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2278 Words
Qui invero abbiamo messo a nudo, con la franchezza che al biografo è permessa, un tratto curioso di Orlando, spiegabile forse col fatto che qualcuna tra le sue ave aveva indossato camicie di tela rozza e portato il secchio del latte. Qualche grano di terra del Kent o del Sussex si mescolava nelle sue vene al bel sangue leggero che gli veniva di Normandia. Quel miscuglio di terra bruna e di sangue azzurro gli pareva eccellente. Certo è che aveva sempre avuto una spiccata predilezione per la compagnia della bassa gente; specie se si trattava di uomini di lettere, che il loro ingegno mantiene sì spesso in una condizione inferiore; quasi vi fosse, tra di loro, una simpatia di sangue. A quella stagione di sua vita, allorché il suo cervello straripava di rime, e mai egli si coricava senza toccar qualche corda, la figlia di un oste gli pareva più fresca, e la figlia d’un guardacaccia più arguta di spirito che non le dame della Corte. Così fu che prese l’abitudine di andar spesso a Wapping Old Stairs e nelle birrerie all’aperto, di notte, avvolto in una cappa grigia che celava la stella al suo collo e la Giarrettiera al ginocchio. Là, seduto davanti a un boccale, tra i sentieri cosparsi di ghiaia, e la verzura a palla e le semplici architetture che s’incontravano in simili luoghi, egli porgeva ascolto alle storie che i marinai narravano delle miserie, degli orrori e delle crudeltà delle terre di Spagna; e come taluno avesse perso l’alluce, tal altro il naso. Poiché la storia parlata non era mai così gentile, né attenuata di vaghi colori come la storia scritta. Particolarmente gli piaceva sentirli berciare le loro canzoni delle Azzorre, mentre i pappagalli, che da quelle parti avevano portato, beccavano le anella ai loro orecchi, picchiavano il duro becco di rapace ai rubini che recavano alle dita, e bestemmiavano altrettanto grossolanamente quanto i loro padroni. E appena meno audaci nei loro discorsi e men libere di modi di quei pennuti erano le donne. Esse si arrampicavano sulle ginocchia di Orlando, gli buttavano le braccia al collo e, indovinando che la cappa di mollettone nascondeva qualcosa di non comune, erano quasi altrettanto ansiose di toccar con mano la verità dei fatti, quanto Orlando stesso. Né mancavano già le occasioni. Dal fiume, presto si ridestava e tardi si assopiva il brulichio di barche, barconi e barchette e imbarcazioni d’ogni specie. Non passava giorno senza che qualche nave sciogliesse le belle vele per le Indie; e qua e là spuntavano altre vele, le quali annerite e lacere, mostrando a bordo degli stranieri irsuti, a gran fatica si trascinavano all’ancora. Nessuno si curava, se un garzone o una fanciulla s’attardavano un poco a lungo sull’acqua dopo il cader del sole; né aggrottava la fronte, se qualcuno cianciava d’averli veduti dormir profondo l’uno tra le braccia dell’altra in mezzo ai sacchi del bottino. E in tale avventura, infatti, incolsero Orlando, Sukey e il conte di Cumberland. La giornata era calda; e trascorso il tempo in scaramucce d’amore, i due primi erano caduti addormentati tra i rubini. Tardi, nella notte, il conte, le cui fortune erano sempre connesse alle imprese spagnuole, se ne venne solo, con una lanterna, onde controllare il bottino. Proiettata la luce su di un barile, indietreggi con una bestemmia: abbracciati contro i fusti dormivano due fantasmi. Al conte, che era d’indole superstiziosa e aveva la coscienza nera di più d’un delitto, la coppia – un manto rosso avvolgeva i due, e il seno di Sukey non era men bianco delle nevi eterne della poesia d’Orlando – apparve spettrale, quasi fantasmi di marinai annegati, balzati per svergognarlo dal profondo avello. Il conte si fece il segno della croce. Giur di far penitenza. La fila di case per i poveri che oggi ancora si vede in Sheen Road è il frutto palese di quel momento di panico. Dodici povere vecchie della parrocchia bevono oggidì il tè di giorno, e a sera benedicono Sua Grazia per il fatto ch’egli le protegge; cosicché l’amore illecito in una nave corsara... ma ci sia risparmiata la morale. Orlando tuttavia non tard a stancarsi, non solo dei disagi che quel modo di vivere recava con sé, e della mala genia che popolava quei quartieri, ma dei modi rozzi e primitivi di quella gente. Giova infatti ricordare che, presso gli elisabettiani, delitto e povertà non erano circondati da quell’aureola che noi prestiamo loro. Il sapere e la scienza non erano per essi oggetto di vergogna; né il nascer figli di un beccaio appariva a quei tempi come ai nostri una benedizione, e il non saper leggere una virtù; né ci si figurava che ci che noi chiamiamo “vita” e “realtà” dovessero andar di pari passo con l’ignoranza e la brutalità; anzi, non c’era neppure un equivalente per queste due parole. Non era dunque in cerca di “vita” che Orlando era sceso tra il popolo; né lo abbandon per scoprire la “realtà”. Ma dopo aver sentito raccontare innumerevoli volte come Jakes avesse perduto il naso, e Sukey l’onore – e dobbiamo riconoscere che essi raccontavano le loro storielle con gran maestria – cominci a sentirsi un po’ stanco della ripetizione, poiché un naso non pu esser tagliato che in una sola maniera, come non ve ne sono due di perder la verginità – o così almeno pareva a Orlando – mentre c’era nelle arti e nelle scienze una varietà che stimolava profondamente la sua curiosità. Così, pur serbandone buona memoria, desisté dal frequentare le birrerie all’aperto e i giochi dei birilli, appese nel guardaroba il mollettone grigio, lasci brillar la stella sul suo petto e scintillar la Giarrettiera al ginocchio, e riapparve alla Corte di re Giacomo. Egli era giovane, era ricco, era leggiadro. Nessuno avrebbe potuto esser accolto con più consenso di lui. È certo che più di una dama si mostr pronta ad accordargli i suoi favori. I nomi di tre almeno di esse si bisbigliarono unitamente a quello d’Orlando: Clorinda, Favilla, Eufrosina: così le nomin egli nei suoi sonetti. Ma andiamo per ordine. Clorinda era una gentile donzella di modi soavi; in verità, Orlando ne fu grandemente preso per sei mesi e più; senonché ella aveva le ciglia bianche e non poteva sopportare la vista del sangue. Una lepre servita arrosto alla tavola del padre le faceva perdere i sensi. E anche dava troppo retta ai preti; e anche risparmiava sulle sue biancherie per far elemosina ai poveri. S’era presa la briga di salvare Orlando dal peccato, tanto che egli finì per nausearsene e mand a monte le nozze, e non pianse gran che quando, poco tempo dopo, ella morì di vaiolo. Favilla, che seguì tosto, era di tutt’altra razza. Era la figlia di un povero gentiluomo della Contea di Somerset; la quale a forza di raggiri, provvista di un paio d’occhi che ben sapeva manovrare, s’era fatta strada sino alla Corte, dove la sua destrezza d’amazzone, il suo leggiadro incedere e la sua grazia nel ballare le avevan valso l’ammirazione di tutti. Una volta, tuttavia, si mostr tanto sconsigliata da frustare all’ultimo sangue, e proprio sotto le finestre di Orlando, un cane spagnuolo che le aveva strappato una calza di seta (amor della giustizia ci forza qui a dire che Favilla aveva poche paia di calze, e per lo più di droghetto). Orlando; che amava appassionatamente gli animali, s’avvide ora che essa aveva i denti a uncino, e i due di fronte rivolti in dentro, e si disse che era quello il segno certo, in una femmina, di un’indole perversa e crudele; onde quella sera medesima ruppe la promessa. La terza, Eufrosina, fu di gran lunga la più duratura delle sue fiamme. Nasceva essa dai Desmond d’Irlanda, e aveva quindi un albero genealogico altrettanto antico e profondamente radicato quanto quello d’Orlando stesso. Era bionda, prosperosa e un poco flemmatica. Parlava bene l’italiano; mostrava, nella mascella superiore, una fila di denti perfetti, benché quelli inferiori fossero alquanto ingialliti. Non la si vedeva mai senza un veltro o uno spagnuolo al fianco, che ella nutriva di pane bianco, e dal suo stesso piatto. Cantava dolcemente, accompagnandosi alla spinetta; e non appariva mai vestita prima di mezzodì, tanta era la minuziosa cura che aveva della persona. In breve, sarebbe stata una sposa perfetta per un gentiluomo come Orlando, e le cose erano già a tal punto che da ambo le parti i notai erano in gran faccende, tra contratti, assegni, dotazioni, annessi e connessi, proprietà, e tutte quelle formalità indispensabili affinché un gran patrimonio possa allearsi a un altro, quando, con l’improvvisa rigidità che a quei tempi distingueva il clima di Inghilterra, scoppi il Gran Gelo. Il Gran Gelo fu, secondo quello che ci tramandano gli storici, il più rigido che mai avesse colpito le nostre isole. Gli uccelli gelavano a mezz’aria e cadevano a terra come sassi. A Norwich, una giovane villana, la quale s’era accinta ad attraversar la strada in ottima salute come sempre, fu vista dagli astanti andar in polvere e volar in un nugolo al disopra dei tetti, all’urto del vento gelido che soffiava all’angolo della via. Immane era la moria negli ovili e nelle stalle. I cadaveri gelavano, e non potevano essere rimossi dai lini. Non era raro incontrarsi in interi branchi di porci, che il freddo aveva colto e solidificato nel bel mezzo della strada. I campi erano pieni di pastori, bifolchi, tiri di cavalli, fanciulli in atto di discacciar uccelli, tutti tramutati in statue dalle mosse subitanee; e chi si reggeva il naso con la mano, chi portava la borraccia alle labbra, un terzo faceva l’atto di gettare una pietra al corvo immobile, come impagliato sulla siepe a due passi da lui. La violenza del gelo era tanta, che causava talora una specie di pietrificazione; e nacque di poi la credenza, tra il popolo, che un gran pullular di rocce in qualche parte della Contea di Derby non fosse già dovuto a un’eruzione – ché non ve n’erano state – ma bensì al solidificarsi di sventurati viandanti, i quali erano stati tramutati né più né meno che in pietra e al luogo stesso dove si trovavano. Ben poco sollievo poté recare la Chiesa in quell’occasione; e se è vero che qualche proprietario fece benedire quei miseri resti umani, la maggior parte preferì servirsene come pietre limitari, o raschiatoio per le pecore scabbiose o, quando la forma della roccia lo permetteva, come abbeveratoio per il bestiame; e a tali scopi, in gran parte, servono eccellentemente ai nostri giorni ancora. Ma, mentre la più gran parte delle campagne languiva in un’indigenza estrema, e ogni commercio era sospeso nel paese, Londra festeggiava un Carnevale di uno splendore mai visto. La Corte era a Greenwich, e il nuovo Re colse l’occasione che offrivano le feste per l’incoronazione onde cattivarsi il favore dei suoi sudditi. Diede dunque ordine che il fiume, gelato a una profondità di venti piedi e più per un tratto di sei o sette miglia nell’uno e nell’altro senso, venisse spazzato e ornato, sì da assumere l’aspetto di un parco o di un soggiorno di piacere, con pergole, labirinti, viali, padiglioni di ristoro, ecc.; e il tutto a sue spese. Per se stesso e i suoi cortigiani, riserv un certo spazio, il quale fronteggiava i cancelli del Palazzo Reale; e questo spazio, separato dalla folla da un cordone di seta soltanto, non tard a diventare il raduno della più brillante società d’Inghilterra. Là, i grandi dignitari barbuti e impellicciati sbrigavano gli affari di Stato sotto i tendaggi scarlatti della Pagoda Reale. Capitani vi preparavano la sconfitta dei mori, e la caduta del Gran Turco, sotto pergole imbandierate e impennacchiate di piume di struzzo. Ammiragli misuravano a larghi passi i sentieri, il cannocchiale alla mano, spazzando di gran gesti l’orizzonte e narrando storie del passaggio di Nord-Ovest e dell’Armata di Spagna. Amanti folleggiavano sui divani ricoperti di zibellino. Una pioggia di rose gelate inondava la Regina e le sue dame al loro passare. Palloni variopinti erano sospesi immobili nell’aria: Qua e là ardevano grandi fal di cedro e di quercia, sui quali si gettava sale a profusione, cosicché le fiamme si tingevano di verde, di arancione e di porporino. Ma per quanto viva fosse la fiamma, il calore non bastava a fondere il ghiaccio, il quale, benché singolarmente trasparente, aveva la durezza dell’acciaio. Era così limpido che attraverso di esso si poteva scorgere, congelato a parecchi piedi di profondità, qua una focena, là una passera di mare. Frotte di anguille giacevano immobili in letargo; ma se fosse il loro uno stato di morte o unicamente di vita sospesa, che il calore rianimerebbe, ecco un problema che dava da fare ai filosofi. Nei pressi del Ponte di Londra, dove le acque erano gelate sino a venti e più tese, si vedeva distintamente, sul letto del fiume, un battello, al punto stesso dove l’autunno avanti, sovraccarico di mele, era calato a fondo. La vecchia fruttivendola, che se ne andava a vendere le sue frutta al mercato sulla riva del Surrey, sedeva ancora là, con le mele in grembo, infagottata tra scialli e guardinfanti, e si sarebbe giurato che stesse mercanteggiando con un compratore, se le labbra livide non avessero tradito la verità. Re Giacomo andava matto per quello spettacolo, e soleva condur seco, a deliziarsene, lo stuolo dei cortigiani. Insomma, di giorno regnava uno splendore, un tripudio non mai visti. Ma di notte, il Carnevale raggiungeva il culmine. Poiché il gelo non cessava punto; e mentre nella quiete perfetta della notte la luna e le stelle brillavano in una dura fissità adamantina, i cortigiani danzavano ai gai concenti di flauti e clarini.
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