Capitolo 1

2008 Words
Capitolo 1 Fabiano il passato Mi rannicchiai su me stesso, senza reagire. Non lo facevo mai. Mio padre grugnì per lo sforzo di picchiarmi. Un pugno dopo l’altro – alla schiena, alla testa, allo stomaco – creava nuovi lividi, risvegliandone di vecchi. Quando mi conficcò la punta della scarpa nello stomaco, ansimai e poi inghiottii la bile; se avessi vomitato, mi avrebbe picchiato più forte. O avrebbe usato il coltello. Rabbrividii. Poi, i colpi cessarono e allora mi sollevai un po’ e mi azzardai a guardare. Dovetti sbattere le palpebre per avere una visione più nitida; sudore e sangue mi colavano dal viso. Con il respiro affannoso, mio padre mi fissò, torvo. Si pulì le mani su uno straccio che Alfonso, il suo soldato, gli aveva passato. Forse, era l’ultima prova per dimostrare il mio valore. Forse, sarei finalmente diventato parte ufficiale dell’Organizzazione. Sarei diventato un Uomo d’Onore. «Posso avere il tatuaggio?» gracchiai. Il labbro di mio padre si curvò: «Il tatuaggio? Non farai mai parte dell’Organizzazione.» «Ma...» dissi e lui mi diede un altro calcio, facendomi cadere di nuovo sul fianco. Tuttavia, incurante delle conseguenze, aggiunsi: «Ma sarò Consigliere quando ti ritirerai.» Quando morirai. Mi afferrò per il colletto e mi alzò. Mi facevano male le gambe mentre cercavo di stare dritto in piedi. «Sei un cazzo di spreco del mio sangue. Tu e le tue sorelle condividete gli stessi geni contaminati di tua madre. Una delusione dopo l’altra. Tutti voi. Le tue sorelle sono delle puttane e tu un debole. Ho chiuso con te. Sarà tuo fratello a essere Consigliere.» «Ma è un bambino. Io sono il maggiore dei tuoi figli maschi.» Da quando mio padre si era risposato in seconde nozze, mi aveva trattato come immondizia. Pensavo agisse in quel modo per rendermi più forte, in vista dei miei compiti futuri, perciò avevo fatto tutto il possibile per dimostrargli quanto valessi. «Sei una delusione tanto quanto le tue sorelle. Non ti permetterò di mettermi in imbarazzo.» Mi lasciò andare e le mie gambe, infine, cedettero. Altro dolore. «Ma... padre...» sussurrai. «È la tradizione.» La collera distorse i suoi lineamenti. «Allora dovremo solo assicurarci che sia tuo fratello il figlio maggiore.» Con la testa fece un cenno ad Alfonso, che iniziò ad arrotolarsi le maniche. Il primo pugno piombò sul mio stomaco, il secondo sulle costole. Tenni gli occhi puntati addosso a mio padre, mentre il mio corpo veniva scosso da un colpo dopo l’altro, finché la vista mi si oscurò. Il mio stesso padre mi avrebbe fatto uccidere. «Assicurati che non venga trovato, Alfonso.» Dolore. Fin dentro alle ossa. Gemetti e le vibrazioni mandarono una fitta che mi attraversò le costole. Cercai di mettermi a sedere e guardarmi attorno, ma avevo le palpebre talmente incrostate da non aprirsi. Gemetti di nuovo. Non ero morto. Perché non ero morto? La speranza divampò dentro di me. «Padre?» gracchiai. «Sta’ zitto e riposa, ragazzo. Arriveremo presto.» Era la voce di Alfonso. A fatica, mi misi seduto e spalancai gli occhi. Attraverso la vista offuscata, riuscii a vedere che mi trovavo sul retro di un’auto. Alfonso si voltò per lanciarmi un’occhiata: «Sei più forte di quel che pensavo. Buon per te.» «Dove?» Tossii, facendo una smorfia di dolore. «Dove siamo?» «Kansas City.» Alfonso sterzò con l’auto e si fermò in un parcheggio vuoto. «Ultima fermata.» Scese, aprì la portiera posteriore e mi tirò fuori. Ansimai di dolore, tenendomi le costole, poi barcollai contro l’auto. Alfonso prese il suo portafoglio, lo aprì e mi allungò una banconota da venti dollari. La presi, confuso. «Forse sopravvivrai, forse no. Suppongo sia tutto nelle mani del destino adesso. Ma non ucciderò un ragazzino di quattordici anni.» Mi afferrò per la gola, forzandomi a incontrare i suoi occhi. «Tuo padre pensa che tu sia morto, ragazzo, quindi assicurati di stare lontano dal nostro territorio.» Il loro territorio? Era il mio territorio. L’Organizzazione era il mio destino. Non avevo nient’altro. «Per favore» sussurrai. Lui scosse la testa, lasciandomi andare, poi fece il giro dell’auto e salì. Quando partì, feci un passo indietro e caddi sulle ginocchia. Mi guardai: avevo i vestiti ricoperti di sangue. Strinsi i soldi in mano – erano tutto ciò che avevo – poi, con lentezza, mi distesi sull’asfalto freddo. La pressione che percepii contro il polpaccio mi ricordò del mio coltello preferito, agganciato a una fondina sulla caviglia. Avevo venti dollari e un coltello. Il corpo mi faceva male e non volevo più alzarmi. Non aveva senso fare qualcosa: io ero niente. Desiderai che Alfonso avesse fatto come gli aveva ordinato mio padre e mi avesse ucciso. Tossii e sentii il sapore del sangue. Probabilmente sarei morto lo stesso. I miei occhi guizzarono da un lato all’altro, osservando ciò che mi circondava. Notai dei graffiti che ricoprivano il muro di un edificio alla mia destra. Si trattava di un lupo che ringhiava davanti a delle spade: il simbolo della Bratva. Alfonso non era riuscito ad ammazzarmi con le sue mani, ma questo posto l’avrebbe fatto di certo: Kansas City apparteneva ai russi. La paura mi spinse ad alzarmi in piedi e allontanarmi. Non ero sicuro di dove andare o cosa fare. Mi faceva male dappertutto, ma almeno non era troppo freddo. Iniziai a camminare, alla ricerca di un posto in cui trascorrere la notte. Alla fine, mi accontentai dell’ingresso di una caffetteria. Non ero mai stato da solo e non avevo mai dovuto vivere per strada. Piegai le gambe, avvicinandole, per appoggiarci il petto e ingoiai un lamento. Le costole mi facevano un male cane. Non potevo ritornare dall’Organizzazione, se l’avessi fatto mio padre si sarebbe assicurato di uccidermi davvero. Forse potevo provare a contattare Dante Cavallaro; d’altronde, lui e mio padre avevano lavorato insieme a lungo, ma poi sarei sembrato una cazzo di spia. Un codardo e uno smidollato. Aria mi avrebbe dato una mano. Lo stomaco mi si strinse: era stato il suo voler aiutare Lily e Gianna la ragione per cui mio padre mi odiava, tanto per cominciare. Fuggire a New York con la coda tra le gambe e supplicare Luca di farmi entrare nella Famiglia era fuori discussione. Tutti avrebbero saputo che ero stato accolto per pietà, non perché fossi una risorsa degna. Ero inutile. Questo era tutto. Ero solo. Quattro giorni, erano passati soltanto quattro giorni ed ero rimasto senza soldi e senza prospettive. Ogni notte tornavo in quel parcheggio sperando, desiderando che Alfonso si rifacesse vivo, che mio padre avesse cambiato idea, che il suo ultimo sguardo impietoso e pieno d’odio fosse stato solo frutto della mia immaginazione. Ero un idiota del cazzo. Ed ero affamato. Non mangiavo da due giorni: avevo sprecato i venti verdoni in hamburger, patatine e Dr Pepper, già il primo giorno. Misi una mano sulle costole; il dolore era peggiorato. Quel giorno avevo provato a fare soldi con il borseggio, ma avevo scelto il tizio sbagliato e mi aveva picchiato. Non avevo idea di come sopravvivere per strada e non ero sicuro di volerci continuare a provare. Che cosa avrei fatto? Niente Organizzazione, niente futuro, niente onore. Mi abbassai sull’asfalto del parcheggio e mi sdraiai, in bella vista, proprio di fronte ai graffiti della Bratva. La porta dell’edificio si aprì, degli uomini uscirono e se ne andarono. Territorio della Bratva. Ero così stanco, cazzo. La mia morte non sarebbe stata veloce, si sarebbero presi tutto il tempo necessario. Il dolore agli arti e la disperazione mi tenevano incollato al suolo. Alzai gli occhi verso il cielo notturno e iniziai a recitare il giuramento che avevo memorizzato mesi prima, in preparazione del giorno della mia iniziazione. Le parole in italiano che fluivano dalla mia bocca mi fecero sentire sconfitto e angosciato. Ripetei il giuramento, ancora e ancora; diventare un Uomo d’Onore era il mio destino. Sentii delle voci alla mia destra, voci maschili che parlavano una lingua straniera. Poi, d’un tratto comparve nella mia visuale un ragazzo con i capelli neri che si mise a fissarmi dall’alto. Aveva diversi lividi, anche se non tanti quanto me, e indossava solo dei pantaloncini da combattimento. «Mi hanno detto che qui fuori c’è un coglione italiano, pazzo, che continua a declamare il giuramento di Omertà. Immagino si riferissero a te.» Rimasi in silenzio e lo studiai. Aveva pronunciato la parola Omertà così come l’avrei detta io, come se significasse qualcosa. Era coperto di cicatrici ed era un po’ più grande di me... sui diciotto anni, forse. «Ripetere quelle stronzate in questa zona significa che hai voglia di morire oppure che sei fuori di testa. Probabilmente tutte e due le cose.» «Quel giuramento era la mia vita» replicai. Lui scrollò le spalle, poi gettò un’occhiata dietro di sé, prima di voltarsi di nuovo con un sorriso perverso. «E ora sarà la tua morte.» Mi misi a sedere. Tre uomini con solo dei pantaloncini da combattimento, i cui corpi erano ricoperti da tatuaggi di lupi e Kalashnikov e le teste erano perfettamente rasate, stavano uscendo da una porta accanto all’edificio della Bratva. Presi in considerazione l’idea di sdraiarmi di nuovo e lasciarli finire quello che Alfonso non era riuscito a portare a termine. «Da quale Famiglia provieni?» chiese il ragazzo dai capelli neri. «Dall’Organizzazione» risposi e quella parola mi scavò un buco nel cuore. Lui annuì. «Immagino si siano liberati di te. Non hai i coglioni necessari per diventare un Uomo d’Onore?» Chi era lui? «Li ho» sibilai. «Ma mio padre mi vuole morto.» «Allora dimostralo. Alza il culo dall’asfalto e combatti.» Quando non mi mossi, ridusse gli occhi a due fessure. «Alzati. Cazzo.» E allora lo feci, anche se mi girava la testa e dovetti circondare con le braccia le costole doloranti. Negli occhi neri del ragazzo si accese un lampo di consapevolezza: aveva capito che ero ferito. «Immagino che mi dovrò occupare di gestire la maggior parte dello scontro. Armi?» Tirai fuori il coltello Karambit dalla fondina attorno al polpaccio. «Spero tu sappia usare quell’arnese.» Poi i russi ci furono addosso. Il ragazzo iniziò con alcune mosse di arti marziali che tennero occupati due di loro. Il terzo avanzò nella mia direzione e, quando fu a tiro, allungai rapido il coltello, ma lo mancai di pochi centimetri. Lui invece mise a segno qualche colpo e mi parve quasi che il petto si mettesse a urlare per il male. Caddi in ginocchio: con il corpo malconcio e ammaccato, non avevo possibilità contro un lottatore allenato come lui. I suoi pugni mi piovvero addosso come un acquazzone; forti, veloci, spietati. Dolore. Il ragazzo dai capelli neri si scagliò contro il mio assalitore, colpendolo allo stomaco con il ginocchio. Il russo cadde in avanti e io alzai il coltello, seppellendo la lama nel suo addome. Quando il sangue gocciolò giù dalle mie dita, mollai il manico come se scottasse: il russo, nel frattempo, si accasciava sul fianco, morto. Fissai il coltello conficcato nella sua pancia. Il ragazzo dai capelli neri lo estrasse, pulì la lama sui pantaloncini del morto e poi me lo allungò: «Primo omicidio?» Annuii, con le dita che tremavano mentre lo prendevo. «Ce ne saranno altri» aggiunse. Anche gli altri due russi erano morti, entrambi con il collo rotto. Il ragazzo allungò una mano; l’afferrai così da permettergli di rimettermi in piedi. «Dovremmo andarcene» disse. «Tra poco arriveranno altri bastardi russi. Filiamocela.» Mi accompagnò verso un vecchio furgone ammaccato. «Nelle ultime due notti, mentre ero qui per combattere, ti ho notato sgattaiolare nel parcheggio.» «Perché mi hai dato una mano?» Mi rivolse di nuovo quel sorriso perverso: «Perché mi piace combattere... e uccidere. Perché odio la Bratva del cazzo. Perché anche la mia famiglia mi vuole morto. Ma cosa più importante, perché ho bisogno di soldati fedeli che mi aiutino a riprendermi ciò che è mio.» «Chi sei?» «Remo Falcone e presto sarò il Capo della Camorra.» Aprì la portiera del guidatore ed era già seduto all’interno del furgone quando aggiunse: «Puoi aiutarmi o puoi aspettare che la Bratva venga a prenderti.» Entrai e non per via della Bratva, ma perché Remo mi aveva mostrato un nuovo proposito, un nuovo destino. Una nuova famiglia.
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