La notte si era fatta padrona del cimitero, e la nebbia, più spessa e umida che mai, avvolgeva le lapidi e gli angoli nascosti in un abbraccio freddo e impenetrabile. Era come se ogni respiro fosse sospeso in quella coltre grigia, e il silenzio, così profondo, si faceva quasi palpabile. I pochi lampioni, con le loro luci tremolanti, gettavano ombre danzanti che si allungavano e si contorcevano in forme minacciose, troppo sfocate per essere chiaramente viste, ma abbastanza vaghe da accendere l’immaginazione.
Filippo camminava lungo uno dei vialetti più antichi, quello che conduceva verso la porzione più vecchia del cimitero, dove le tombe erano meno ordinate e le iscrizioni ormai scolorite dalla pioggia e dal tempo. Ogni passaggio sulle pietre antiche emetteva un sordo scricchiolio che si disperdeva nel nulla, riportando alla mente del guardiano le storie di chi, in passato, aveva osato disturbare quei luoghi.
Alberto, con la torcia in mano e gli occhi pieni di curiosità irrefrenabile, avanzava con passi frettolosi. Nonostante la fatica evidente e il freddo mordente che penetrava le ossa, sembrava illuminato da una luce interiore. Il suo respiro diventava visibile nell’aria gelata, e ogni tanto si fermava, osservando attentamente le iscrizioni sulle pietre o annotando con cura qualche dettaglio nel suo taccuino ormai consumato.
Ma mentre la nebbia giocava con la visibilità, e i loro passi echeggiavano nel vuoto, qualcosa si insinuava nell’aria: un sottile sussurro, quasi impercettibile, come un flebile effluvio di parole dimenticate. Filippo si arrestò, fissando il bagliore della torcia che tremava nella sua mano.
“Hai sentito anche tu?” sussurrò, la voce carica di un’inquietudine antica.
Alberto annuì, il cuore che accelerava per la combinazione di paura e fascino.
Il sussurro sembrava provenire dalle tombe più antiche, quelle che Filippo aveva evitato di toccare con lo sguardo quel mattino. Si fermarono davanti a una lapide semicoperta da radici contorte, le cui iscrizioni erano appena leggibili. Filippo iniziò a raccontare, a voce bassa e tremula, una leggenda antica, quasi un monito: “Qui riposa chi non è più in pace. Chi disturba il suo sonno rischia non solo di svegliare i morti... ma di attirare la loro vendetta.”
Alberto, con la fronte corrugata e lo sguardo intenso, non riusciva a staccare gli occhi dalla tomba. “Ma cosa cercano queste anime?” domandò con un misto di emozione e dubbio. “Perché si aggirano ancora tra queste pietre?”
Filippo scosse la testa, il viso incorniciato dai riflessi tremolanti della torcia. “Sono prigionieri di rancore e dolore. Morti violenti, traditi, o colpevoli di ingiustizie dimenticate. Non trovano pace finché il loro passato non viene riconosciuto... o finché qualcosa non li richiama.”
Nel silenzio che seguì, il vento parve alzarsi, lamentoso e minaccioso, muovendo i rami degli alberi come mani nodose che si protendevano verso i due uomini. Da una delle tombe più vicine, un leggero movimento attirò l’attenzione di Filippo: una foglia cadde lentamente, ma qualcosa dietro sembrava respirare, un’ombra indistinta che si avvicinava.
Un brivido gelido corse lungo la schiena di entrambi. Alberto ritrasse la mano dalla lapide, ma troppo tardi: con un suono sordo e angosciante, la terra si mosse. Una figura evanescente, vestita di stracci di un tempo lontano, con occhi vuoti che parevano bruciare di una rabbia senza fine, si materializzò dal terreno umido. I suoi passi erano silenziosi, ma lo sguardo colmo di odio attraversava entrambi.
Filippo sussurrò un’antica preghiera, le parole piene di forza e paura, mentre Alberto, con un gesto rapido, sollevava il suo taccuino per annotare ogni minimo dettaglio. Il fantasma, però, non gridò né si scagliò contro di loro: semplicemente sembrava voler comunicare, attirare l’attenzione, un messaggio sospeso tra desiderio di vendetta e richiesta di giustizia.
Di nuovo Filippo mise in guardia Alberto: “Non si tratta di scienza o ragione qui. Questi morti sono legati a segreti troppo profondi, a errori mai riparati.”
Le ore passarono lente in quel rituale silenzioso, mentre le figure spettrali continuavano a manifestarsi a sprazzi, tra i larghi cipressi e i muretti di pietra.
Ma nel cuore di Alberto cresceva una determinazione irrefrenabile, una voglia disperata di penetrare quei misteri a qualunque costo, anche a rischio di perdere sé stesso.
La nebbia, che fino a quel momento era stata un velo morbido, ora sembrava diventare viva, quasi un’entità cosciente che si muoveva intorno a loro, osservandoli. Il Cimitero di Nebbia non era più solo un luogo di riposo, ma una soglia pericolosa tra vita e morte, e i due uomini ne erano i protagonisti involontari.