. Era un ambiente amabile e insieme virtuoso, familiare. Rientrava Arnoux; e, dall'altra porta, Madame Arnoux comparve. Era avvolta nell'ombra e lui, dapprima, non riuscì a distinguere che il viso. Portava una veste nera di velluto e, sui capelli, una lunga rete algerina di seta rossa che attorcigliandosi al pettine le ricadeva, a sinistra, fin sulla spalla. Arnoux presentò Federico. «Oh, ricordo benissimo il signore,» diss'ella. Poi, quasi tutti insieme, arrivarono gli invitati: Dittmer, Lovarias, Burrieu, il compositore Rosenwald, il poeta Théophile Lorris, due critici d'arte colleghi di Hussonnet, un fabbricante di carta, e infine l'illustre Pier Paolo Meinsius, l'ultimo rappresentante della Grande Pittura, che portava con vigore, oltre alla gloria, i suoi ottant'anni e una grossa pancia. Quando passarono in sala da pranzo, Madame Arnoux prese il suo braccio. Era rimasta vuota una sedia, quella di Pellerin. Pur sfruttandolo, Arnoux gli voleva bene. Ne temeva, d'altra parte, la lingua micidiale, al punto che su L'Art industriel, per commuoverlo, aveva pubblicato il suo ritratto accompagnato da lodi iperboliche; e Pellerin, che era più sensibile alla gloria che al danaro, fece la sua apparizione verso le otto, tutto trafelato. Federico credette che si fossero riconciliati da tempo. La compagnia, i cibi, gli piaceva ogni cosa. La sala era tappezzata di cuoio a sbalzo, come un parlatorio medioevale; una credenza olandese fronteggiava una rastrelliera di lunghe pipe orientali; e tutt'intorno alla tavola, frammezzo ai fiori e ai frutti, i cristalli di Boemia accendevano coi loro diversi colori una specie di luminaria, come in un giardino.
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