Capitolo 2-1

2037 Words
2 «Porca puttana.» Due mesi. Sono passati due mesi. Rimettiti in sesto. Mason si girò con un gemito. Non era appena andato a letto? Com’era possibile che fosse già ora di alzarsi? Si tirò su a sedere come se si stesse muovendo attraverso la melassa, e la testa gli pulsava come se qualcuno l’avesse trapanata con un martello pneumatico. Si strofinò la mano sulla faccia, ma non servì affatto ad alleviare la sonnolenza. Un’altra notte passata a girarsi e rigirarsi. Perfetto. Si passò una mano tra i capelli e si alzò, poi si avviò verso il bagno, ma sbattè un dito del piede contro il letto. «Cazzo!» Si lasciò cadere sul materasso e controllò di non aver perso un’unghia. Con nulla di rotto, zoppicò nello stretto corridoio fino al bagno minuscolo. Mentre si lavava la faccia, si chiese ancora una volta perché diavolo non avesse scelto un posto più grande. Si poneva la stessa domanda ogni volta che urtava qualcosa nel suo piccolo appartamento con una sola camera da letto. La sua risposta non cambiava mai. Volevi stare vicino alla spiaggia, e un posto più grande significa usare i suoi soldi. Non avrebbe mai usato il denaro di quel bastardo. Finché non avesse risparmiato a sufficienza per una considerevole caparra per una bella casa sulla spiaggia, si sarebbe dovuto far bastare quella che aveva. Solo qualche altro anno. L’appartamento era silenzioso, come sempre, l’unico suono proveniva dal suo rasoio mentre lui si faceva la barba. Si lavò via la schiuma dalla faccia e si asciugò, poi si fermò abbastanza a lungo per guardarsi storto nello specchio. Gesù, quando era invecchiato? Non che si fosse anziani a quarantuno anni, ma di recente si sentiva più vecchio della sua età. I suoi capelli biondi avevano ciocche grigie sulle tempie, e negli ultimi anni gli angoli dei suoi occhi avevano guadagnato rughe aggiuntive. «Non ringiovanirai mica, Mason.» Al diavolo quel suo piangersi addosso. Non se l’era cavata niente male. Aveva amici su cui poteva contare, un bel fondo pensione messo da parte e, dopo anni durante i quali aveva combattuto le stronzate omofobe dovute all’essere un poliziotto gay, si era finalmente guadagnato una posizione di rispetto tra i suoi colleghi. Circa due mesi prima era stato promosso detective e assegnato alla Major Crimes, e anche se si imbatteva ancora in degli stronzi, era riuscito a educare e illuminare alcune menti durante la sua carriera nelle forze dell’ordine, rendendo la sua presenza più semplice da digerire per quelli che erano perplessi dalla sua mascolinità perché, dopotutto, i gay non avrebbero dovuto essere tutti “mammolette ed effeminati”? Quando aveva sentito quelle parole, a Mason era occorso un istante per guardarsi intorno e ammettere che no, non era stato rimandato in qualche modo nel 1950. Aveva messo fine a quelle sciocchezze lì e subito. Primo, essere effeminati non era un insulto, né avrebbe dovuto essere trattato come tale. Non c’era nulla di male nell’essere effeminati. E secondo, esistevano più di due tipi di uomini gay, nessuno dei quali avrebbe dovuto essere oggetto di scherno, perlomeno non quando c’era lui nei paraggi. Probabilmente non guastava il fatto che lui tendeva a pesare di più e a essere più forte di tutti quelli con cui di solito lavorava. Nessuno voleva rompere le palle a un texano di quasi due metri. Quando era giovane aveva accettato di farsi mettere i piedi in testa dalle persone, ma con il passare degli anni – e diventando più scontroso – aveva scoperto le meraviglie del fregarsene altamente di quello che pensava la gente. Dopo aver finito in bagno, si vestì indossando pantaloni grigio antracite, una camicia blu scura con la cravatta abbinata e stivali neri. Per quando fosse arrivato in ufficio, avrebbe avuto le maniche della camicia arrotolate sulle braccia, ma prima caffè e colazione. Gli ci volevano più o meno venti minuti di macchina per arrivare al lavoro, e altri due per raggiungere il piccolo bar sulla US-1. Stare vicino all’ufficio dello Sceriffo della Contea di S. Johns, la caserma dei pompieri e un mucchio di altre strutture significava che il bar era sempre pieno. Con la fondina e la Glock assicurate alla cintura, il telefono in tasca e il distintivo che gli pendeva dalla catena attorno al collo, afferrò la sacca con il suo abbigliamento per allenarsi, un cambio d’abiti extra, una bottiglia d’acqua e alcune barrette proteiche prima di rendersi conto di non avere le chiavi. Di solito era organizzato meglio di così. Controllando nella sacca, alla fine le trovò in una delle tasche esterne. Chiuse a chiave la porta ed era a metà strada per l’ascensore quando si accorse di aver dimenticato il portafoglio. «Dannazione. Datti una svegliata, cazzo.» Che diavolo aveva che non andava? Doveva esserci qualcosa. Non poteva essere infatuato di un tizio. Lui non si infatuava di nessuno. No, quella era una bugia. Aveva passato un sacco di notti insonni quando stava con Ace, e in parte era stato dovuto al fatto che aveva capito presto che le cose non avrebbero potuto funzionare tra di loro, indipendentemente da quanto lui lo desiderasse. Anston “Ace” Sharpe era un libro aperto. Non nascondeva i propri sentimenti e si aspettava onestà totale da tutti quelli che aveva vicino. Era comproprietario di una agenzia di sicurezza privata, e prima di quello era stato nell’esercito tra le Forze Speciali. Tutta la sua vita ruotava attorno alla fiducia, sul poterla riporre nelle persone che lo circondavano. Come se avere un uomo come Ace e perderlo non fosse stato abbastanza, Mason aveva dovuto mandare tutto a puttane anche con il cugino dell’ex, che guarda caso aveva a sua volta militato tra le Forze Speciali. Che cazzo stava facendo? Anche solo nel prendere in considerazione di farsi coinvolgere da un altro di quei ragazzi, e da Lucky tra tutte le persone? Quel tipo si lasciava dietro una scia di uomini e donne ovunque andasse. A Mason non fregava un cazzo che l’altro fosse bisessuale o che avesse avuto più partner sessuali in un mese di quelli che lui aveva avuto in tutta la sua vita adulta. Ciò che gli interessava era l’avversione di Lucky a restare. Ma anche se il cubano fosse stato un tipo da relazione fissa, quelle di Mason andavano sempre a rotoli. Perché era stravolto per tutta quella faccenda? «Vaffanculo. Stai pensando fin troppo prima del caffè.» La colazione era buona, come sempre. Mandò giù il caffè e ne prese un altro da portare via. Era ora di mettersi al lavoro. Almeno avrebbe potuto perdersi nei suoi compiti e non dover pensare a quelle lunghe ciglia, quegli occhi marroni socchiusi e quelle labbra imbronciate. Già, buona fortuna con quello. Mason salutò i colleghi mentre si dirigeva alla propria scrivania. Si era appena sistemato quando uno degli altri detective, Erikson, si sedette sul bordo della sua postazione, l’espressione cupa. «Sembra che qualcuno abbia fatto un casino.» Mason alzò la testa di scatto. «Che cosa?» «C’è qui quello stronzo degli Affari Interni,» borbottò Erikson, facendo segno con la testa verso l’ufficio del comandante. Mason si girò sulla sedia, e il suo cipiglio si intensificò alla vista dell’agente Malley degli Affari Interni. Sembrava un tipo abbastanza simpatico, ma il fatto che appartenesse agli AI era sufficiente per bollarlo come stronzo, perché la sua presenza significava che qualcuno stava per perdere il lavoro o imbarcarsi in un epico percorso di stronzate. Malley si lisciò la cravatta prima di uscire nell’area comune. Merda. Mason sperò che quel tizio continuasse a camminare e si dirigesse verso la porta. Invece l’uomo si fermò davanti a lui. «Mason Cooper?» Lui assottigliò lo sguardo e si alzò lentamente. «Sì?» Malley gli porse una busta, e Mason sentì un tuffo allo stomaco. No. Non poteva essere vero. Gli si ghiacciò il sangue nelle vene, e all’improvviso quella busta sottile sembrò fatta di piombo. Nella stanza calò il silenzio, tutti gli occhi erano su di lui. «Che cazzo è questa?» Era un poliziotto da quasi venti anni e sì, gli AI avevano indagato su di lui per cose che non aveva fatto, a causa di alcuni degli stronzi omofobi con i quali aveva lavorato nel corso degli anni, e anche se quei periodi erano stati stressanti da morire, aveva saputo senza ombra di dubbio di non aver commesso nulla di sbagliato. La differenza, ai tempi, era stata che quelle lamentele contro di lui non erano una sorpresa, visto con chi aveva avuto a che fare. Ma in quel momento? Non aveva idea di cosa cazzo stesse succedendo, perché per quanto ne sapeva nessuno aveva un problema con lui. Non che tutti lo volessero accanto come amico, ma finché compiva il suo lavoro nel modo giusto gli altri al distretto non si preoccupavano di cosa o chi Mason si facesse nella propria camera da letto. Era un detective della Major Crimes da due mesi e mezzo, e aveva fatto tutto secondo le regole. Era meticoloso. Ai suoi colleghi detective piaceva prenderlo in giro dicendogli che aveva un debole per le scartoffie. In realtà, gli piaceva che le cose fossero fatte bene la prima volta. «Le consiglio di contattare immediatamente il suo rappresentante sindacale.» Mason strappò la busta per aprirla, cercando freneticamente di capire cosa stava succedendo. Il suo cervello passò al setaccio ogni caso sui cui aveva lavorato, ogni conversazione che aveva avuto, qualsiasi cosa che potesse gettare luce su cosa cazzo aveva fatto di sbagliato. Lesse la lettera ancora e ancora, il cuore in gola, le parole che aveva di fronte che cominciavano a diventare sfocate finché non ne rimasero solo alcune vivide e chiare, aprendo un buco attraverso la pagina. Test antidroga. Risultati positivi. Indagine. Sospeso. «Oh, cazzo.» Mason si lasciò cadere sulla sua sedia. Cazzo, cazzo, cazzo. Porca puttana, adesso aveva fatto qualcosa di sbagliato. «Non ci credo.» «Cooper?» Mason alzò lo sguardo su Erikson. «Ho fatto un casino.» Non c’era il tempo per ulteriori spiegazioni, e odiò lo sguardo interrogativo negli occhi del collega. «Prego, mi segua,» ordinò Malley. Mason si erse in tutta la sua altezza mentre seguiva il tipo nell’area comune. Lui era quello nuovo. Avevano riposto la loro fede in lui. Con la mascella serrata, cercò di non pensare alle domande che passavano loro per la testa, domande che erano passate anche nella sua quando aveva visto qualcuno portato via dagli AI. Erano corrotti? Una serpe? Stava perdendo la testa? Aveva un problema con l’alcool? Era violento a casa? Qualcuno rompeva le palle al tizio gay? Stavolta non c’era una forza esterna. Stavolta si era fregato da solo. Una volta all’interno dell’ufficio del suo superiore, gli venne chiesto di sedersi. Il Comandante Haynes aveva la sua scheda aperta davanti a sé. Quell’uomo aveva la reputazione di essere spietato quando si trattava della legge e della condotta dei suoi uomini. Era severo ma giusto, e da quello che aveva sentito Mason, odiava la cattiva pubblicità. Non si metteva bene. «Ho sentito solo buone cose su di te, figliolo. Cos’è successo? Se hai una dipendenza, possiamo aiutarti…» «Non ho una dipendenza, signore. Non ho mai fatto uso di nessuna droga illegale.» Mason scosse la testa, incapace di credere alla propria stupidità. «Era un farmaco per la tosse. Ho avuto una brutta tosse alcune settimane fa. Può chiedere a uno qualsiasi dei ragazzi. Hanno continuato a dirmi di farmi vedere prima di cadere a terra morto e diventare uno dei loro casi. Sono andato dal dottore e lui mi ha prescritto una medicina contro la tosse che me l’ha fatta passare subito. Mi sono dimenticato del tutto di quella dannata cosa. Ho ricordato il Tylenol e il Claritin, ma non quel cavolo di farmaco per la tosse che aveva la codeina.» «Se vuoi fare appello, hai il diritto di parlare con il tuo rappresentante sindacale.» Mason serrò la mascella e annuì. Certo che avrebbe fatto appello. Non poteva perdere il suo lavoro per quella cosa. «Dammi la tua pistola e il tuo distintivo, detective.» Mason ingoiò la bile che gli stava risalendo per la gola. Tolse il distintivo dalla catena che portava attorno al collo. Il senso di perdita lo colpì immediatamente. Poggiò il distintivo sulla scrivania, seguito dalla Glock infilata nella propria fondina. Respira.
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