24 dicembre-2

2008 Words
Il movente è uno dei più classici in certi ambienti: Benakiri teneva le ragazze inchiodate alla strada a battere, sfilando dalla loro borsetta più della metà degli incassi. Le pari opportunità valgono anche nella violenza, avranno pensato le due donne. 14 febbraio, per continuare. Reggio Emilia. Mario Pasquali è un operaio trentenne di origine pugliese con gravi problemi digestivi. Nello specifico, non riesce a digerire il fatto di essere stato mollato dalla fidanzata, Carlotta Scarpi, proprio alla vigilia di San Valentino. La mattina seguente Mario aspetta la sua ex davanti allo studio legale dove lei lavora come praticante. Lui è armato di un coltello tipo Rambo. Lei, solo di qualche faldone. La ragazza fugge per strada chiedendo aiuto, ma Pasquali, senza tacchi, è molto più veloce: il sesto affondo di lama, dritto alla giugulare, è quello letale. Poi l’uomo tenta l’harakiri: una coltellata allo stomaco che però non fa giustizia. Viene salvato dai medici del Pronto Soccorso prima di essere accusato di omicidio volontario. 13 marzo, tanto per gradire. I pezzi del cadavere di Luigi Grugni vengono trovati tra le felci delle valli di Comacchio. Grugni era un uomo semplice, come si dice, e gli unici piaceri della sua vita erano pescare anguille, andare alle partite della Spal, ubriacarsi di sambuca e scoparsi qualche mignotta albanese con l’hiv. Il pacifico signor Luigi andava d’accordo con tutti, se si escludono i protettori slavi delle sue amiche di una sera. Molti suoi compaesani dichiarano infatti di avere assistito a diversi litigi tra il pescatore e i pappa balcanici, poco tolleranti alla petulante insolenza di un uomo che minacciava ad alta voce sia le discinte ragazze, sia i loro più abbottonati custodi. Ad oggi, però, non sono state ancora trovate prove sufficienti per formulare accuse, né è chiaro perché chi ha fatto fuori Grugni lo abbia anche smembrato. In fondo è un lavoro semplice il mio. Non serve una laurea, diceva il vecchio e caro direttore Sabatini durante il mio primo giorno al Romagna Sera. Basta essere svegli e avere i contatti giusti, diceva. Diceva anche Sabatini: rispondi sempre alle 5 W del giornalismo anglosassone. Who, What, Where, When, Why. Io prendevo appunti: Chi, Cosa, Dove, Quando, Perché. Diceva anche Sabatini: stai attaccato ai fatti, quando sono sufficienti a riempire la colonna. Altrimenti fai supposizioni, con il condizionale. Io prendevo appunti: porta a casa il risultato, non importa come. Diceva anche Sabatini: se il pezzo è troppo breve, diluisci il brodo con la compagna di una vita che lo piange, gli amati figli che lo ricordano, il vuoto incolmabile che ha lasciato. Io prendevo appunti: compagna fedele, figli adorabili, vuoto pneumatico. Diceva anche Sabatini: ogni cattiva notizia è una buona notizia per noi. Io prendevo appunti: cerca il macabro, pesca nel torbido. Diceva anche Sabatini: il paese è piccolo, e più piccolo è il paese più grandi sono i peccati. Io prendevo appunti: ascolta le voci di corridoio, i pettegolezzi di strada, i mormorii dei salotti. Diceva anche Sabatini: e poi non infiorettare troppo, ché non è un romanzo. Io prendevo appunti: poche seghe, vai al sodo. Diceva tante cose il vecchio e caro direttore Sabatini. Si credeva un maestro di vita, anche se maestro lo era soprattutto di acquavite. Morì di cirrosi epatica qualche mese dopo il pensionamento. Nessuno lo rimpianse, tranne un articolo commosso del sottoscritto. Un articolo come ne ho scritti tanti. Per voi, miei cari venticinque lettori. 17 marzo, ad esempio. Una soffiata alla Questura di Ravenna fa ritrovare uno scheletro umano infilato in un tombino di una fabbrica dismessa della periferia. Ciò che resta del cadavere è seppellito in un pozzetto di ispezione dei cavi elettrici chiuso da un coperchio di cemento. La Scientifica ipotizza che l’omicidio sia vecchio di alcuni mesi, ma della vittima e dell’assassino non si sa niente, come pure del calunnioso venticello che ha soffiato la segnalazione alla questura. Ancora un caso irrisolto. Un irrisolto che comunque risolve molte questioni giù in redazione: ogni mistero insoluto si fa leggere bene per almeno un paio di settimane prima che l’interesse del pubblico svanisca. 1° aprile, se proprio volete saperlo. Gianbattista Cremonini, pensionato di 78 anni, si sta facendo una bella pedalata salutare lungo la via Ravegnana, all’altezza di Russi, quando viene travolto da un’auto in corsa. L’investitore si allontana senza voltarsi indietro, ma poco dopo la Polizia lo becca al bar a farsi un cicchetto con gli amici. L’amante dell’alta velocità e degli aperitivi in compagnia è un operaio ventenne impiegato in un’azienda ceramica di Faenza. All’inizio il ragazzo nega di essere stato lui a investire Cremonini, poi si accorge che nonostante sia il primo giorno di aprile nessuno ha voglia di scherzare. Dopo essersi fatto un bel pianto, alla fine vuota il sacco. Cremonini era vedovo e senza figli. Viveva da solo. Al funerale erano in pochi, e io fra quelli. Perché volevo raccontarvi l’intera storia. Fedele ai miei lettori. Per sempre fedele alla linea editoriale. Ora avrei proprio bisogno di una notizia come queste: una cattiva notizia, una pessima notizia. Prima che il giornale chiuda. Prima di Natale. Merito anch’io il mio regalo: un articolo a titoli cubitali. Ripasso con l’auto sotto il semaforo arancione che lampeggia lassista. Mi distraggo ipnotizzato dal suo inutile bagliore e quasi la cattiva notizia la provoco io. Inchiodo il piede sul freno giusto un attimo prima di stirare una suora che attraversa sulle strisce. Il pinguino mi manda misericordiosamente a fare in culo. Allora riparto facendo fischiare le gomme e ho come l’impressione di sfiorarle il sedere con la fiancata tanto le passo vicino. Frega niente. Frega solo che ora il telefono inizia a squillare, attirando la mia attenzione. Lo raccolgo dal sedile e apro la comunicazione. In fondo è un lavoro semplice questo. Basta essere svegli. E avere i contatti giusti. Il mio, lo chiamo Gola Profonda. «Le cattive notizie sono buone notizie» mi annuncia. Gola Profonda «Le cattive notizie sono buone notizie» gli annuncio. Intendiamoci bene, le cattive notizie meglio darle a Michele Zannoni che ad altri. Per lui è solo un’abitudine lavorativa. Per gli altri è qualcosa che spezza la serenità delle abitudini. Appena arrivato in Romagna mi hanno subito detto: Hai una bella presenza, le fai tu le telefonate. Ho ribattuto: Bella presenza? Al telefono? Hanno insistito: Hai un bel timbro. Fai anche le pause giuste. Manco fossi un attore. Essere o malessere. Così, appena entrato in servizio, mi hanno incaricato di occuparmi di quelle chiamate. Quelle che non vuole fare nessuno. Quelle brutte davvero. Piuttosto vanno a rischiare il collo in qualche azione pericolosa, i miei colleghi, con tanto di armi in pugno e il casino che ne consegue. Piuttosto si mettono a inseguire i delinquenti nella nebbia, rischiando di andare a schiantarsi contro un pioppo sotto le luci molli dei lampioni. Ma la cosa che non vogliono rischiare di fare, i miei colleghi, sono proprio quelle telefonate. Intendiamoci bene, io li capisco. Quando componevo quei numeri sciagurati speravo sempre che non rispondesse nessuno dall’altra parte o che la linea non fosse più attiva. Non era certo gradevole, le persone che chiamavo, vederle sbiancare al telefono, o almeno, sentire sbiancare il loro tono di voce, quando dicevo che li contattavo dalla questura. Oltre a questo, di reazioni ce n’era tutto un campionario: chi credeva in uno scherzo di cattivo gusto, chi prendeva a balbettare, chi chiedeva spiegazioni che ancora non sapevo dare, chi taceva senza acconsentire. È per questo che ai miei colleghi scotta in mano la cornetta. Nessuno di loro vuole vestire i panni dell’ambasciatore che porta pene. A una madre, a un figlio, a una moglie. Ricorderanno la tua voce per sempre, le tue parole per sempre, le tue pause per sempre. Allora è toccato a me dare le brutte notizie alla gente, diventando il messaggero della triste novella. Un Arcangelo Gabriele al contrario. Immaginatelo solo più basso, più grasso, più calvo e con la divisa da sbirro al posto delle ali. Poi, grazie al cielo, quell’incarico è passato a qualcun altro, e ora mi ritrovo a far strillare la sirena sulle strade affumicate di nebbia. Non c’è mai da annoiarsi alla Squadra Mobile di Ravenna, tra furfanti da acchiappare e giornalisti da imboccare. «Le cattive notizie sono buone notizie» gli annuncio. «Che c’è?» fa Zannoni. «Dammi più entusiasmo, baby.» «Che cazzo c’è?» «Puoi fare di meglio.» «Che cazzo c’è, stronzo.» «Ci siamo quasi.» «Che cazzo c’è, stronzo rottinculo di un terrone.» «Ehi, terrone sì, ma rottinculo no.» «Licenza poetica.» «Per usare una licenza poetica dovresti prima essere un poeta.» «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura, che il Gps s’era rotto e la retta via smarrita.» «’Sta minchia.» «Cos’è successo?» «Un incidente.» «Dimmi qualcos’altro.» «Oggi pomeriggio ho cagato due volte.» «Dell’incidente, dicevo.» «Muovi il culo e vai a vedere.» «Mi frega una sega se tua madre ha graffiato il paraurti facendo la retro. Mi serve grave questo cazzo di incidente.» «Mia madre guida benissimo, per tua informazione. Mai combinato un guaio.» «A proposito di guai, sei riuscito a farmi togliere quelle multe?» «Non sono mica della Municipale, io.» «Non fare lo struzzo, per altro stronzo.» «E tu non fare il riccio nelle mutande.» «Torniamo all’incidente, allora.» «Sulla via Piratello, a Lugo, vicino al palasport.» «In due minuti sono là.» «Già ti vedo: un avvoltoio che plana.» «Se mi butti le carogne.» «Amo le bestie come te.» «A proposito di bestie, come sta tua moglie?» «È gonfia da scoppiare. La bimba nasce il 30 o il 31.» «Se nasce il 30 è figlia mia. Nove mesi fa mi sono fottuto quella troia proprio il giorno prima che lo facessi tu.» «Hai mai pensato di farti ingroppare dai sette nani?» «Sì, ma mi darebbe fastidio la barba lunga sulla schiena.» «Che immagine raccapricciante.» «Scappo via, ho da fare.» «Vai piano, tesoro.» «A proposito di tesoro, salutami tua sorella.» Michele «A proposito di tesoro, salutami tua sorella.» Passo e chiudo. Faccio inversione dove non si può, tanto mi rimangono ancora sei punti sulla patente. Taglio il centro storico ai novanta all’ora, affronto una prima rotonda scodando con il posteriore, alla seconda salto sul cordolo controsterzando come un pilota di rally. Dopo un chilometro e una svolta in senso vietato, intercetto l’assembramento di ambulanze, polizia e vigili del fuoco. Un uomo in divisa mi segnala di passare oltre. Di defluire e farmi i cazzi miei. Ma io non passo oltre, tanto meno mi faccio i cazzi miei. Accosto la Punto sul ciglio della strada e mi fiondo fuori con il taccuino in mano. Non lo userò, ma fa tanto professionale. Come un dottore con lo stetoscopio: lo indossa solo per sembrarti più dottore. Venti metri più avanti una berlina Mercedes e un’utilitaria Seat sono incastrate in un interclassista abbraccio di carrozzerie. La Mercedes è disabitata. Dalla Seat spunta invece una testa storta. Qualcuno, quest’anno, non riceverà i regali della moglie, del figlio, della suocera. Ecco il punto saliente della storia, quello da esaltare nell’articolo: la beffa del destino, la disdetta di una promessa, quella di chi ha preparato un dono che non sarà mai scartato. «Non c’è niente da vedere» mi grida il poliziotto che fa la guardia al traffico. «Stampa» dico io. «Stampami le chiappe» fa lui. Frega niente. Frega solo che ormai sono le nove e che l’edizione di domani è quasi pronta per finire in rotativa. I vigili del fuoco, intanto, tagliano con la fiamma ossidrica le lamiere dell’utilitaria, sezioni d’auto che normalmente non dovrebbero essere in quel posto, aggrovigliate attorno ad arti umani che normalmente non dovrebbero essere in quel posto. Scintillano le fiamme ossidriche nel buio della sera. Lampeggiano le luci dell’ambulanza e dell’automezzo dei pompieri. Balenano intermittenti le quattro frecce della mia Punto in sosta. Questa vigilia luccica proprio come un albero di Natale addobbato a puntino. Qualcuno da lontano potrebbe perfino scambiare queste luminarie per una festa. Invece qui non c’è niente da festeggiare, a meno che i vigili del fuoco e i paramedici non riescano a estrarre vivo il corpo dello sventurato da quei ferri piegati dalla sorte. Poco distanti, appoggiati al cofano della vettura di servizio, altri due agenti assistono allo spettacolo senza scambiarsi una sillaba. Quello più basso è un fighetto dal pizzetto curato. Dell’altro emerge la palestra sotto la divisa. Li sorprendo alle spalle, senza farmi annunciare. «Che è successo?» chiedo. I due si voltano di scatto mettendo istintivamente la mano al calcio delle rispettive pistole, scosse per un attimo dal sonno nella cuccia della fondina. «Li mortacci tua, sempre tra i piedi stai?» fa Mister Muscolo dopo avere sparato una bestemmia in romanesco. «Va’ a farti un giro» dice il fighetto, l’accento delle nostre parti. «Ti raccontiamo tutto domani.» Resto lì con loro, invece. Spettatore interessato di questa scenetta natalizia: freddo frizzante, notte luccicante, buoni propositi, azioni generose. «Quello sulla Mercedes, non so che gli è preso» fa il fighetto dal pizzetto fine. «Forse s’è addormentato. O ha pippato troppo.»
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