II SARAGOZZA-4

2542 Words
Verso sera andai a vedere la Torre nuova, che è uno dei più curiosi monumenti di Spagna. È alta ottantaquattro metri,—quattro più della torre di Giotto,—e inchinata di quasi due metri e mezzo, tutta intera, come la torre di Pisa. Fu innalzata nel 1304; chi afferma che fu fatta così, chi crede che siasi inchinata poi; le opinioni sono diverse. È di forma ottagonale, e tutta costrutta di mattoni; ma presenta una varietà mirabile di disegno e d'ornamenti, un aspetto diverso a ogni piano, un misto grazioso di gotico e di moresco. Per entrare, dovetti andar a domandare il permesso a non so quale impiegato del Municipio, che abita là vicino; il quale, dopo aver guardato attentamente la punta dei miei stivali e il ciuffo dei miei capelli, diede le chiavi al custode, e mi disse: “Puede Usted ir.” Il custode era un vecchietto vigoroso che salì le interminabili scale con assai maggior speditezza di me. “Verá Usted,” mi diceva: “Verá Usted que magnífico golpe de vista!”—Io gli dissi che anche noi Italiani avevamo una torre inclinata, come quella di Saragozza; egli si voltò a guardarmi e rispose secco: “La nuestra es unica en el mundo.”—“Oh cospetto! Vi dico che n'abbiamo una anche noi, e che l'ho vista coi miei occhi, a Pisa, e poi, se non volete credere, leggete qui, lo dice anche la Guida.”—Diede un'occhiata e brontolò: “Puede ser.”—Può essere!—Vecchio cocciuto! Gli avrei dato il libro sul capo. Finalmente arrivammo sulla cima. È uno stupendo spettacolo. Saragozza si abbraccia tutta con uno sguardo: la grande strada del Coso, il passeggio di Santa Engracia, i sobborghi; e lì sotto, che par di poterle toccare, le cupole colorite di Nostra Donna del Pilar; un po' più in là l'ardita torre della Seo; più oltre l'Ebro famoso, che gira attorno alla città con una curva maestosa, e l'ampia valle, innamorata, come dice il Cervantes, della chiarezza delle sue acque e della gravità del suo corso; e la Huerba, e i ponti, e i poggi, che ricordano tanti scontri sanguinosi e disperati assalti! Il custode mi lesse sul volto i pensieri che mi attraversavan la mente, e come proseguendo un discorso da me incominciato, prese ad accennarmi i punti per dove erano entrati i Francesi, e dove i cittadini avevano opposto le più gagliarde resistenze. “Non furono le bombe dei Francesi,” mi disse, “che ci fecero arrendere; noi stessi bruciavamo le case, e le facevamo saltare in aria colle mine; fu l'epidemia. Negli ultimi giorni più di quindicimila uomini dei quarantamila che difendevan la città eran negli ospedali; non si aveva più tempo per raccogliere i feriti e per sotterrare i morti; le rovine delle case erano coperte di cadaveri putrefatti che ammorbavano l'aria; un terzo degli edifizi della città eran distrutti; eppure nessuno parlava d'arrendersi; e chi ne avesse parlato, era stato innalzato apposta un patibolo in tutte le piazze, sarebbe stato ucciso; volevamo morire sulle barricate, nel fuoco, sotto i rottami delle nostre mura, piuttosto che piegare la testa. Ma quando il Palafox si trovò in punto di morte, quando si seppe che i Francesi avevano vinto in altre parti, e che non c'era più alcuna speranza, bisognò porre giù le armi. Ma i difensori di Saragozza si arresero cogli onori della guerra, e quando quella folla di soldati, di contadini, di monaci, di ragazzi, scarni, cenciosi, coperti di ferite, macchiati di sangue, sfilarono davanti all'esercito francese, i vincitori tremarono di riverenza e non ebbero cuore di rallegrarsi della vittoria! L'ultimo dei nostri contadini poteva portar la fronte più alta che il primo dei loro marescialli:—Zaragoza, e dicendo queste parole era splendido, ha escupido en la cara a Napoleon!—(Saragozza ha sputato in viso a Napoleone!)” Io pensai, in quel momento, alla storia del Thiers, e il ricordo della narrazione ch'egli fa della presa di Saragozza mi destò un sentimento di sdegno. Non una parola generosa per la sublime ecatombe di quel povero popolo! Il loro valore, per lui, non è che fanatismo feroce, o vana manìa guerresca di contadini stanchi della vita uggiosa dei campi, e di monaci ristucchi della solitudine della cella; la loro eroica ostinazione è testardaggine; il loro amor di patria, orgoglio stolto. Essi non morivano pour cet idéal de grandeur che animava il coraggio dei soldati imperiali! Come se la libertà, la giustizia, l'onore d'un popolo, non fossero qualcosa di più grande che l'ambizione d'un Imperatore, che lo fa assalire a tradimento e lo vuol governare colla violenza!... Tramontava il sole, le torri e i campanili di Saragozza erano illuminati dagli ultimi raggi, il cielo era limpidissimo; volsi ancora uno sguardo intorno per imprimermi bene nella memoria l'aspetto della città e della campagna, e prima di voltarmi per scendere, dissi al custode che mi guardava con un'aria di benevola curiosità: “Racconti agli stranieri che verranno a visitare d'ora in avanti la torre, che un giorno, un giovane italiano, poche ore prima di partire per la Castiglia, salutando per l'ultima volta, da questo balcone, la capitale dell'Aragona, s'è scoperto il capo col sentimento del più profondo rispetto, così,—e che non potendo baciare sulla fronte, ad uno ad uno, tutti i discendenti degli eroi del 1809, ha dato un bacio al custode,”—E glielo diedi, e me lo rese, e me n'andai contento, ed egli pure, e rida chi vuole. Con questo mi parve di poter dire che avevo visto Saragozza, e tornai all'albergo ricapitolando le mie impressioni. Mi restava però una gran voglia di fare un po' di conversazione con qualche buon saragozzano, e dopo desinare andai al caffè, dove trovai subito un capomaestro e un bottegaio, che tra un sorso e l'altro di cioccolatte, mi esposero lo stato politico della Spagna e i mezzi più efficaci «Di portar la baracca a salvamento.» La pensavano molto diversamente. L'uno, il bottegaio, ch'era un ometto col naso rincagnato e un grosso bernoccolo tra occhio e occhio, voleva la repubblica federale, senza transazioni, quella sera stessa, prima d'andare a letto; e metteva come condizione sine qua non per la prosperità del nuovo governo, che si fucilasse il Serrano, il Sagasta e lo Zorilla, per convincerli una volta per sempre que no se chanzea con el pueblo español, che non si scherza col popolo spagnuolo. “Y su rey de Ustedes,” concludeva volgendosi verso di me, “al re che ci han mandato loro,—mi perdoni, caro il mio Italiano, la franchezza con cui le parlo,—al loro re un biglietto di prima classe per tornarsene á la hermosa Italia, ove c'è miglior aria per i Re. Somos españoles”—perdoni, caro il mio Italiano e mi metteva una mano sul ginocchio—“somos españoles, e non vogliamo stranieri, né cotti, né crudi!” “Mi pare d'aver capito il suo concetto; e lei,” domandai al capomaestro, “come crede lei che si potrebbe salvar la Spagna?” “No hay mas que un medio!” rispose con accento solenne; “non v'è che un mezzo! Repubblica federale,—in questo sono d'accordo col mio amico,—ma con Don Amedeo presidente!”—(L'amico scrollò le spalle) “Ripeto: con Don Amedeo presidente! È il sol uomo che possa tener ritta la repubblica; non è soltanto un'opinione mia; è l'opinione di molta gente. Don Amedeo faccia intendere a suo padre che qui colla monarchia non si compiccia nulla; chiami al governo il Castelar, il Figueras, il Pi y Margal; proclami la repubblica, si faccia elegger presidente, e gridi alla Spagna:—Signori, ora comando io, e chi alza le corna, legnate! E allora avremo la vera libertà.” Il bottegaio, il quale non credeva che la vera libertà consistesse nel pigliarsi delle legnate sulle corna, protestò; l'altro ribatté; il battibecco durò un pezzo. Si venne poi a parlare della Regina; e il capomaestro dichiarò che, sebbene fosse repubblicano, aveva per Donna Vittoria un profondo rispetto e una calda ammirazione. “Tiene mucho (molto) de aquí” disse toccandosi la fronte col dito.—“Es verdad que sabe el griego?”—(È vero che sa il greco?) “E come!” risposi. “Hai inteso, eh?” domandò l'altro. “Sì,” rispose il bottegaio brontolando; “pero no se govierna à España con el griego.” Concedeva però anche lui che, regina per regina, era a desiderarsi d'averne una dotta e savia, digna de sentarse en el trono de Isabel la Catòlica, la quale, come tutti sanno, conosceva il latino quanto un professore consumato; piuttosto che una di queste regine cervelline che non hanno il capo ad altro che alle feste ed ai favoriti. In una parola, non voleva vedere in Ispagna la casa di Savoia; ma se qualche cosa poteva piegarlo un po' in di lei favore, era il greco della Regina. Che galante repubblicano! V'è però in codesta gente una generosità di cuore, e un vigore di animo che giustifica la loro onorevole fama. L'aragonese, in Spagna, è rispettato. Il popolo di Madrid che trincia i panni addosso agli Spagnuoli di tutte le provincie, che dà al catalano di rozzo, all'andaluso di vano, al valenziano di feroce, al galiziano di miserabile, al basco d'ignorante, tratta con un po' più di riserbo gli alteri figli d'Aragona, i quali nel secolo decimonono scrissero col proprio sangue la più gloriosa pagina della storia di Spagna. Il nome di Saragozza suona nel popolo come un grido di libertà, e nell'esercito come un grido di guerra. Ma poiché non v'è rosa senza spine, questa nobile provincia è anche un semenzaio di demagoghi inquieti, di capi di guerrillas, di tribuni, di gente di testa calda e di mano ardita, che danno un gran da fare a tutti i Governi. Il Governo deve accarezzar l'Aragona come un figliuolo ombroso e focoso, che se niente niente si picca, è muso da mandare in aria la casa. L'entrata di re Amedeo in Saragozza, e la breve dimora che vi fece nel 1871, diedero occasione a parecchi fatti, che meritano d'essere raccontati; non solo perché si riferiscono al Principe, ma perché sono una eloquente manifestazione del carattere del popolo. E prima d'ogni altra cosa il discorso del Sindaco, del quale s'è fatto tanto scalpore, in Spagna e fuori, e che resterà forse fra le tradizioni di Saragozza come un esempio classico di audacia repubblicana. Il Re arrivò verso sera alla stazione della strada ferrata, dove eran venuti ad aspettarlo, accompagnati da un'immensa folla, i rappresentanti di molti Municipii, e associazioni e corpi militari e civili di varie città d'Aragona. Dopo le solite grida e i soliti applausi, si fece silenzio, e l'alcade di Saragozza, presentatosi al Re, lesse con enfatica voce il seguente discorso: «Signore! Non è la modesta personalità mia, non è l'uomo di convinzioni profondamente repubblicane; ma bensì l'alcade di Saragozza, investito del sacro suffragio universale, colui che, per un dovere imprescindibile, si presenta a voi, e si mette agli ordini vostri. Voi state per entrare nel recinto d'una città la quale, sazia ormai di gloria, porta il titolo di sempre eroica; una città che quando corse pericolo l'integrità nazionale, fu una nuova Numanzia, una città che umiliò gli eserciti napoleonici nei loro stessi trionfi ec. Saragozza fu la più avanzata sentinella della libertà; nessun governo le parve mai abbastanza liberale ec. Nel petto di nessuno dei figli suoi albergò mai il tradimento ec. Entrate, dunque, nel recinto di Saragozza. Se non aveste coraggio, non ne avreste neanco bisogno, perché i figli della sempre eroica madre son valorosi a viso aperto, e incapaci di tradire. Non v'è scudo, né esercito più poderoso per difendere, in questi momenti, la vostra persona, che la lealtà dei discendenti del Palafox, poiché anche i loro nemici trovano un sacro asilo sotto i tetti saragozzani. Pensate e meditate che se seguirete costantemente la via della giustizia, se farete da tutti osservare le leggi della più stretta moralità, se proteggerete il produttore che finora tanto dà, e sì poco riceve, se sosterrete la verità del suffragio, se Saragozza e la Spagna vi dovranno un giorno il compimento delle sacre aspirazioni della maggioranza di questo gran popolo che venite a conoscere, allora, forse, vi adornerà un più splendido titolo, che quello di Re. Potete essere il primo cittadino della nazione, e il più amato in Saragozza, e la repubblica spagnuola vi dovrà la sua completa felicità.» A questo discorso che veniva a significare in conclusione:—Non vi riconosciamo come Re, ma entrate pure fra noi, che non v'ammazzeremo, perché gli eroi non ammazzano a tradimento; e se sarete bravo, e ci servirete a dovere, consentiremo, forse, a sopportarvi come presidente della Repubblica;—il Re rispose con un sorriso agro-dolce, che voleva dire:—Troppa degnazione!—e strinse la mano all'Alcade, con grande meraviglia di tutti i presenti. Poi montò a cavallo, ed entrò in Saragozza. Il popolo, a quel che si dice, lo ricevette con festa, e molte signore gli lanciarono dalle finestre poesie, corone di fiori e colombe. In vari punti, il generale Cordova, e il general Rosell, che lo accompagnavano, dovettero sgombrargli la strada coi propri cavalli. Mentre entrava nel Coso, una donna del popolo si slanciò innanzi per dargli un memoriale; il Re, ch'era già passato oltre, se n'accorse, tornò indietro, e lo prese. Poco dopo, gli si presentò un carbonaio, e gli porse la sua nera mano: il Re gliela strinse. Nella piazza di Santa Engracia, fu ricevuto da una sfarzosa mascherata di nani e di giganti, che lo salutarono con certe danze tradizionali, fra le grida assordanti della moltitudine. Così attraversò tutta la città. Il giorno dopo visitò la chiesa della Madonna di Pilar, gli ospedali, le carceri, il circo dei Tori, e in ogni parte fu festeggiato con quasi monarchico entusiasmo, non senza segreta bizza dell'Alcade che l'accompagnava, il quale avrebbe voluto che il popolo saragozzano si ristringesse all'osservanza del quinto comandamento:—Non ammazzare,—senza andare più in là delle sue modeste promesse. Liete accoglienze ebbe pure il Re sulla via da Saragozza a Logroño. A Logroño, in mezzo a una folla innumerevole di contadini, di guardie nazionali, di donne, di ragazzi, vide per la prima volta il venerando generale Espartero. Appena si videro, si corsero incontro; il generale cercò la mano del Re, il Re gli aperse le braccia; la folla gettò un grido di gioia: “Maestà,” disse l'illustre soldato con voce commossa, “i popoli vi accolgono con patriottico entusiasmo, perché vedono nel loro giovane Monarca il più fermo sostegno della libertà e della indipendenza della patria, e son sicuri che se i nemici della nostra ventura tentassero di turbarla, Vostra Maestà, alla testa dell'esercito e della milizia cittadina, saprebbe confonderli e sgominarli. La mia affranta salute non mi permise d'andare a Madrid per felicitare Vostra Maestà e la sua Augusta Sposa per il loro avvenimento al trono di San Ferdinando. Oggi lo faccio, e ripeto anche una volta che servirò fedelmente la persona di Vostra Maestà come re di Spagna, eletto dalla volontà nazionale. Maestà, in questa città ho una modesta casa, e ve la offro, e vi prego d'onorarla della vostra presenza.”—Con queste semplici parole era salutato il nuovo Re dal più vecchio e più amato e più glorioso dei suoi sudditi. Felice auspicio, a cui mal risposer gli eventi! Verso mezzanotte andai a un veglione, in un teatro di mezzana grandezza, sul Coso, a poca distanza dalla piazza della Costituzione. Le maschere eran poche e meschinuccie; ma v'era per compenso una folla fittissima, della quale un buon terzo ballavano furiosamente. Fuor che dalla lingua, non mi sarei accorto di assistere ad un veglione d'un teatro di Spagna, piuttosto che a un veglione d'un teatro d'Italia; mi pareva di veder persino le stesse facce. Poi il solito tramenio, la solita licenza di parole e di mosse, il solito degenerare dal ballo in una ridda clamorosa e sfrenata. Delle cento coppie di ballerini che mi passarono dinanzi, una sola mi rimase impressa nella memoria: un giovanotto d'una ventina d'anni, alto, snello, bianco, con due grand'occhi neri; e una ragazza della stessa età, bruna come un'andalusa; tutti e due belli e alteri, vestiti dell'antico costume aragonese, abbracciati stretti, viso contro viso, come se l'uno volesse respirare l'alito dell'altro, rossi come due viole e sfolgoranti di gioia. Passavano in mezzo alla folla, gettando intorno uno sguardo sdegnoso, e mille occhi li accompagnavano, e li seguiva un mormorio sordo di ammirazione e d'invidia. Uscendo dal teatro, mi fermai un momento sulla porta per rivederli passare, e poi me ne tornai all'albergo solo e malinconico. L'indomani mattina, prima dell'alba, partii per la Vecchia Castiglia.
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