I BARCELLONA-1
I BARCELLONA
Era una mattina piovosa di febbraio, e mancava un'ora al levar del sole. Mia madre m'accompagnò fin sul pianerottolo, ripetendomi in fretta tutti i consigli che mi soleva dare da un mese; poi mi gettò le braccia al collo, diede in uno scoppio di pianto, e disparve. Io rimasi un momento là col cuore stretto, guardando la porta quasi sul punto di gridare:—Apri! Non parto più! Resto con te!—poi mi cacciai giù per le scale, come un ladro inseguito. Quando fui nella strada, mi parve che tra me e casa mia si fossero già stese le onde del mare, e alzate le cime dei Pirenei; ma benché da tanto tempo aspettassi quel giorno con impazienza febbrile, non ero punto allegro. Incontrai alla svoltata d'una strada un medico mio amico che andava all'ospedale, e ch'io non aveva visto da più d'un mese; mi domandò: “Dove vai?”—“In Spagna,” risposi. Non mi voleva credere, tanto il mio viso accigliato e melanconico era lontano dall'annunziare un viaggio di piacere. Per tutta la strada, da Torino a Genova, non pensai che a mia madre, alla mia camera che restava vuota, alla mia piccola biblioteca, alle care abitudini della mia vita casalinga, alle quali davo un addio per molti mesi. Ma giunto a Genova, la vista del mare, i giardini dell'Acquasola e la compagnia di Anton Giulio Barrili, mi restituirono la serenità e l'allegrezza. Ricordo che mentre stavo per scender nella barca che mi doveva condurre al bastimento, mi fu data una lettera da un fattorino d'albergo, nella quale non erano che queste parole: «Tristi notizie di Spagna. La condizione d'un italiano a Madrid, in tempi di lotta contro il Re, sarebbe pericolosa. Persisti a partire? Pensaci.» Saltai nella barca, e via. Poco prima che il bastimento partisse, vennero due uffiziali a dirmi addio: mi par ancora di vederli ritti in mezzo alla barca, quando il bastimento cominciava a muoversi.
“Portami una spada di Toledo!” gridavano.
“Portami una bottiglia di Xères!”
“Portami una chitarra! Un cappello andaluso! Un pugnale!”
Di lì a poco non vidi più che i loro fazzoletti bianchi, e udii il loro ultimo grido; tentai di rispondere, ma la voce mi restò strozzata a mezza gola; mi misi a ridere, e mi passai una mano sugli occhi. Poco dopo mi rintanai nel mio bugigattolo, e addormentatomi d'un sonno delizioso, sognai i consigli di mia madre, il portamonete, la Francia, le Andaluse. All'alba saltai su, e salii subito a poppa: eravamo a poca distanza dalla costa, era già costa francese, il primo lembo di terra straniera, ch'io vedeva: curiosa! Non potevo saziarmi di guardare, e mille vaghi pensieri mi giravano per la testa, e dicevo: è la Francia? Ma davvero? Son proprio io che son qui? Mi venivan dei dubbi sulla mia identità. A mezzogiorno si cominciò a vedere Marsiglia. La prima vista d'una gran città di mare dà come una sorta di stordimento, che uccide il piacere della meraviglia. Vedo, come a traverso d'una nebbia, un'immensa foresta di navi, un barcaiuolo che mi porge la mano parlandomi non so che gergaccio incomprensibile, una guardia doganale che mi fa pagare, non so in virtù di che legge, deux sous pour les Prussiens; poi una oscura camera d'albergo; poi strade lunghissime, piazze sconfinate, un viavai di gente e di carrozze, drappelli di zuavi, divise militari sconosciute, migliaia di lumi, migliaia di voci, e infine una stanchezza e una malinconia profonda, che finisce in un sogno penoso. L'indomani mattina all'alba ero in un carrozzone della strada ferrata che va da Marsiglia a Perpignano, in mezzo a una diecina d'ufficiali degli zuavi, arrivati il giorno innanzi dall'Affrica, chi colle grucce, chi col bastone, chi con un braccio al collo; ma allegri e chiassoni come scolaretti. Il viaggio era lungo: bisognava pur cercar di discorrere; però, con tutto quello che avevo inteso dire della bile che hanno i Francesi con noi, non m'arrischiavo ad aprir bocca. Baie! Mi diresse la parola un di loro, si appiccò discorso: “Italiano?”—“Sì” fu una festa; tutti, tranne uno, aveano combattuto in Italia; uno era stato ferito a Magenta; cominciarono a raccontar aneddoti di Genova, di Torino, di Milano, a domandarmi mille cose, a descrivermi la vita che menavano in Affrica. Uno tirò in ballo il Papa. “Ahi!” dissi tra me. Che! Era più buzzurro di me: diceva che dovevamo trancher le nœud de la question, e andar fino in fondo senza darci pensiero dei rurali. Intanto, via via che ci avvicinavamo ai Pirenei, mi divertivo ad osservare il progressivo alterarsi della pronunzia nei viaggiatori che salivano nel carrozzone, a vedere come la lingua francese moriva, per così dire, nella lingua spagnuola, a sentire come la Spagna ci veniva incontro; fin che giunto a Perpignano, e cacciatomi in una diligenza, udii i primi: Buenos dias e Buen viaje, schietti e sonori, che mi fecero un piacere infinito. A Perpignano però non si parla spagnuolo, ma un dialettaccio misto di francese, di marsigliese e di catalano, che strazia le orecchie. La diligenza mi sbarcò a un albergo in mezzo a un visibilio di ufficiali, di signore, d'inglesi e di bauli; un cameriere mi fece seder per forza dinanzi a una tavola apparecchiata; mangiai, mi strozzarono, mi cacciarono in un'altra diligenza, e via.
Ahimè! Io avevo vagheggiato per tanto tempo la traversata dei Pirenei, e mi toccò farla di notte; prima che arrivassimo alle falde dei primi monti, era già buio pesto. Per lunghe e lunghe ore, tra il sonno e la veglia, non vidi altro che un po' di strada rischiarata dalle lanterne della diligenza, qualche nero profilo di montagna, qualche rupe sporgente che quasi si poteva toccare stendendo la mano fuor del finestrino; e non udivo che lo scalpitio cadenzato dei cavalli, e il fischio d'un maledettissimo vento che non cessò un momento di soffiare. Avevo accanto un Americano degli Stati Uniti, giovane, il più matto originale del mondo, che dormì non so quante ore colla testa appoggiata sulla mia spalla, e tratto tratto si svegliava per esclamare con voce lamentevole—Ah quelle nuit! Quelle horrible nuit!—senza accorgersi punto che colla sua testa dava a me ben altra ragione di fare lo stesso lamento. Alla prima stazione, scendemmo tutti e due, ed entrammo in una piccola osteria a bere un bicchierino di liquore. Mi domandò se io viaggiavo per affari di commercio. “No, signore,” risposi, “viaggio per divertimento. E lei, se è lecito?”—“Io,” disse egli con molta gravità, “viaggio per amore.”—“Per amore?”—“Per amore!” e mi raccontò, non richiesto, una lunga storia d'una passione amorosa osteggiata, d'un matrimonio fallito, di rapimenti, di duelli, di non so che altro; per venire a concludere che viaggiava per distrarsi, e dimenticare la persona amata. E cercava in fatti di distrarsi quanto poteva, perché in tutte le osterie in cui entrammo da quella prima fino a Gerona, non fece che stuzzicare le serve, sempre con molta gravità, convien dirlo, ma anche con un'audacia che il desiderio di distrazione non bastava a giustificare.
Alle tre dopo mezzanotte arrivammo alla frontiera.—Estamos en España!—gridò una voce; la diligenza si fermò; l'inglese ed io balzammo di nuovo in terra, e c'infilammo con molta curiosità in una piccola osteria, per vedere i primi figli della Spagna fra le pareti di casa loro. Trovammo una mezza serqua di doganieri, l'oste, la moglie e i figliuoli, seduti intorno a un braciere; ci rivolsero subito la parola; io feci molte domande, e mi risposero in un modo brioso ed ingenuo, che non credevo di trovar nei Catalani, dipinti nei dizionarii geografici come gente dura e di poche parole. Domandammo che ci fosse da mangiare: ci portarono il famoso chorizo spagnuolo, una specie di salcicciotto arcipieno di pepe, che brucia le viscere; una bottiglia di vino dolce, un po' di pan duro. “Ebbene, che fa il vostro re?” domandai a un doganiere, dopo ch'ebbi sputati i primi bocconi. Quegli a cui avevo rivolto la parola parve un po' imbarazzato, mi guardò, guardò gli altri, e poi mi diede questa curiosissima risposta: “Està reinando” (sta regnando). Tutti si misero a ridere, e mentre io preparavo una domanda un po' più stringente, mi sentii mormorar all'orecchio: “Es un republicano.” Mi voltai, e vidi l'oste che guardava in su. Ho capito, risposi, e cambiai discorso. Rimontando poi nella diligenza, il mio compagno ed io ridemmo molto dell'avvertimento dell'oste, tutti e due meravigliati che da una persona di quella classe le opinioni politiche dei doganieri fossero prese tanto sul serio; ma nelle osterie dove scendemmo in seguito, udimmo ben altro. In tutte si trovò un oste, o un avventore che leggeva un giornale, e intorno un crocchio di paesani che ascoltavano. Tratto tratto la lettura era interrotta e accendevasi qualche discussione politica che io non capivo, poichè parlavan catalano; ma della quale riuscivo però ad afferrare il concetto dominante, aiutandomi col giornale che avevo sentito leggere. Ebbene, debbo proprio dire che in tutti quei crocchi alitava un'auretta repubblicana che avrebbe increspato la pelle al più intrepido amedeista. Uno fra gli altri, un omone dal cipiglio fiero e dalla voce profonda, dopo aver parlato un pezzo in mezzo a una corona di muti ascoltatori, si voltò verso di me, che dalla inesatta pronunzia castigliana aveva preso per francese, e mi disse con molta solennità: “Le dirò una cosa, caballero!”—“Quale?”—“Le digo” mi rispose, “que España es mas desgraciada que Francia;” e detto questo si mise a passeggiar per la stanza col capo basso e le braccia incrociate nel petto. Intesi altri parlare confusamente di Cortes, di ministri, di ambizioni, di tradimenti e d'altre cose terribili. Una sola persona, una ragazza d'una trattoria di Figueras, saputo che ero italiano, mi disse sorridendo: “Ahora tenemos un rey italiano.” E dopo poco, andandosene, soggiunse con graziosa semplicità: “A mi me gusta.”
Arrivammo, ch'era ancor notte, a Girona, dove re Amedeo, accolto, a quanto si dice, festosamente, pose una lapide nella casa abitata dal generale Alvarez durante il celebre assedio del 1809; attraversammo la città che ci parve immensa, pieni di sonno com'eravamo, e impazienti di buttarci a dormire in un carrozzone della strada ferrata; giungemmo finalmente alla stazione, e allo spuntar dell'alba partimmo per Barcellona.
Dormire! Era la prima volta ch'io vedeva levarsi il Sole sulla Spagna: come potevo dormire? Mi affacciai a un finestrino, e non ritirai più la testa fino a Barcellona. Ah! Nessun diletto può star a fronte di quello che si prova entrando in un paese sconosciuto, coll'immaginazione preparata a veder cose nuove e mirabili, con mille ricordi di fantastiche letture nel capo, senza pensieri, senza cure! Inoltrarsi in quel paese, spaziar collo sguardo, avidamente, da ogni parte, in cerca di qualche cosa che vi faccia capire, quando non lo sapeste, che ci siete; riconoscerlo, a poco a poco, qui in un vestito d'un contadino, là in una pianta, più oltre in una casa; vedere, via via che si va innanzi, spesseggiare quei segni, quei colori, quelle forme, e paragonare ogni cosa coll'immagine che ce n'eravamo formata prima; trovare un pascolo alla curiosità in tutto ciò che ci cade sott'occhio, o ci giunge all'orecchio: nei visi della gente, nei gesti, negli accenti, nei discorsi; gettare un oh! Di stupore a ogni passo; sentire che la nostra mente si dilata e si rischiara; desiderar insieme di arrivare presto e di non arrivar mai, affannarsi per veder tutto, domandar mille cose ai vicini, far lo schizzo d'un villaggio e abbozzare un gruppo di villani; dire dieci volte all'ora: “Ci sono!” e pensare che racconterete un giorno ogni cosa; è davvero il più vivo e il più vario dei diletti umani. L'Americano russava.
La parte della Catalogna che si percorre da Girona a Barcellona, è varia, fertile e mirabilmente coltivata. È una successione di piccole valli, cinte da colline di graziosa forma, con boschi foltissimi, torrenti, gole, castelli antichi; e per tutto una vegetazione fitta e robusta, e un verde vivissimo, che rammenta il severo aspetto delle vallate delle Alpi. Il paesaggio è abbellito dal pittoresco vestito dei contadini, che risponde in modo mirabile alla fierezza del carattere catalano. I primi ch'io vidi, eran vestiti da capo a piedi di velluto nero, portavano intorno al collo una specie di scialle a righe bianche e rosse, sulla testa una berrettina alla zuava, rossissima, cadente sulla spalla; alcuni, un par di ghette di pelle affibbiate fino al ginocchio; altri un par di scarpe di tela, fatte a pantofola, colla suola di corda, aperte sul dinanzi, e legate intorno al piede con nastri neri incrociati; un vestire, in somma, svelto ed elegante, e nello stesso tempo severo. Non faceva gran freddo; ma eran tutti imbacuccati ne' loro scialli, in modo che mostravano soltanto la punta del naso, e la punta del cigarrito; e parean signori che uscissero dal teatro. Non solo per lo scialle; ma pel come lo portano, cascante da un lato, aggiustato in modo da parer messo a casaccio, ma con quelle pieghe e con quegli svolazzi che gli dian garbo di mantellina e maestà di manto. A tutte le stazioni della strada ferrata ce n'eran parecchi, ognuno con uno scialle di diverso colore, non pochi vestiti di panni fini e freschi, quasi tutti pulitissimi, e atteggiati con una certa dignità, che davan risalto al loro costume pittoresco. Pochi visi bruni; i più tendenti al bianco; gli occhi neri e vivaci, ma senza il fuoco e la mobilità degli sguardi andalusi.