CAPITOLO II
5 novembre, Roma, Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, ore 19.30
“Benedicat vos onnipotens Deus. Pater et filius et Spiritus sanctus. Ite, missa est”. Don Volpini sentì di colpo il carico dei settant’anni passati da tempo sulle spalle e sulle braccia. Alzò il destro per benedire i pochi fedeli che a stento intravvedeva nella luce tenuissima della chiesa circolare. Gli pesava alzare il braccio. Anche la benedizione stava diventando una fatica. Come la messa delle 19. In inverno, con poco riscaldamento sotto le volte affrescate e gelide. Resisteva nonostante tutto. Il cardinale Neumann che era abbastanza giovane per essere un porporato, lo aveva accolto con affetto. Ma a lui toccava anche la messa delle 7 in santa Maria in Domnica, a pochi metri da Santo Stefano. Non era una forma subdola di punizione comminata per interposta persona, come sospettava qualche amico comunista del vecchio prete. Un tormento deciso dal cardinale genovese, somministrato da un “collega”, proprio il cardinale titolare di Santo Stefano Rotondo al Celio. La chiesa dei tedeschi, come la chiamava don Volpini: heil Hitler! Gridava con la sua voce ormai rauca. Un po’ da squinternato o beone. E alzava il braccio, a metà perché legato dai nodi dell’artrosi, nel saluto al Führer. “Qui tutto è germanico e ungarico. La proprietà, il cardinale che ne ha il titolo, anche i fedeli. E io che cosa ci faccio?”. Qualche parrocchiano sosteneva che il don alzasse il gomito. Che per lui alzare il gomito fosse più facile che alzare il braccio per benedire. Si erano anche lamentati con Neumann. Criticavano che un vecchio prete rincoglionito celebrasse nella basilica voluta da Papa Simplicio. Per questo gli orari “scomodi” e poco frequentati erano sembrati i più adatti al piccolo prete genovese. Povero don Volpini con la schiena ricurva come una parentesi e l’artrosi come unica compagna di vecchiaia. Lui così piccolo scompariva. E la testa troppo usurata dalle sofferenze di una chiesa che ascoltava poco i poveri e gli esclusi. Che non predicava con forza la pace. Che usava due pesi e due misure nel giudicare gli uomini. Ricchi da una parte e poveracci dall’altra. Solo che il don ci era andato pesante nel difendere le sue convinzioni.
Punito a Genova per le “inspiegabili intemperanze” come la aveva definite nel rimprovero ufficiale il cardinale della città, Augusto Binni. “Pasticcione” gli aveva detto. “Pasticcione, intemperante, disobbediente”. Perché, ripeteva il suo cardinale di Genova, non aveva ascoltato il “paterno consiglio” del suo vescovo? Eh don Volpini, lasci perdere questi finti operai che fanno troppa politica e che covano l’odio per gli avversari… I veri operai non sono così. “Lasci perdere don Volpini. Lei è più anziano di me – gli raccomandava il cardinal Binni con affabilità, accompagnandolo verso lo scalone dell’Arcivescovado – Non si metta a fare il rivoluzionario. Star vicini agli operai certamente. Lo viene a dire proprio a me che ho creato per primo i cappellani del lavoro? Ho mandato i preti in fabbrica, ma nel rispetto della Chiesa, senza cambiarsi d’abito, non lasciando sull’altare la talare nera per imbragarsi dentro una tuta. Faccia il sacerdote e lasci che gli operai facciano gli operai e i sindacalisti i bravi sindacalisti”. Invece don Volpini in fabbrica andava non solo a far pregare le tute blu, ma a difendere le richieste dei sindacati. E tante volte col padrone ci aveva parlato lui. Con quelli della Cgil che stavano dietro e facevano magari sì con la testa. Tutte queste “intemperanze” erano arrivate alle orecchie del cardinale. E dai e dai e dai, don Volpini ebbe il primo castigo: spedito ad aiutare un parroco in Valbrevenna sui monti fuori dagli occhi di Dio. “Almeno respira l’aria buona” sorrideva l’arcivescovo. Ma anche lì, non ce l’aveva fatta a fare solo il prete. Un padroncino di segheria licenziò due operai colpevoli di avere organizzato uno sciopero? Lui era andato in piazza, davanti al municipio, con un cartello legato al collo: “Vergogna padrone!”. Lo avevano fotografato ed era finito sui giornali. E Binni questa volta lo inviò in esilio. Dorato esilio, perché in fondo gli voleva bene. A Roma, nella sublime basilica gestita dal Collegio germanico ungarico, a pochi metri dall’ospedale militare del Celio. A far da aiutante al cardinale tedesco. Nella chiesa pregava spesso per il primate d’Ungheria, Mindszenty1, come gli aveva ordinato Binni, “prigioniero” dell’ambasciata americana per sfuggire alle persecuzioni comuniste. “Poveruomo preghiamo per lui” sospirava don Volpini camminando rasente al muro della stradina dell’ospedale militare per raggiungere la parrocchia di Santa Maria in Domnica dove abitava.
A Roma, pensava Binni, il sacerdote avrebbe vissuto una realtà diversa, colta, tra l’abbazia millenaria e la basilica. E si sarebbe dimenticato di fare politica. Dalla parte sbagliata. E poi aveva come capo un porporato “rosso” quel Neumann che l’arcivescovo di Genova, anche se stava sulla sponda politica opposta, apprezzava per la sapienza teologica e col quale aveva stretto una leale amicizia culturale.
“Sei fedeli, sempre meno e tutte donne anziane come me”. Gli unici giovani li incontrava alle 17.30 quando distribuiva la minestra calda ai poveri, a chi era senza lavoro a chi aveva occupato i margini di Roma. Giovani poveri e vecchi poveri. Con molti meridionali. La mensa di Santa Maria era diventata famosa come don Volpini, il vecchio prete. “Il prete dei poveri” canticchiava il parroco don Ciocci prendendolo in giro per questa sua notorietà. “Mi è toccato il prete dei poveri a me. Non era meglio avere il prete dei ricchi? Elemosine a gogò, avrei la possibilità di riscaldare di più questa vecchia chiesa. Invece Dio mi ha dato don Volpini, don Lenin!. E sia grazie a Dio Onnipotente se ha voluto così”. Il cardinale titolare, lo spagnolo Rosas Burgos sodale di Binni, faceva finta di non sapere.
Il vecchio prete piccolo e magro come una lisca di acciuga affamata, con quello scheletrino pieghevole che ondeggiava al vento, scuoteva la testa piena di capelli bianchissimi. E rispondeva: “Iddio vi ha messo alla prova, mandandovi me. Ringraziatelo!”. Ma i fedeli tedeschi non capivano e i pochi romani alle 7 di mattina erano pieni di sonno portato da casa e la sera troppo stanchi per dare retta a un vecchietto un po’ fissato che aveva occupato la saletta parrocchiale e ci portava a mangiare le sue zuppe i poveracci di mezza Roma. Senza chiedere se fossero onesti o no, solo diseredati o anche mascalzoni. “Meglio mascalzoni che fascisti!” gridava nella navata deserta. E dal pulpito sparava bordate contro le finanze del Vaticano, e i palazzinari romani che, secondo lui, facevano accordi pericolosi anche Oltretevere, l’ostentazione di ricchezza di alcuni cardinali, le zone d’ombra nel campo degli affari, il sesso.
Ultimamente aveva preso a lanciare anatemi contro il progetto di costruire in un’area abbastanza centrale di Roma, a Santa Maria in Tempulo, proprietà della Santa Sede, una nuova Università pontificia che avrebbe dovuto portare il nome di Papa Gregorio XVI. “Un guerrafondaio che svuotò anche le casse del Vaticano!”. Senza risparmiare chi l’avrebbe dovuta costruire, l’imprenditore Germanò (“La cazzuola dei fascisti!”) e chi l’aveva ideata, monsignor Heinz Magnus Hirsh, protetto nientemeno che da Pio XII, rettore del Pontificium Collegium Elveticum et Defensor Christi (“Un altro nazista… ma non li avevate cacciati da Roma?”).
“Ite, missa est”, sibilò sospirando. Poi girò lo sguardo intorno alla splendida balaustra circolare che incorniciava l’altare al centro della basilica: era solo come sempre a quell’ora. E chi andava a servire messa? Spense a una a una le candele e, quando tutto fu buio e dai suoi occhi scomparvero anche gli orrori e le crudeltà delle torture rappresentate nei trentaquattro affreschi sulle pareti rotonde da un pittore che lui proprio non capiva, perché per don Volpini la Chiesa doveva essere sempre rappresentata come felicità e gioia, il vecchio prete secco scese i gradini reggendo il calice coperto con le mani e si avviò verso la sagrestia. Santo Stefano Rotondo era completamente vuota. Così credeva il don.
La mattina del 6 novembre con il nuovo Papa Giovanni XXIII eletto da poche settimane, la donna che spazzava il magnifico pavimento della basilica trovò sotto l’altare della cappella dei Santi Primo e Feliciano un sacco di iuta, come quello per metterci dentro le patate che suo marito portava da Valmontone la domenica sera. Si domandò chi ce lo aveva messo o chi lo aveva lasciato quel sacco sgonfio. Che le pareva vuoto. Maleducati ’sti turisti che buttano tutto per terra. Ci aveva trovato ogni schifezza su quel pavimento benedetto da Dio. Mozziconi, pacchetti vuoti, fazzoletti. Ma un sacco di patate mai e poi mai.
La donna delle pulizie provò e spostarlo. Pesava, poco, ma pesava. Segno che il sacco di iuta non era vuoto. C’era dentro qualche cosa. Magari proprio delle patate come quelle che il marito portava da Valmontone dove avevano una casetta e l’orto. E il campo di patate.
Provò anche a rigirarlo. Ma non ci fu niente da fare. Decise che avrebbe chiamato il custode o sarebbe andata a Santa Maria in Domnica a avvertire il parroco o quella testa matta di don Volpini.
Poi vide la colata rossa che usciva da sotto il sacco. Era secca. Densa e secca. E faceva lo spessore sul gradino di marmo proprio ai piedi dell’altare. Ci poggiò sopra l’indice. E davanti a una decina di quadri di supplizi, chi si faceva bollire, chi segare, chi gettare dalla finestra, chi prendere a sassate, altri laghi di roba scura e secca. Poi vide altre macchie rosse sul pavimento. Altre strisciate lungo la parete circolare con gli affreschi dei martirii.
“Oddio oddio…”. Le girò la testa. Vacillò e le mancò l’aria. Fuori faceva freddo, ma lei era bollente come una pentola di polenta. Vacillò. Ma non per la pressione alta. Prendeva tutte le mattine la pastiglia di diuretico. Lei e suo marito insieme. Tutti e due con la pressione alta. Le girò la testa e si sedette sul gradino, appoggiando la schiena all’altare e anche la nuca e chiudendo gli occhi. “Oddio… Oddio!”. Riuscì a dire solo questo.