Capitolo I

2077 Words
CAPITOLO I A Genova, il 16 novembre 1958 Lucien Corria, giunse a Genova con l’incarico di uccidere. Ricordava bene la città. Ci era sbarcato la prima volta nel 1952 dal Liberty Magdalena. Ricordava la città dal mare, quando il mercantile salpato da Orano aveva accostato puntando la prua sulla diga foranea in un pomeriggio estivo ma di mare grosso. La nave ballava e il carico di bauxite polverosa, che si appiccicava alla pelle sudata arrossandola in maniera innaturale, rotolava da una parte all’altra della stiva, moltiplicandone il rollio. Le luci della Lanterna, al tramonto, avvisavano i marinai che Genova era lì, da un migliaio di anni. Grigia, ancora rosicchiata dalle bombe anglofrancesi, richiusa al di là del porto dalle mura di Federico Barbarossa e dietro schiacciata dalle montagne secche. In mezzo a questi confini, quella sera di sei anni prima, Lucien avrebbe scoperto la città, mangiato una scodella di trenette al pesto, bevuto un vino rosso senza infamia e senza lode, sfiorato col sacco in spalla case fatiscenti che segnavano i caruggi bui che da Sottoripa salivano verso la collina di Sarzano, per arrivare a vico dritto di Ponticello. E poi scendere per il vico del Pomogranato tra le curve di via della Madre di Dio. Più o meno qui, forse un po’ più in là verso Porta Soprana “abitava” Margherita, orfana e puttana, bella e consumata anche se aveva solo ventiquattro anni. Lucien ne aveva trentaquattro. Era nato a Marsiglia. Cresciuto con i genitori coloni in Algeria. Cinque anni nella Legione a Sidi Bel Abbes lo avevano forgiato realizzando una perfetta macchina per uccidere sperimentata nelle squadre che dovevano reprimere i ribelli del Front del Libération. Poi si era messo in proprio. Lucien diceva di essere un militare senza esercito, ma attento agli ordini dei temporanei committenti. Questa caratteristica era il suo pedigree. Ubbidiva ciecamente chi lo assumeva e lo pagava. Di lui ci si poteva fidare perché non chiedeva e non sbagliava. Era meticoloso, puntuale e sapeva sparare bene con il fucile, anche dalle lunghe distanze. Anche con un solo occhio funzionante, il destro, ché il sinistro se lo era perduto tra le dune per un fottuto proiettile. Per questo nel giro lo chiamavano Monocle. Era un libero professionista. Lo assoldavano tutti i Servizi o quasi. Soprattutto i nemici. Lui di destra, preferiva le “pratiche” che gli arrivavano da oltre cortina. Ma soprattutto apprezzava la precisione dei sovietici, anche se questo innovatore Kruscev1 non gli andava a genio. Troppo rozzo. Salvava soltanto il capo del Kgb, Ivan Alexandrovic Serov2. Con Serov ci lavorava bene: poche parole, poche smancerie. Mica come gli inglesi, tutti thé, pudding e lord o gli americani, pasticcioni, ingombranti, grassi e con la bocca unta di ketchup. La scuola della Légion étrangère era diventata un ottimo certificato di garanzia. Lucien Corria, Monocle per amici e nemici, operava soltanto in Europa. Utilizzarlo costava parecchio, ma lavorava bene e non creava problemi. Non voleva sapere più del necessario per portare a conclusione il suo incarico professionale nel migliore dei modi. Margherita era rossa, alta e ben fatta e sapeva fare l’amore, secondo Lucien. Erano stati bene la notte, tanto che lui, dopo che si erano rivestiti, le aveva promesso amore eterno, forse anche figli. “Avremo bambini, il maschio lo chiameremo Armand come mio padre e se sarà una bambina, Armandine. “ Promise un matrimonio col prete che parlava in latinolatinorum. Certamente altre notti di sesso. L’aveva portata poco più in là dal Castagna, la casa di tolleranza dove faceva il mestiere alle dipendenze di Magalì, la maîtresse, verso la vecchia trattoria dei Zolezi, dopo essere passati davanti alla fabbrica di acqua gazzosa. Aveva trascorso la notte con lei in un alberghetto e per averla tutta la notte aveva pagato una tariffa decuplicata. Ne era valsa la pena e il giorno dopo era partito per Marsiglia molto soddisfatto e sinceramente intenzionato a tornare e sposare la puttana. “Mi aspettano amici per darmi un vero lavoro. Passata l’estate torno, ti prendo e ti porto via da qui”. Non era un marinaio, ma prometteva bene. Lucien Corria era ritornato a Genova sei anni dopo quel giorno tempestoso del 1952, non per rivedere Margherita o per portarla via, ma per uccidere. Lo avevano pagato per questo incarico: metà denaro all’ingaggio, il saldo a lavoro finito. Chi era Margherita? Un’orfana cresciuta dalle suore. Non le stesse che aveva frequentato prima di quel terribile 9 febbraio del 1941. “Alle prime luci dell’alba una formazione navale nemica, favorita da densa foschia, si è presentata al largo di Genova”. Margherita aveva tredici anni e andava a scuola dalle suore perché così aveva voluto sua mamma. Ma la mattina del 9 febbraio non arrivò in classe. “Nonostante il pronto intervento delle batterie costiere della Regia Marina…”. Le bombe o forse una sola bomba sbriciolò la sua casa dietro il coro di San Cosimo. Lanciata con precisione dal mare a distruggere la vecchia città. “Le salve nemiche che non hanno colpito obbiettivi di carattere militare hanno tuttavia causato…” I muri della sua cameretta. Per tutte le maledette notti che vennero dopo quella della bomba Margherita sognò i muri della sua cameretta che le crollavano addosso. “Settantadue morti e duecentoventisei feriti, finora accertati, fra la popolazione”. I muri non la uccisero. Si salvò soltanto lei. Non i genitori, non gli zii che abitavano al piano di sotto con i due cuginetti. Lei solamente. Così da quella notte Margherita maledì i muri della sua cameretta che erano stati generosi soltanto con lei, risparmiandola ma lasciandola sola al mondo. “La calma e la disciplina della popolazione genovese sono state superiori a ogni elogio”. Restò sola al mondo. Con le suore della Divina Beatitudine a cui fu affidata a tredici anni, quando una bambina diventa una ragazzina e scopre la vita anche se intorno c’è la guerra. Monsignor Augusto Binni, giovane sacerdote molto influente in città e in fulminante carriera, che era amico di suo padre, uomo devotissimo e benefattore, l’aveva presa sotto protezione. Le suore le volevano bene. Margherita, allora, no perché voleva scoprire la vita e non essere reclusa. E uscire per sempre da quella stramaledetta cameretta dietro il coro di San Cosimo con i muri che le si sbriciolavano addosso. Un giorno, aveva appena compiuto diciott’anni, scappò dal dormitorio delle suore della Divina Beatitudine dove dormiva con altre dieci orfane. Uscì e salì verso il centro della città, trovò madame Magalì, il casino chiamato Castagna diventò la sua casa e non ritornò mai più in quel vicolo. Binni la cercò. Senza successo. Forse qualcuno non volle che la ritrovasse. Quando seppe che era diventata una prostituta, pianse. Lucien aveva ascoltato la storia nella vecchia trattoria che sapeva di brodo ben fatto. Davanti a lui Margherita, bella e stravolta. Rivisse quel giorno raccontando la sua vita l’incubo dei muri che le cadevano addosso. “Sono scappata. Un giorno, a diciott’anni, sono scappata. Le suore mi hanno cercata per un po’, poi c’erano stati altri bombardamenti e non mi cercarono più”. Lucien le carezzò la guancia con la mano. La stessa che serrava il calcio del Garand con ottica di precisione e puntava sui bersagli predestinati. Budapest Szabo sorrise. “Dunque il nostro macellaio vuole chiudere un cerchio aperto da troppo tempo? O soltanto fare un favore a Kruscev, magari a sua insaputa? O lasciare uno dei suoi incancellabili segni mortali?”. Lazov non mosse un muscolo facciale, nemmeno il più piccolo. Distese sul tavolo la pagina strappata da un quaderno, con poche righe scritte ordinatamente. “Serov lascerà il posto fra poche settimane…” “Punito per eccesso di zelo?” rintuzzò l’ungherese che con il capo del Kgb aveva lavorato molto in questi ultimi anni, prima che le truppe sovietiche entrassero a Budapest. “Passerà dal Comitato per la sicurezza dello Stato al Gru3, il Direttorato per l’informazione, non mi pare sia un pensionamento… E tu resti all’Avh4? O anche tu dovrai lasciare il tuo ufficio della polizia segreta a compagni più presentabili con l’Occidente?”. Il sorriso si spense sulle labbra di Imre Szabo. “Di noi c’è sempre bisogno, lo sai. Sennò chi pulisce la spazzatura lasciata dagli altri?”. “Finalmente hai detto una cosa sensata”. “Allora? Come mai tutta questa fretta, caro Misha?”. “Qualcuno a Mosca vuole approfittare del momento molto favorevole per concludere positivamente questo incarico”. Szabo lesse le poche righe scritte sulla paginetta di quaderno. “Favorevole perché il Papa è fresco di nomina? Perché si devono spostare caselle, poteri, zucchetti rossi, acqua santa e incensi?”. “Cambiano i capi e il mondo si rinnova. Chi sale e chi scende. In piazza San Pietro e nella piazza Rossa. E ora ci sono anche chiazze di sangue. Come nei paesi normali dove non opera questo Spirito Santo. Allora che cosa c’è di meglio che aggiungere sangue a sangue? Tutto diventa rosso e non si capisce più niente…”. “Già. Cambiano i capi del Cremlino, ma per mia fortuna il metodo Serov resiste…” “Nessun metodo Serov. Serov non ha parlato. Alcuni di noi ritengono che si debba approfittare della situazione di panico a Roma e concludere senza aspettare altri momenti. Tutto qui”. “Senza impegnarvi troppo…” “Proprio così, Imre. Né voi che avete le vostre gatte da pelare qui, né noi che le abbiamo in tutte le capitali europee e non solo”. “Così la scelta è caduta su Monocle?”. L’ungherese affiancò sul tavolo alla paginetta strappata la scheda presa da un classificatore. C’erano un nome, una fotografia e sotto una nota informativa abbastanza fitta. “Lucien Corria… – riprese Szabo – prossimo ai quarant’anni, ex legionario, eccetera eccetera, ottimo tiratore… beh siamo sicuri che le sue prerogative professionali possano adattarsi bene a questa opportunità?”. “Che cosa intendi dire?” ribatté Lazov. “Che Corria sa sparare e molto bene anche da distanze notevoli. È quello che si definisce un ottimo sniper, un cecchino. In questa storia mi pare che i fucili con ottiche di precisione c’entrino poco…” “Ah…” sbuffò il russo accompagnando il verso da un inequivocabile movimento della mano. E riprese. “Fucile o no quello che conta è il risultato. E poi l’importante è confondere, disarticolare. Nella confusione diventa difficile decifrare”. “Ci sarà ben poco da decifrare su un cadavere con un foro in testa”. “Appunto. Quindi tu che hai contatti più stabili con Monocle dovresti procedere in tempi brevissimi a contattarlo e firmare un contratto con lui. Stesse condizioni che ci ha fatto sei mesi fa a Parigi”. “Uhmmm… ora Corria è in Svizzera e come sai a Berna si va senza armi al seguito”. “Quelle gliele recapiteremo noi a domicilio. A Genova per la logistica e i particolari c’è già Gerta Fuchs. Che Corria vada a Genova e prepari velocemente l’operazione. Fra dieci giorni avrà il nuovo Dragunov da provare sul campo. Con questo fucile è molto difficile fallire il bersaglio”. “Monocle ha ceffato una sola volta a Londra, ma si è rifatto ad Algeri”. “Compagno Szabo, questa volta la materia è delicatissima, impalpabile, paradisiaca…” “Già. Sarà come sparare allo Spirito Santo”. “La Fuchs è troppo prima della classe. Esagera sempre”. “Serov vuole così e fino a oggi Serov…”. “Fino a oggi”. Il 9 ottobre 1958 Papa Pacelli morì la sera del 9 ottobre 1958. Il papato di Pio XII era durato quasi vent’anni. Secondo alcuni porporati, troppo. L’aria tirava a favore di un pontefice di transizione. Dopo i vent’anni di Pio XII, una prospettiva di pochi anni, utili per dare il via al cambiamento della vecchia Chiesa cattolica apostolica. Ma soprattutto romana. La Curia romana pesava troppo secondo i porporati stranieri. I cardinali sono arrivati da tutto il mondo per i novendiali: tra di loro anche il patriarca di Venezia, Angelo Roncalli e il giovane arcivescovo di Genova, Augusto Binni, da tutti considerato il numero uno dell’episcopato italiano. Il cardinal Binni ha solo cinquantadue anni. È il delfino di Pio XII, tradizionalista, severo, anticomunista. Però entra in conclave “quasi Papa” ma ne esce cardinale. “Se facciamo papa Binni non avremmo un Padre Santo, ma un padre eterno” aveva ironizzato un vecchio porporato curiale. Roncalli raccoglie consensi: anche quelli dei terribili francesi progressisti. Anche Binni alla fine appoggia il patriarca di Venezia e con lui altri potenti di Curia. Da molti conservatori il gesto è visto come un tradimento. Un regalo ai comunisti e ai socialisti italiani. Il colore della prima fumata è incerto. Ma fuori qualcuno lo vede già bianco e annuncia che c’è il nuovo Papa. Equivoco clamoroso. Niente. Si va avanti. Undici scrutini per quattro giorni. Poi il 28 ottobre il Camerlengo5 appare alla finestra di San Pietro e annuncia che il Papa c’è: è Angelo Roncalli. Si chiamerà Giovanni XXIII. La sua faccia larga e bonacciona, piace a i romani abituati al volto ieratico di Pio XII. Ha l’aria di uno che cambierà parecchie cose e darà altrettanto fastidio a molti, anche fuori dalla cinta vaticana, nelle stanze della politica. Al di là del Tevere, c’è un governo tra democristiani e socialdemocratici. Lo chiamano per la prima volta “centrosinistra”. Tutto questo mentre l’Italia da un mese pensa di essere più laica perché ha chiuso le case di tolleranza. L’Italia si sente più moderna con la scoperta della cantante Mina6: diciotto anni e una voce stupenda. A dicembre canta Proteggimi allo Smeraldo di Milano ed è un successo clamoroso.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD