La nebbia che si era insinuata dal pavimento della cripta ora era diventata un muro vivo, carico di una volontà propria. Avvolgeva le gambe di Filippo e Alberto come catene liquide, salendo lenta, e con essa un coro di voci, sussurri e lamenti riempiva l’aria densa, rendendo ogni respiro un atto doloroso.
Dalla statua velata filtrava ancora quella luce dorata, ma ora era intermittente, pulsava come il cuore di una creatura ferita. Ogni pulsazione faceva tremare le ossa che li circondavano, e le forme scheletriche cominciavano a sollevarsi dal pavimento, assumendo proporzioni umane e volti deformati dalla rabbia. Erano gli spiriti vendicativi, evocati dall’intrusione e dalla rottura dell’equilibrio.
Filippo sapeva che non c’era più spazio per esitazioni. Estrasse dal cappotto un vecchio rosario di ferro annerito, appartenuto a generazioni di guardiani, e iniziò a recitare frasi in una lingua antica, quella stessa che aveva letto nelle pagine più ingiallite del diario. Le parole uscivano basse ma perentorie, scolpite nell’aria.
Alberto, invece, era diviso: una parte di lui voleva seguire l’istinto di lottare, proteggersi; un’altra parte, più oscura, era attratta irresistibilmente dalla statua e dal richiamo della donna-spirito che aveva visto nelle visioni. E come se lei avesse percepito il suo turbamento, un’ombra dorata prese a serpeggiare attorno al suo corpo, sfiorandogli la pelle, passandogli sulle labbra come un bacio invisibile.
— Non ascoltarla! — gridò Filippo, la voce incrinata dalla paura, allungando una mano verso l’archeologo. Ma Alberto, pur restando immobile, non riusciva a distogliere lo sguardo. Si sentiva scaldato da dentro, bruciato da una fame nuova, mentre il volto della donna appariva chiaro nella mente: occhi di un verde profondo, labbra rosse come sangue vivo, capelli neri che parevano muoversi nell’acqua.
Le prime due figure scheletriche si lanciarono contro di loro. Filippo spinse Alberto contro la parete di pietra ruvida, il corpo del custode a scudo, caldo e fermo. Per un istante, la distanza nulla tra i due fu più scottante del pericolo stesso. Lo sguardo di Filippo si inchiodò in quello di Alberto, e l’archeologo vi lesse una miscela di rabbia, protezione e desiderio trattenuto troppo a lungo.
La tensione si ruppe solo quando una delle ossa animata sfiorò la spalla di Filippo, bruciandogli la pelle. In un unico, istintivo movimento, Alberto fece scorrere un braccio attorno alla vita del custode, quasi a trattenerlo là, mentre con l’altra mano stringeva uno degli strumenti di ferro che portava. Lo brandì come un pugnale, colpendo una figura spettrale che si dissolse in una nuvola di polvere grigia.
Ma la vittoria fu istantanea e inutile: dalla nebbia avanzavano altre sagome, più grandi, più compatte. Ogni movimento faceva gemere la cripta come un ventre ferito.
Filippo capì che non potevano resistere lì sotto. Afferrò il volto di Alberto con una mano ruvida, costringendolo a guardarlo negli occhi.
— Se ti perdo qui, non avrò pace. Capisci? Devi seguirmi adesso.
Quelle parole pesarono come un giuramento. Per un istante, il mondo soprannaturale alle loro spalle sembrò sparire, lasciando soltanto il calore dei respiri e il desiderio sottile di un contatto che superasse la paura.
Poi un urlo, strappato da decine di gole invisibili, riempì la sala. La luce della statua si espanse all’improvviso, accecando entrambi. L’ondata di energia travolse la cripta: le radici si mossero come serpenti, le ossa furono sollevate e lanciate contro le pareti. Filippo trascinò Alberto verso il corridoio, le torce ancora tremolanti di vita.
Risalirono i gradini, i passi affrettati che rimbombavano come colpi di tamburo. La nebbia li inseguiva, salendo dietro di loro come un’onda pronta a inghiottirli. All’uscita, il cimitero era attraversato da correnti di vento gelido, e le ombre, in superficie, correvano tra i cipressi come predatori liberi.
Fuori, ansimanti, si voltarono: dal varco della cripta, un bagliore dorato pulsava ancora, e tra le voci del vento si udì chiaramente quella della donna: «Non è finita…», seguita da un sussurro che pronunciava entrambi i loro nomi, come un legame inciso nel destino.
Filippo strinse ancora il braccio di Alberto, ma questa volta non lo lasciò andare. E in quel contatto c’era la consapevolezza che il pericolo non li avrebbe divisi… ma potenzialmente uniti, in un modo che nessuno dei due avrebbe potuto prevedere.