I
Egli – poiché dubbio non v’era sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi alquanto lo dissimulasse – stava prendendo a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto. Aveva essa la tinta d’una vecchia palla di cuoio; e quasi ne avrebbe avuto la forma, se non fosse stato per il cavo delle guance, e i pochi capelli duri e aridi come barbe d’una noce di cocco. Il padre di Orlando, o forse il nonno, l’aveva spiccata dal busto del gigantesco Infedele che gli s’era parato davanti improvviso al chiaro di luna, nelle barbare distese africane, e ora essa oscillava dolcemente, incessantemente, alla brezza perenne che soffiava per le logge in cima alla vasta dimora del signore che aveva decapitato l’Infedele.
I padri di Orlando avevano cavalcato per campi di asfodeli, e per campi sassosi, e per campi bagnati da acque straniere, e da più d’un busto avevano spiccato più d’una testa di vario colore, e le avevano portate seco onde appenderle alle travi dei loro soffitti. Così giurava di fare Orlando. Ma poiché non aveva che sedici anni, ed era troppo giovane per accompagnare gli altri nelle loro scorribande in Africa o in Francia, sovente sfuggiva alla madre e ai pavoni del giardino, e, salito alle logge sotto il tetto, si accontentava di menar gran colpi e stoccate e piattonate con la lama sibilante. Gli accadeva talora di tagliare netto la corda, sì che la testa rimbalzava sul suolo; e dovendo egli tornare a legarla, cavallerescamente l’assicurava quasi fuor di portata; e un ghigno di trionfo pareva schiudere allora le labbra nere e secche del suo nemico. Il cranio dondolava in qua e in là, ché la casa, in cima alla quale Orlando s’intratteneva, era tanto vasta che pareva far prigioniero il vento stesso, che vi si aggirava soffiando d’inverno come d’estate. Senza posa si gonfiava alla brezza l’arazzo verde con le figure dei cacciatori. Nobile era la schiatta da cui Orlando discendeva, sin dal principio dei secoli. I suoi padri erano venuti dalle brume nordiche, recando corone sulle loro teste.
Certo era il sole, il quale cadendo attraverso le maglie di quella gran cotta d’arme sulla vetrata striava d’oscurità la sala, chiazzava d’una scacchiera di pozze di luce giallognola il pavimento. Orlando spiccava ora sul giallo d’un leopardo araldico. E la mano che egli pose sulla maniglia della finestra onde aprirla, subito si color di rosso, di azzurro e di giallo come ala di farfalla. E a coloro che amano i simboli e provano gusto a decifrarli, non sarebbe certo sfuggito allora che, mentre le ben formate gambe, il corpo armonioso, le eleganti spalle di Orlando erano maculate di luminosi colori araldici, non altro che il sole illumin il suo viso, allorché egli aperse impetuoso la finestra. Viso più candido e più scuro non si sarebbe potuto immaginare. Felice la madre che port in seno un essere tale; e più felice ancora il biografo che ne tramanderà la vita! Se l’una non avrà mai luogo ad affliggersi, all’altro sarà risparmiato ricorrere all’aiuto del novellatore e del poeta. Di gesta in gesta, di gloria in gloria, di onore in onore andrà l’eroe, seguito dal suo scriba, fino a che raggiungeranno quel trono supremo, quale ch’esso sia, dove culminano le loro aspirazioni. E invero, al solo vederlo Orlando appariva predestinato a una simile carriera. Una peluria come di pesca velava l’incarnato delle guance, sul labbro appena un poco più accentuata che sulle gote. Il labbro era breve, e leggermente rialzato su denti d’una squisita bianchezza di mandorla. Perfetta si tendeva la curva del naso, quale freccia in rapido e sicuro volo; brune erano le chiome, piccole le orecchie e aderenti al capo. Ma come terminare, ahimè, tanta enumerazione di giovanili beltà, senza rammemorare e fronte e occhi? Perché, ahimè, è sì raro che creatura umana nasca privata di essi. E appena il nostro occhio cade su di Orlando presso la vetrata, ecco che ci colpiscono i suoi occhi pari a viole inumidite, grandi come se l’acqua che le impregna ancor le dilatasse; e la fronte ricurva come superba cupola marmorea, tra i due medaglioni politi delle tempie. Ecco che appena il nostro occhio cade sui suoi occhi, e sulla sua fronte, l’estro poetico ci assale. Ecco che non appena il nostro occhio cade sugli occhi e sulla fronte di Orlando, ci è giocoforza ammettere mille cose fastidiose, su cui il buon biografo dovrebbe sorvolare. Tal vista lo disturbava, come quella della madre sua, venusta dama di verde vestita, la quale, seguita dall’ancella, Twitchett, s’avviava a gettare il becchime ai pavoni; tal vista lo esaltava – uccelli e alberi – tal altra – cielo al crepuscolo o volo di cornacchie al nido – lo innamorava della morte, e così, salendo per la scala a spirale sino al cervello – che era assai spazioso – tutti quegli spettacoli, cui si aggiungevano i rumori di cui saliva l’eco dal giardino, il cader d’un martello e l’ascia d’uno spaccalegna, determinavano quel sovvertimento, quel disordine delle passioni e dei sentimenti che ogni buon biografo aborre. Ma proseguiamo. Orlando si ritrasse lentamente dalla finestra, sedette a un tavolo e, con l’aria semicosciente di chi compia il gesto che è uso compiere a quell’ora in ogni giorno di sua vita, trasse un quaderno che recava la scritta: “Ætelbert – Tragedia in cinque atti”; e intinse nell’inchiostro una vecchia penna d’oca tutta macchiata.
Ben presto egli ebbe ricoperto dieci e più pagine di poesia. Se facile era il suo stile, d’altra parte era astratto. Il Vizio, il Delitto, la Miseria erano i personaggi del suo dramma. Là, re e regine governavano Stati inverosimili; trame orrende li avvolgevano; nobili sentimenti li agitavano; non c’era là dentro una sola parola che Orlando stesso avrebbe pronunciato, ma vi spiravano una fluidità, una dolcezza invero non indifferenti, dove si considerasse l’età del poeta – egli non aveva ancora diciassette anni – e il fatto che il XVI secolo, allora sul declinare, non era peraltro spirato. Tuttavia Orlando finì per sostare. Al pari di ogni giovane poeta, egli era immerso in una descrizione della natura; e, spinto dal desiderio di conferire al verde l’esatta sfumatura, cerc con lo sguardo (in ci dimostrando assai più audacia di tanti altri) l’oggetto medesimo, il quale era per l’appunto un cespuglio d’alloro che cresceva sotto la finestra. S’intende che, dopo di ci , non riprese a scrivere. Il verde della natura è una cosa; il verde in letteratura è un’altra cosa. Una naturale antipatia, si direbbe, regna fra la natura e le belle lettere; mettetele a confronto, e si prenderanno per i capelli. La sfumatura di verde che Orlando vide sciupava la sua rima e mandava a monte il metro. Inoltre, la natura ha le sue astuzie. Basta che uno veda dalla finestra api e fiori, un cane che sbadiglia, il sole al tramonto, e pensi “quanti soli vedr tramontare ancora”, ecc. ecc. (pensiero troppo noto perché meriti d’essere qui svolto); e tosto lascerà cadere la penna, prenderà il suo mantello, uscirà a grandi passi dalla stanza, e incespicherà in un cofano istoriato. Poiché Orlando era un tantino malaccorto.
Ebbe cura di evitare d’incontrarsi con chicchessia. Ecco Stubbs, il giardiniere, che se ne veniva lungo il sentiero. Orlando si nascose dietro un albero, finché quegli non fu passato. Uscì per una porticina nel muro di cinta del giardino. Lungo le scuderie, i canili, le cantine, le botteghe dei falegnami, i lavatoi; lungo i luoghi dove si fabbricavano candele di sego, si macellava il bestiame, si forgiavano ferri da cavallo, si cucivano giustacuori – poiché era, quella dimora, vero borgo brulicante d’artigiani intenti ognuno alla propria opera – raggiunse il cammino tra le felci, quello che non visto l’avrebbe condotto attraverso il parco in cima all’altura. Esiste, forse, una parentela tra le qualità, sì che una ne attira l’altra; e qui ben dovrebbe il biografo dar risalto al fatto che la sbadataggine, talora, va compagna all’amor della solitudine. Orlando, che aveva incespicato in un cofano, nutriva una naturale inclinazione per i luoghi solitari e i vasti orizzonti, e si dilettava di sentirsi più e più e più che mai solo.
Onde aprendo le labbra per la prima volta in queste memorie: «Eccomi solo» esal dopo lungo silenzio. Tra felci e biancospini, mettendo in fuga al suo passare daini e uccelli selvatici, aveva camminato piuttosto velocemente, su su fino a una radura coronata da una solitaria quercia. Alto era il luogo, tanto alto invero che diciannove contee inglesi vi si potevano contare nella piana; e nelle giornate chiare trenta, e financo quaranta se il tempo era particolarmente bello. Qualche volta si discernevano le onde incessanti del Canale della Manica. E l’occhio spaziava su fiumi solcati da barche che andavano a diporto; vedeva galeoni che veleggiavano verso il mare; e cannoniere che mandavano sbuffi di fumo donde usciva sordo il rombo del cannone; e porti sulla costa; e castella sorgenti dalle praterie; e qua una torre di milizia, e là una fortezza; e, ancora, vaste dimore come quella del padre d’Orlando si ergevano nella valle pari a città cinte di bastioni. A levante sorgevano le guglie di Londra e le nebbie della città; forse, all’orizzonte, se il vento era propizio, financo la cima scoscesa e la dentellata cresta di Snowdon si mostravano montagnose tra le nubi. Per qualche minuto, Orlando sost a contare, a riconoscere, aguzzando gli occhi. Quella era la casa paterna; quell’altra apparteneva allo zio. Alla zia appartenevano quei tre grandi torrioni, laggiù tra gli alberi. La landa era loro, e la foresta; e il fagiano e il daino, e la volpe, il tasso, e la farfalla.
Profondamente sospir e si gett – c’era nei suoi gesti una violenza che merita la parola – sul nudo suolo a piè della quercia. Godeva nel sentire, sotto l’effimera apparenza dell’estate, la spina dorsale della terra; ché tale era per lui la dura radice della quercia, oppure – l’immagine seguendo l’immagine – era il dorso d’un gran destriero ch’egli cavalcava; o la tolda di una nave in preda alle onde; qualsiasi cosa, insomma, di duramente solido, poiché egli anelava a qualche cosa cui ormeggiare il suo fluttuante cuore; quel cuore che ogni sera in quella stagione, quando egli s’aggirava per le campagne, pareva ricolmo di spezie e di languide sensazioni d’amore. Alla quercia egli lo leg , e, standosene così disteso, a poco a poco il pulsar scomposto, entro di lui e intorno, si calm ; sostarono sospese le esigue foglie, si ferm il daino; si arrestarono le pallide nuvole d’estate; le membra gli si appesantirono sul suolo; ed egli giacque così immoto che passo passo il daino s’appress , le cornacchie roteando scesero sul suo capo, le rondini si tuffarono e volteggiarono, il sussurro delle libellule lo sfior , quasi tutta la fertilità e il tripudio d’amore della sera d’estate tessessero la propria trama intorno a Orlando.
Un’ora forse era trascorsa – il sole scendeva rapidamente, le bianche nubi trascoloravano in rosso, le colline s’andavano facendo di viola, i boschi di porpora, e nere le valli – quando un suon di tromba echeggi . Orlando balz in piedi. Il suono acuto saliva dalla valle. Usciva da una macchia nera laggiù; macchia compatta e ben delimitata; un dedalo; una città, benché cinta di mura; usciva dal cuore stesso della gran dimora di Orlando là nella valle che, dianzi buia, sotto l’occhio di lui e mentre quella solitaria tromba ripercuoteva infinite volte l’eco della sua voce acuta, perdeva la sua oscurità e si picchiettava di luci. Erano, alcune, piccole luci frettolose, come di servi affannati che accorressero a un richiamo lungo gli anditi; altre erano luci alte e smaglianti che parevano brillare in grandi sale deserte, dove la tavola attendesse invano gli ospiti non giunti; e altre si tuffavano e oscillavano e si levavano e ricadevano, come affidate a turba di famigli i quali si inchinassero, s’inginocchiassero, si rialzassero, intenti a ricevere, a scortare, a rendere gli onori che spettavano alla nobile dama che discendeva dal suo cocchio. Equipaggi facevano il giro del cortile. Cavalli scuotevano i pennacchi piumati. La Regina era giunta.