Capitolo 2-2

1980 Words
«Parlatemi di voi due,» dissi, stampandomi in faccia un bel sorriso falso. Cord mi stava guardando con quei suoi occhi scuri penetranti. Era quasi snervante il modo in cui mi dava attenzione come se non ci fosse altro attorno a lui. Per lui, non c’era alcun bel paesaggio da vedere. Solamente io. Dal momento che si teneva il cappello in grembo, potevo vedere che aveva i capelli scuri tagliati corti e acconciati in maniera ordinata. Aveva una riga che gli circondava la testa per via del cappello. Un vero e proprio cowboy. Con le sopracciglia ben definite, gli occhi risultavano ancora più intensi. Il naso era leggermente storto, come se fosse stato rotto più di una volta. Football o liti al bar? Il suo volto era ampio, la mascella prominente. Le guance e il mento scolpito erano ricoperti da una corta barba nera. Era il tipo di uomo che probabilmente doveva radersi due volte al giorno. E le sue dimensioni! Era enorme. Tanto grande che avrebbe potuto ridurmi in poltiglia. E le sue mani. Grandi come dei piatti. Eppure, quando mi guardava con quella sua pazienza quieta e intensa, percepivo una certa gentilezza provenire da lui. Un gigante buono, per quanto dubitassi che lo desse a vedere a qualcuno. Perchè io riuscissi a percepirlo, non ne avevo idea. Volevo fargli scorrere le dita sul viso, sulle spalle ampie, sentire la differenza tra noi due. Avevo anch’io dei muscoli, ma erano nascosti sotto uno stratto di curve femminili che non sarebbero svanite nemmeno se avessi continuato a fare esercizi di ginnastica e a provare posizioni di yoga all’infinito. Riley mise la freccia e svoltò nuovamente. Ogni strada mi sembrava estendersi fino all’orizzonte, dritta e in pianura. Dopo un’ora di macchina, ancora non avevo idea di dove fossimo o di dove stessimo andando a parte lo Steele Ranch. Ma la sua sicurezza alla guida mi metteva a mio agio. No, Riley mi metteva a mio agio. Non aveva quell’aria rigida e severa da militare come Cord. Le sue mani erano rilassate sul volante e mi rivolgeva rapide occhiate e sorrisi ancora più brevi. Tuttavia, il suo atteggiamento informale non dimostrava la sua astuzia o la sua complicata carriera da avvocato. Quando le mie ricerche online sul conto di Cord non avevano sortito più di tanti risultati – in quanto guardia di sicurezza sapeva nascondere facilmente qualunque dettaglio della sua vita o della complessità del suo lavoro – Riley era stato più semplice da scovare. Il sito del suo studio legale condivideva il suo curriculum, la sua istruzione ad Harvard e all’Università di Legge di Denver. I suoi successi in casi riguardanti i diritti sull’acqua e le grandi compagnie petrolifere. Sulla carta, era impressionante. Ma quanto scritto su un pezzo di carta non era tutto, proprio come aveva detto Cord. «Ho seguito le orme di mio padre,» disse finalmente Riley. «Ha fatto l’avvocato in Louisiana per vent’anni prima che mia madre morisse di cancro. Si è trasferito qui con me quando io facevo la seconda media. Abbiamo cambiato abitudini entrambi. È allora che ho conosciuto quel gigante.» Fece un cenno col capo in direzione del sedile posteriore e strizzò nuovamente l’occhio. «Dopo la scuola di legge, mi sono unito a mio padre nel suo studio per poi prendere il suo posto una volta che è venuto a mancare. Si potrebbe dire che abbia ereditato Aiden Steele come cliente.» «Ho visto i documenti, li ho firmati, ma cosa significa tutto questo?» chiesi io mentre svoltavamo per passare sotto ad un arco di legno. Due spessi tronchi verticali si trovavano ai lati di un ampio vialetto sterrato. Sopra di essi ne era posato un terzo con al centro un cartello in metallo. Steele Ranch. Non era di lusso, ma faceva la sua bella figura e gridava Old West. Non c’era alcuna casa in vista. Nulla a parte la strada da cui eravamo giunti e, perpendicolare ad essa, il vialetto. Il terreno circostante si estendeva a vista d’occhio, ancora coperto dall’erba alta che ondeggiva al vento. Le montagne sembravano più grandi viste da lì e le cime innevate più alte, scoscese e perfino più impressionanti. Guidammo ancora per un minuto prima che Riley indicasse qualcosa fuori dal parabrezza. «Ecco la casa principale. Da un lato ci sono le stalle. Il fienile. Una baracca e dei piccoli cottage per chi vive qui. Allo Steele Ranch ci lavorano quindici persone a tempo pieno.» Il vialetto curvava verso destra e verso il basso. A valle, riuscii a scorgere i vari edifici che aveva menzionato e la casa in lontananza. Wow. La residenza principale non era enorme quanto una villa, ma era formidabile tanto quanto l’ingresso. Mi guardai indietro e tutto ciò che riuscii a vedere fu la polvere che era stata smossa dal pick-up. Man mano che ci avvicinavamo, esaminai la casa che avevo ereditato. Be’, un quinto di essa, almeno. Due piani, una veranda che la circondava completamente. Finestre equamente distanziate, un porta di legno scuro al centro. Sembrava vecchia, come se fosse stata costruita decine di anni prima che Aiden Steele fosse anche solo nato. Se avessi dovuto indovinarne le dimensioni, avrei contato cinque o sei camere da letto al piano superiore. «È stato mio... pad- Aiden ad avviare il ranch?» Non ero pronta a chiamare quell’uomo mio padre, nemmeno se mi aveva riconosciuta, quantomeno alla morte, come sua figlia. Riley scosse la testa, rallentando mentre passavamo sopra le doghe di ferro che fungevano da protezione per il bestiame. «Suo nonno. È una delle proprietà originarie di questa zona, ma tuo nonno ci ha aggiunto un bell’appezzamento negli anni trenta, e poi ancora altro terreno negli anni cinquanta. Tuo padre, per quanto fosse una seccatura, ci sapeva fare negli affari.» Era la prima volta che si accennava al fatto che Aiden fosse stato un uomo difficile, ma dovevo immaginarmelo dal momento che aveva seminato donne incinte in tutto il paese. Affascinante, certo, per averle ridotte in quello stato – inlcusa mia madre – ma difficile se nessuna di quelle donne se l’era voluto tenere stretto dopo il concepimento. «Quanto è grande la proprietà?» mi chiesi, non troppo interessata a riflettere sulla lunga scia di amanti di mio padre. «La strada che stavamo percorrendo è il limite meridionale della proprietà.» Riley indicò alle proprie spalle con un pollice. «Sono più di sessantamila acri.» Spalancai la bocca mentre mi facevo due calcoli in mente. «Quattromilaquarantacinque metri quadri per sessantamila.» Riley rise mentre accostava di fronte alla casa. Il vialetto sterrato formava un cerchio, per poi estendersi fino agli edifici bianchi che riuscivo a scorgere in lontananza. «Vedo che te ne intendi di matematica. Non c’è da preoccuparsi di invadere il terreno dei vicini. Tutto ciò che vedi è di proprietà degli Steele.» L’erba di fronte alla casa era tagliata e c’erano delle mattonelle di pietra a formare un sentiero che portava ai gradini, ma non si trattava di un luogo che richiedesse grande manutenzione. Niente grandi vasi fioriti, solamente qualche piantina appesa lungo il porticato. Nessun prato ben curato, solo una distesa d’erba che mi apparteneva fino a dove l’occhio riusciva a spingersi. Be’, un quinto di essa. Proprio come aveva detto Riley. Era bellissimo. Tranquillo. Ma molto, molto isolato. «Ti aiutiamo a sistemarti all’interno dopodichè potrai esplorare la tua nuova casa,» disse Cord. Era da un po’ che se ne stava in silenzio, ormai, e la sua voce profonda mi scivolò addosso, facendomi venire la pelle d’oca. «Riposati. Questo posto è tuo, adesso.» Scesero entrambi dal pickup con un balzo. Prima che io potessi anche solo aprire la portiera, Cord era già lì a sporgersi per slacciarmi la cintura. Mi posò nuovamente le mani grandi sulla vita per aiutarmi a scendere. «C’è qualcun altro qui?» chiesi mentre gli scivolavo contro il corpo. Sì, Cord mi fece scivolare contro di sè così che riuscii a percepire ogni singolo centimetro del suo petto robusto. I seni mi formicolarono a quel contatto, nel sentire il suo calore. E quando mi fece finalmente toccare terra, non lasciò la presa sui miei fianchi. Io non riuscivo a fare altro che fissare i suoi occhi scuri. «Nessun altro. Solo tu.» «Oh,» replicai. A Philadelphia, vivevo in periferia in un quartiere le cui case erano abbastanza vicine le une alle altre da sapere sempre un po’ gli affari di tutti. Salutavo spesso con la mano l’anziano signore del palazzo di fronte e gli prendevo il giornale quando faceva troppo freddo per lui per uscire. I bambini della porta accanto spesso mi svegliavano presto il sabato mattina con i loro schiamazzi nel cortile sul retro. Ma qui? Non avevo vicini. Niente case per quelle che sembravano miglia. E un negozio di alimentari? Doveva trovarsi nel paesino che avevamo attraversato a venti minuti di macchina da lì. Passando per quella strada deserta. «C’è una governante, la signora Potts, che veniva qui tutti i giorni quando Aiden era in vita. Dopo il suo funerale è venuta solamente una volta alla settimana, ma è passata ieri. Ti ha rifornito il frigo così da non farti morire di fame durante il periodo di assestamento. Adesso, però, dipende solo da te se vorrai il suo aiuto o meno.» Lanciai un’occhiata alla casa. «Non ho idea di cosa si debba fare con le mucche. O i cavalli. Li farei morire tutti di negligenza. È in grado di occuparsi di loro?» Cord mi accarezzò la pelle con i pollici, facendomi venire la pelle d’oca sulle braccia. «Tuo padre ha stanziato dei soldi per la cura del ranch. Gli animali, gli edifici, per pagare chi tiene in piedi la baracca. Non devi preoccuparti di niente di tutto questo.» «È tutto compito mio, in quanto esecutore testamentario,» disse Riley raggiungendoci. Sollevò una chiave. «Tutto ciò che devi fare tu è... be’, tutto quello che ti pare.» Improvvisamente sopraffatta, sospirai. «Voglio farmi un sonnellino.» Cord fece un passo indietro, mi prese per mano e mi condusse su per i gradini. «Allora sarà ciò che farai. Verremo a prenderti alle sei per la cena. Ti basta come tempo?» Lo fissai, sorpresa che non avesse chiesto, ma mi avesse semplicemente detto che avrei cenato con loro. Sapevano bene, però, che non avevo altri piani. Non era come se potessi inventarmi una scusa, non che volessi farlo. Riley aprì la porta d’ingresso con la chiave, la spalancò con una spinta, ma non entrò. Ignorando la domanda di Cord, io diedi un’occhiata all’interno. Non c’erano luci accese, ma le stanze che riuscivo a vedere erano ben illuminate dalle finestre. Mobili scuri, tende spesse. Pavimenti in legno. Tutto mio e tutta da sola. Improvvisamente, l’idea di ereditare un ranch nel Montana mi intimidì. E mi fece sentire sola. «Sì,» mi affrettai a dire. Non volevo cenare da sola, a prescindere da come sarebbe andata a finire. Volevo stare con Cord e Riley. Loro rendevano tollerabile il trovarmi lì. Non che non ne fossi grata, ma era tanto da assimilare. Da accettare. Un ranch, delle dimensioni di cosa, del Rhode Island? Avevo fantasticato sulla casa e sulla proprietà da che ne ero venuta a conoscenza. Ma non avevo pensato a nessuno di quei due uomini. Adesso era il contrario. La mia mente era piena di loro. Della loro imponenza, dei loro sorrisi. Del loro profumo. Non mi ero immaginata che fossero, be’... tutto ciò che erano. Dominanti, sicuri di sè, decisi. Gentili, educati. Oscuri. Leggermente pericolosi e fottutamente invitanti. Il fatto che mi lasciassero sola mi faceva... paura. Mi sentivo protetta e al sicuro con loro, come se tutto sarebbe andato bene. Come se non fossi sola. Non mi ero sentita così per molto, molto tempo. Ma ero una donna adulta, per la miseria, ed ero in grado di gestirmi da sola e di passare qualche ora in una grande casa senza la presenza di nessun altro. Mi schiarii la gola. «Alle sei va bene. Grazie.» Cord annuì e indietreggiò, lasciando cadere la mano. «A dopo.» Riley mi fece l’occhiolino. E quando scesero i gradini ed io fui in grado di osservare il loro bel sedere fasciato dai jeans, mi resi conto di trovarmi in un mare di guai. Mi ero presa una cotta per due cowboy del Montana.
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