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2031 Words
Quella vista bast a Orlando. A salti discese la collina. Rientr per una porticina segreta. Divor la scala a chiocciola. Le sue calze volarono da una parte, il giustacuore dall’altra parte della stanza. Tuff il capo nell’acqua. Si nett le mani. Col soccorso di sei pollici di specchio, alla luce di due moccoli, infil le brache scarlatte, la gorgiera di merletto, il giustacuore di taffetà, e calz le scarpe ornate di rosette grandi quanto dalie; e non v’impieg più di dieci minuti, all’oriolo delle scuderie. Era pronto. Era rosso. Era agitato. Ma era in gran ritardo. Per scorciatoie a lui note, s’avvi per la vasta congerie delle stanze e delle sale sino alla sala del festino, cinque acri distante, all’altra ala del castello. Ma a mezza via, nei quartieri di fondo dove abitava il servidorame, sost . La porta della sala di Mistress Stewkley era aperta: ella se n’era andata, sicuramente, con tutte le sue chiavi, agli ordini della signora. Ma là, seduto alla tavola dei servi davanti a un foglio di carta, un boccale accanto a sé, sedeva un uomo piuttosto grasso, e male in arnese, vestito di grosso bigello con un collare non troppo pulito. Teneva una penna in mano, ma non scriveva. Pareva ruminasse un qualche pensiero, e l’andasse rimuginando tra sé e sé fino a che gli avrebbe dato forma e peso a suo genio. Lo sguardo degli occhi, a fior di testa e nebulosi come pietre verdi di grana singolare, era fisso. Egli non vide Orlando, il quale, a malgrado della sua furia, si arrest di colpo. Era costui un poeta? Intento a scrivere versi? “Oh ditemi” avrebbe voluto chiedergli “ditemi ogni cosa al mondo!” – poiché Orlando nutriva le più folli, le più assurde, le più stravaganti idee sui poeti e sulla poesia –; ma come rivolger la parola a chi non vi vede? a chi vede orchi, satiri, forse gli abissi del mare, in luogo vostro? Così Orlando contemplava a bocca aperta quell’uomo, il quale rigirava la penna tra le dita, or di qua e or di là; e guardava fisso, e meditava; e poi scrisse assai rapido cinque o sei righe e lev lo sguardo. Ma a questo punto la timidità ebbe il sopravvento su di Orlando, il quale partì come una freccia e giunse alla sala del festino in tempo appena per cadere in ginocchio e, chinando il capo in confusione, offrire una coppa d’acqua di rose alla gran Regina in persona. Tanto era intimidito, che di lei altro non vide fuorché la mano inanellata immersa nell’acqua; ma quella vista gli bast . Era una mano che non si poteva dimenticare; una mano sottile dalle lunghe dita sempre ricurve come a serrar scettro o globo; una mano nervosa, bisbetica, malsana; mano di despota; mano cui bastava levarsi per far cadere una testa; una mano, parve a Orlando, attaccata a un vecchio corpo che emanava l’odor degli armadi che rinserrano le pellicce tra la canfora; un corpo tuttavia bardato d’ogni sorta di broccati e gemme che si teneva eretto ad onta, forse, dei dolori di sciatica, né cedeva malgrado i mille terrori che lo agitavano; e gli occhi della Regina eran lionati. Tutto ci gli si manifestava, mentre i grandi anelli traversavano l’acqua di bagliori, e poi qualcosa premé le sue chiome; e ci , forse, ci rivela che egli non vide più nulla da cui possa trar partito uno storico. La verità è che nel suo spirito regnava un tal caos – la notte, i doppieri fiammeggianti, il poeta male in arnese e la gran Regina, i campi silenziosi, l’andirivieni dell’affaccendato servidorame – che nulla egli vedeva, o appena una mano. A sua volta, dunque, la Regina non avrà visto nulla più di una testa. Ma se pu darsi che una mano riveli intero un corpo, informato a tutti gli attributi di una gran Regina, il suo carattere bisbetico, ii suo coraggio, le sue debolezze e i suoi terrori, non v’è dubbio che una testa possa rivelare altrettanto, quando è vista dall’alto d’un trono da una signora i cui occhi – se dobbiamo prestar fede ai ceri dell’Abbazia – erano sempre bene aperti. I lunghi capelli inanellati, la testa bruna china dinanzi a lei con tanta riverenza, con sì grande innocenza, implicavano di certo il più bel paio di gambe che mai abbiano portato un corpo di giovine gentiluomo; e occhi di viola; e un cuor d’oro; lealtà e grazie virili: tutte qualità che la vecchia dama tanto più amava in quanto sempre più le sfuggivano. Poiché diventava vecchia e frusta e curva innanzi tempo. Le sue orecchie erano sempre piene del rombo del cannone. Ovunque vedeva lo scintillar della goccia di veleno, o dello stile acuminato; seduta a mensa, tendeva l’orecchio; udiva il cannone nella Manica; il terrore la teneva. Era una maledizione? un bisbiglio? Innocenza, semplicità le erano tanto più care quanto più risaltavano su di uno sfondo cupo. Vuole dunque la tradizione che in quella medesima notte, mentre Orlando era immerso nel più profondo sonno, ella, ponendo firma e sigillo alla pergamena, facesse dono al padre di lui del gran monastero che era appartenuto prima all’Arcivescovo e quindi al Re. Orlando dormì ignaro tutta la notte. Senza saperlo aveva ricevuto il bacio di una regina. E forse, poiché il cuore d’una donna ha mille vie, fu la sua ignoranza e il sussulto che egli ebbe allorché le labbra della Regina lo sfiorarono, che mantennero viva in lei la memoria del giovane cugino (poiché avevano del sangue in comune). In ogni modo, due anni di quella tranquilla vita di campagna non erano trascorsi, né dalla penna di Orlando erano uscite più d’una ventina di tragedie, di una dozzina di istorie e di una partita di sonetti, allorché venne un messaggio, che lo chiamava al servizio della Regina a Whitehall. «Ecco il mio innocente!» disse ella vedendolo avanzare verso di sé dal fondo della lunga galleria. (Spirava dalla sua persona un’aria di serenità, la quale dell’innocenza serbava l’aspetto quando tecnicamente la parola non sarebbe stata esatta.) «Venite» diss’ella. Sedeva presso il caminetto, rigida come se avesse ingoiato un chiodo. Arrestandolo a un passo da sé, lo squadr , dall’alto in basso. Confrontava essa le sue speculazioni di quella sera con la verità ora visibile? Trovava giuste le sue congetture? Rapido sorvol il suo sguardo gli occhi, la bocca, il naso, il petto, i fianchi, le mani; palesemente le sue labbra sussultarono mentre guardava; ma quando vide le gambe, rise ad alta voce. Egli era la perfetta immagine di un nobile gentiluomo. Ma interiormente? Dardeggi su di lui la fiamma giallognola degli occhi grifagni, come a trafiggergli l’anima. Il giovane sostenne quello sguardo, e un rossor lieve di rosa damaschina lo abbellì. Vigore, grazia, fantasia, follia, poesia, giovinezza: ella leggeva in lui come in un libro aperto. Tosto si strapp un anello dal dito (la giuntura era enfiata alquanto) e, infilatolo a quello di Orlando, lo nomin suo Tesoriere e Gran Maestro di Casa; gli pass quindi al collo la catena, attributo delle sue mansioni; e, invitandolo a piegare il ginocchio, allacci alla parte più snella di esso l’ordine, tempestato di gemme, della Giarrettiera. Nulla, dopo di ci , gli venne più rifiutato. Quando la Regina usciva in pompa magna egli cavalcava a fianco del suo cocchio. Ella lo mand in Iscozia, con una triste ambasciata per l’infelice Regina. Egli era sul punto d’imbarcarsi per le guerre di Polonia, allorché essa lo richiam . Come invero avrebbe sopportato il pensiero di quelle tenere carni dilaniate, di quella testa inanellata ruzzolante nella polvere? E lo tenne presso di sé. All’apogeo dei suoi trionfi, mentre i cannoni tuonavano dall’alto della Torre di Londra, e l’aria era tanto spessa di polvere da far sternutire, mentre gli urrà della folla facevano tremare i vetri delle finestre, ella lo attir a sé tra i cuscini dove le sue donne l’avevano deposta (era tanto vecchia e frusta) e lo forz a immergere il volto in quel sorprendente composto – da un mese la Regina non mutava le sue vesti – il quale, pensava Orlando, riandando con la mente ai suoi ricordi d’infanzia, aveva proprio l’odore di tal vecchio stipo, dove a casa sua la madre era usa riporre le pellicce. Si rialz , a metà soffocato dall’abbraccio. «Questa» esal la Regina «è la mia vittoria!»: e in quel mentre, un razzo sibilando scoppi e le color le guance di scarlatto. Poiché l’anziana donna lo amava. E la Regina, la quale sapeva riconoscere un uomo al primo sguardo, benché si dice ch’ella non seguisse le vie solite, la Regina ordì per lui una splendida ambiziosa carriera. Terre gli furono donate, case gli vennero assegnate. Egli sarebbe stato il figlio della sua vecchiaia, il sostegno della sua infermità; la quercia alla quale s’appoggerebbe nel suo declinare. E gli gracchiava di simili promesse, con singolari imperiose effusioni (erano a Richmond, ora), seduta dritta nei suoi broccati rigidi presso il fuoco che mai, per quanti ceppi vi si ammassassero, mai la riscaldava. Intanto i lunghi mesi d’inverno si snodavano. Nel parco, bianco gelo costringeva gli alberi. Pigre scorrevano le acque. Un giorno – la neve gravava sulla terra, e le sale ammantate di cupi pannelli si riempivano di ombre e i cervi bramivano nel parco – la Regina vide nello specchio, che per timor delle spie sempre teneva presso di sé, al di là della porta che per timor dei suoi sicari sempre teneva aperta, un giovinetto – Orlando forse? – il quale baciava una fanciulla; ma chi, per tutti i demoni dell’Inferno, poteva essere quella sfrontata sgualdrina? Subito diede di piglio alla sua spada dall’impugnatura d’oro, e colpì violentemente lo specchio. Il vetro si ruppe con fracasso; i famigli accorsero; la Regina venne sollevata e deposta di nuovo nella sua poltrona; ma il colpo l’aveva molto abbattuta, ed ella mugolava spesso, volgendo i suoi giorni alla fine, della slealtà del maschio. Orlando non era forse senza colpa; eppure, dopo tutto, sapremmo noi accusarlo? Era l’epoca elisabettiana; la morale di quella gente non era la nostra; né i loro poeti, né il loro clima di vita; nemmeno i loro legami. Ogni cosa era diversa. Chissà che financo il tempo, il freddo dell’inverno e il caldo dell’estate non fossero d’altra tempra che non ai nostri giorni. La chiara luce amorosa del giorno era divisa dalla notte altrettanto nettamente quanto la terra dall’acqua. I tramonti erano più rossi, più intensi; più bianca l’alba, più aurorale. Nulla sapevano essi delle nostre penombre serotine, dei nostri languidi crepuscoli. La pioggia cadeva violenta, o non cadeva affatto. Il sole divampava, o regnava l’oscurità. Traducendo questi fatti nelle regioni dello spirito, com’è loro costume, i poeti cantavano splendidamente il morir delle rose, il cader dei petali. L’attimo è breve, cantavano; l’attimo fugge; e poi, noi tutti dormiremo il medesimo lungo sonno. Quanto al porre in pratica gli artifici delle serre o dei tepidari, a fine di prolungare la freschezza di rose e garofani, non era nelle loro vedute. Essi ignoravano le avvizzite complicazioni, le ambiguità della nostra epoca. La violenza era tutto. La rosa fioriva e appassiva. Il sole nasceva e tramontava. L’amante amava e se ne partiva. E ci che il poeta diceva in rima, i giovani lo mettevano in pratica. Le fanciulle erano rose, e la loro stagione effimera al pari di quella dei fiori. Urgeva dunque coglierle prima del cader della notte; poiché breve era il giorno, e il giorno era tutto. Se Orlando dunque, seguendo l’orma del clima, dei poeti, del tempo stesso, coglieva il suo fiore nel vano d’uno sporto, pur mentre la neve copriva la terra e la Regina vigilava nell’andito, difficilmente sapremmo risolverci a incolparnelo. Giovane, in sul far della pubertà, egli agiva secondo i dettami della natura. Quanto alla pulzella, ne ignoriamo il nome tanto quanto la regina Elisabetta in persona. Poteva essere Doris, Cloe, Delia, o Diana, poiché a quei nomi tutti s’indirizzavano i versi di Orlando; così come poteva essere tanto una dama della Corte, quanto una camerista. Poiché Orlando era di gusti assai vasti; non soltanto i fiori di giardino amava, ma lo affascinavano ugualmente quelli di prato e le erbe selvatiche.
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