24 dicembre-3

2007 Words
«Ha invaso la corsia opposta» va al punto il romano. «Un frontale da paura.» «Chi è?» «Uno di Bologna, probabilmente tornava a casa» fa il fighetto. «È già all’ospedale?» «Sì, ma non è grave. Sai, la Mercedes c’ha gli airbag da ogni parte, le barre rinforzate, tutto quanto.» Per chi non ha troppi quattrini e si deve accontentare di una scatoletta su quattro ruote, invece, la sopravvivenza a un frontale è solamente un optional. Questa è la morale della favola urbana. «E quello là dentro chi è?» «Secondo te glielo abbiamo chiesto?» mi fa Mister Muscolo Basso Lazio con uno sbadiglio sulla soglia della bocca. «Dalla targa?» chiedo. «Prima pensiamo a salvarlo e poi alla targa, okay?» Quando i vigili del fuoco finiscono il loro lavoro, i paramedici tirano fuori da ciò che resta dell’auto ciò che resta dell’uomo: i capelli brizzolati di sangue, la camicia a fantasie vischiose, le gambe penzolanti di un burattino. Lo adagiano su una lettiga e poi lo infilano nell’ambulanza. Quindi il mezzo sgomma via per la “disperata corsa” in ospedale, come si legge sui giornali. Come scrivono sui giornali. Come scrivo io. È la vigilia di Natale. Tanti auguri. Le automobili sulla via camminano lente lì a fianco, in direzione di Ravenna oppure di Bologna, ognuna per la propria strada, ma tutti i guidatori, come se non potessero farne a meno, sterzano lo sguardo verso il patatrac. Per vedere se c’è una testa pesante buttata in avanti, un corpo profanato da una postura inedita. È questo che terrorizza e attizza allo stesso tempo: quei manichini umanoidi sorpresi in posizioni inusuali, anomale. Come l’increspatura sulla superficie liscia di un tavolo artigianale, il vuoto d’aria in aereo, lo pneumatico che fora all’improvviso: prima o poi te lo aspetti, ma quando capita ti accorgi che non te lo aspettavi così. Tanti auguri, proprio tanti. E tanti auguri pure a me che voglio scoprire chi è quell’uomo. Il giornale sta chiudendo, domani è festa e l’articolo rischia di uscire soltanto il 27. E forse nemmeno il 27: tra due giorni la notizia sarà già vecchia e rugosa, rimpiazzata da altre più giovani e fresche. Le notizie sono come femmine al mercato del sesso: le adolescenti sono le più quotate, le anziane piacciono solo a pochi pervertiti. Mi accosto alla Seat e do un’occhiata all’interno in cerca di qualcosa che mi possa aiutare. La tenue illuminazione dei lampioni mi fa intuire un oggetto gonfio e scuro sulla pedana davanti al sedile di destra. Con una gomitata faccio cadere le residue scaglie di vetro rimaste a ricordare il finestrino. «Cazzo fai?» mi grida da lontano Mister Muscolo. Frega niente. Frega solo di ficcare la testa dentro le lamiere accartocciate e allungare la mano in fondo alla pedana. Tra le dita, sento la pelle liscia di un portafoglio. Quello che guidava deve averlo appoggiato sul sedile di fianco oppure sopra il cruscotto. «Anvedi ’sto ladro» insinua il romano avvicinandosi a me. «Sto lavorando» gli spiego. «Lo chiami lavorare, questo?» «Dài, lo sai. Scrivo sempre bene di voi nei miei articoli.» Il romano guarda il nostrano che gli fa cenno di lasciarmi stare. «Un minuto solo» dice Mister Muscolo. «Ma tutto ciò che trovi resta lì, intesi?» Quando il palestrato si allontana, apro il portafoglio in cerca dei documenti. Frugo tra la carta Postamat, la tessera socio Coop e un buono sconto del centro commerciale. Ed eccola la patente, completa di nome, data di nascita e residenza. Dario Gagliardi. Nato a Massalombarda (RA) il 17 maggio 1951. Residente a Lugo (RA) in via Gramsci. Guardo l’orologio: è tardissimo. Ributto il portafoglio dentro l’auto distrutta, corro alla mia Punto e recupero il telefono. Mentre parte la chiamata cerco di ricostruirmi in testa la dinamica dello scontro. La prima pagina dell’edizione di Natale deve essere mia. La merito più di chiunque altro. «Sono ancora in tempo?» chiedo a un collega in redazione. «Per cosa?» «Un incidente.» «Mortale?» «Non lo so ancora.» «Hai dieci minuti al massimo per mandare l’articolo» dice il collega. «Ma se non c’è il morto non ce ne facciamo niente.» Quindi, ho dieci minuti perché Gagliardi muoia. Dieci minuti appena per scrivere due colonne sulla vedova inconsolabile, il vuoto incolmabile, il dolore inestinguibile. «Mors tua vita mea, eh Zannoni?» mi fa l’agente nostrano snocciolando perle di saggezza. «La polizia sa il latino» dico. «Ora sì che mi sento al sicuro.» «Homo homini lupus» conferma Mister Muscolo. «Coitus interruptus» continua l’altro. «Fellatio e cunnilingus» riprende il burino. «Ma andate tutti quanti a cagare» concludo io. Dopo tre minuti netti parcheggio la Punto tra le righe gialle davanti al Pronto Soccorso di Lugo. Accendo il computer e comincio a battere sulla tastiera qualche riga che si stende veloce sullo schermo. A quest’ora è meglio portarsi avanti con il lavoro. Who, What, Where, When, Why. Chi, Cosa, Dove, Quando, Perché. Rispondo a ogni domanda come a un modulo preimpostato. Non bisogna scrivere un romanzo, diceva il vecchio e caro direttore Sabatini. Non serve una laurea, diceva ancora. Chi? Dario Gagliardi, nato a Massalombarda, residente a Lugo. Cosa? Incidente stradale. Dove? Sulla via Piratello. Quando? Stanotte. Perché? Sfiga. Ciò che importa è che il fatto si trasformi in notizia. Prima che il giornale chiuda. Prima di Natale. Manca solo un dettaglio. Mi occorre un’ultima decisiva informazione. Provo a ottenerla da un paramedico del turno serale uscito ora sul piazzale per fumarsi una sigaretta, smascherato nelle sue intenzioni dalle mani che tastano il giaccone alla ricerca del pacchetto. «Danilo!» urlo. «Sai niente del tizio che hanno appena portato?» Il paramedico ha gli occhi venati di viola e poca voglia di parlare. «Non era messo bene, se è quello che vuoi sapere.» «Ce la farà?» Danilo prende tempo accendendosi la paglia, aspirando con esasperante lentezza un paio di boccate e guardandomi con un sorriso fiacco. Poi mi punta contro la sigaretta, oscillandola su e giù come un dito che rimprovera. «Forse la domanda che volevi farmi era un’altra» dice. La domanda che infatti volevo fargli era: Non ce la farà, vero? Ma Danilo mi ha già fatto perdere troppo tempo, allora lo mollo lì e mi infilo nell’atrio del Pronto Soccorso. Dentro, cerco. Il dottore. La notizia. Qualcosa. Mi intrufolo in un corridoio e mi metto a girovagare nell’edificio come un animale smarrito. Manca una manciata di minuti allo scadere del tempo che mi hanno concesso. Un’infermiera si accorge di me e mi viene incontro. Mi afferra un braccio, lieve ma decisa. «Posso aiutarla?» chiede. «Gagliardi. Sono il figlio.» La donna fa un cenno con la testa per dire che ha capito. Poi va a chiamare chi di dovere. Manca poco, pochissimo. Un paio di minuti, forse. La prima pagina dell’edizione di Natale. La merito più di chiunque altro. Ma ho già compreso tutto, manca solo la conferma ufficiale. E questa me la deve dare il medico. Che arriva con tanto di pancia abbondante, sangue sulla manica e faccia di circostanza. Mi tremano le gambe e la mia agitazione sembra quasi apprensione. Con tutte le parole del caso, non una di più, me lo dice. Scappo via sfiorando l’infermiera, mi tuffo fuori nella nebbia, urto Danilo che rientra dalla pausa, mi infilo nella Punto, mi attacco al pc e invio l’articolo in redazione. Per fortuna, l’avevo già scritto prima. Non ce l’avrei mai fatta altrimenti. Un’ultima riletta al pezzo non l’ho data, ma frega niente dei refusi. Frega solo di avere consegnato in tempo. Di essermi guadagnato la prima pagina. La risposta dalla redazione giunge quasi subito: Sei arrivato a pelo. Hai un taglio basso in cronaca locale. Taglio basso una sega. Do una testata così violenta al volante che per un attimo temo di averlo piegato. A caldo, penso di aggiustare il curriculum e inviarlo a un quotidiano degno di questo nome. Il Mattino di Napoli, magari. Lì sì che c’è del movimento, mica come da noi dove non succede mai un cazzo. Devo respirare, respirare a fondo. Rilassarmi. Dal vano portaoggetti recupero la scatoletta di Roipnol. Ingoio una compressa a stomaco vuoto sperando che faccia subito effetto. D’altra parte siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno. Mi sveglio urlando, spaventato da un pugno che fa vibrare i vetri della Punto. Abbasso il finestrino. «Non puoi stare qui, nel posto dei disabili» mi importuna Danilo. «O sei forse un mongolo, per caso?» «Sì, il Gengis Khan degli handicappati» gli faccio. «Che ne dici di un caffè?» «Il caffè non mi fa dormire.» Rialzo il vetro senza dire ciao, metto in moto e me la telo. Per strada mi accorgo che ogni cosa è affogata in una nebbia cieca e ignorante, che copre tutto senza saper scegliere. Frega niente della nebbia. Frega niente della prima pagina. A dar retta all’orologio devo avere dormito parecchio, prima in macchina. Visto che sono digiuno da stamattina, dovrei mangiare almeno qualcosa. Tanto più che ho lo stomaco bucato dalla fame, o forse dal sonnifero. Meno male che ho sfilato quei cinquanta euro dal portafoglio del Gagliardi. Tanto a lui non servivano più. Se trovo un takeaway aperto ho fatto giornata. Taglio il centro storico ai novanta all’ora, rimbalzo su un dosso dissuasore, imbuco un vicolo in contromano, sbuco in un viale più grande, deserto. Affronto una prima rotonda scodando con il posteriore, alla seconda quasi mi scontro con un Ducato bianco guidato da un imbecille. Allora abbasso il finestrino e gli mostro il dito medio. Mauro allora abbassa il finestrino e mi mostra il dito medio ma io neppure ci bado al dito medio che mi ha mostrato dal finestrino abbassato. faccio finta di niente perché a questa gente maleducata basta non darle peso e fare finta di niente. dove posso parcheggiare il Ducato? lì no perché è occupato e là nemmeno perché le strisce sono gialle. forse quello è un posto libero ma se ci sono delle emergenze forse dovrebbe restare libero quel posto. e io non sono un’emergenza perché io arrivo quando non c’è già più l’emergenza. io arrivo per ultimo come i ringraziamenti nei titoli di coda dei film che arrivano sempre per ultimi. il mio turno viene quando non c’è più fretta e nessuno ha fretta che venga il mio turno. però ora giro e rigiro nel parcheggio davanti al Pronto Soccorso e non trovo parcheggio davanti al Pronto Soccorso. Danilo fa segno di fermarmi nella piazzola dal contorno giallo ma nel contorno giallo non posso fermarmi gli faccio segno. Danilo dice che tanto non succede niente se mi metto lì allora faccio come dice lui e metto il Ducato proprio lì. che non mi scambino però per una persona con dei problemi o diversamente abile per dirla bene. io non ho dei problemi e non sono abile in modo diverso. io sono come tutti gli altri e per certe cose sono anche più intelligente degli altri. se solo mi chiamassero a Chi vuol essere milionario? ad esempio lo farei vedere a tutti quanto sono in gamba a diventare milionario. prendo l’ombrello e smonto dal Ducato. dice Danilo: «Cosa fai con quello?» dico: «Se piove?» dice: «Guarda che tempo, Mauro. Mica piove con ’sto nebbione.» dico: «Si sa mai.» dico ancora: «Mi ha chiamato il dottor Minguzzi.» lui fa sì con la testa e mi sorride. di solito è gentile con me Danilo anche se qualche volta sembra un po’ ma ho dimenticato di chiudere a chiave il Ducato sbadato che sono. torno indietro al parcheggio frugandomi le tasche. dice Danilo: «Guarda che l’hai già chiuso il Ducato.» non mi ricordo di averlo chiuso e comunque non gli credo. infilo le chiavi nella serratura e il Ducato in effetti è già chiuso. quando torno dentro il dottor Minguzzi neanche mi saluta. fa solo cenno di seguirlo. mi porta in fondo all’ospedale ma proprio in fondo. passiamo per corridoi sempre più stretti e sempre più scuri fino ad arrivare alla camera più stretta e più scura di tutte. sopra il lettino c’è un lenzuolo verde. sotto il lenzuolo verde il rilievo di un corpo. dice Minguzzi: «È successo stasera.» di quel corpo scopre la faccia ammaccata come una mela cascata da un albero gigante. dice Minguzzi: «Suo figlio, quando l’ha saputo, è scappato via molto scosso.» dice ancora: «Pochi minuti dopo si è presentato un altro figlio.» dice ancora: «Però sosteneva di essere figlio unico.» dico io: «Deve essere colpa del trauma.» dice lui: «Il secondo figlio, che pareva più figlio del primo, come puoi immaginare non era molto in sé, però era d’accordo sul rimetterlo un po’ in sesto prima del funerale.» il dottore tira giù il lenzuolo e scopre il cadavere tutto intero. è un brutto vedere questo cadavere intero per chi non è abituato ai cadaveri interi brutti da vedere. chiedo: «Anche il trattamento?» «Anche la tanatoprassi, servizio completo. Gli ho spiegato che se volevano tenere la bara aperta...» il dottore ha ragione. con questo qui serve il trattamento altrimenti al funerale ci arriva che non lo riconosce più nessuno.
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