Capitolo III

1179 Words
CAPITOLO III Roma, al Rugantino “Stasera andiamo alla festa al Rugantino. Ci saranno tutti”. Quella sera Frediano Germanò era al Rugantino, e non avrebbe immaginato di diventare protagonista di una serata che sarebbe finita sui giornali scandalistici etichettata come un’orgia. Tutto per le stravaganze di una ballerina turca in cerca di pubblicità e di qualche scrittura. Gli uomini fecero spazio, creando un palcoscenico immaginario. Qualcuno si tolse la giacca, gettandola a terra, per trasformarla in un tappeto. Erano arrivate anche Anita Ekberg e Linda Christian. “Ciao Anita!”. Un paparazzo cominciò a scattare mentre la diva scuoteva il capo lanciando all’indietro l’incredibile chioma bionda. “Quando cominciate a girare?” chiese il fotoreporter. “Chiedilo a Federico…”. Fellini quella sera non venne. Tutti a chiederle del film. “Lo chiamerà La dolce vita o qualcosa del genere” aggiunse Anitona in un italiano stropicciato. Anche Frediano gettò a terra la sua giacca blu notte. La Ekberg ballò un cha cha cha a piedi nudi. Altre ragazze avevano scelto i tavoli del ristorante per ballare. L’atmosfera divenne calda. Bottiglie e bicchieri vuoti da tutte le parti. Vetri rotti a terra. Fu a quel punto che la ragazza che ballava, calpestando le giacche diventate tappeti, mosse anche e braccia in una sensuale danza del ventre. Fece volare via i sandali, poi si sfilò il vestito, poi la sottoveste. Gli uomini applaudivano e l’incitavano. “Nuda, nuda!” urlavano. E si erano inginocchiati ai piedi della ballerina. Urlava eccitato anche Frediano Germanò soprattutto quando lei si tolse il reggiseno. Gli applausi aumentarono, e aumentarono le grida e le bottiglie aperte e svuotate. La ballerina restò coperta solo da uno slippino nero di pizzo. Il celebre paparazzo scattava all’impazzata. Frediano Germanò uscì dal Rugantino mezzo ubriaco e cercò la strada di casa salendo la notte con la Mg nera verso i Parioli e proseguendo verso il quartiere Coppedè dove abitava l’ultimo piano di un palazzotto di famiglia ornato di merli, bifore e sculture. Poi fece marcia indietro e raggiunse via Veneto per il cappuccino dell’alba. Sotto abitavano i genitori, Alma Ruzzi-Draghi sposata con il conte Costanzo nobile di fresca nomina, titolare dell’impresa di costruzioni di famiglia, la Leonardo Germanò e figli. Di figli era rimasto solo lui. Il fratello Benito era morto in un incidente aereo. Frediano era figlio unico. Ogni tanto si presentava in ufficio nell’azienda famigliare, ma non distingueva un mattone da una piastrella. Teneva le relazioni mondane a Roma. Faceva il missino, dava di boxe e se del caso menava benissimo. Girava con donne belle e vogliose di vivere. Lo ammiravano e gli incarichi arrivavano e gli appalti si vincevano facilmente. “Un ottimo agente” tentava di spiegare Costanzo Germanò agli amici. Poi la sera davanti alla moglie piangente chiamava questo figlio Nullo/Gnente. “Da Nulla” spiegava, “Nulla come Nullità. Gnente come gnente, come un cazzo…”. Borgo Pio Il colonnello Cobianchi era giovane per essere già colonnello e anche per essere il vicecomandante della Gendarmeria vaticana. Quarantuno anni. Pochi di più della donna a cui era legato da due anni. Massimo Cobianchi lo chiamavano soltanto nelle occasioni ufficiali, quando qualcuno faceva gli appelli. Non lo chiamava Massimo nemmeno il suo diretto superiore, il comandante della Gendarmeria. Lo chiamavano tutti Max. Max Cobianchi. Dunque il colonnello Cobianchi era ancora nella sua casa in via Borgo Pio quando un militare della polizia vaticana suonò alla sua porta per avvisarlo che il comandante lo aspettava con urgenza. Il suo coinvolgimento nel caso cominciò così. Una mattina d’autunno avanzato, in una Roma piovosa e svogliata. Quando lui stava pensando a Dénise e alla bambina e si chiedeva se quella bambina che in due anni lo aveva stregato di affetto, sarebbe un giorno diventata finalmente sua figlia. Pensava a questo il colonnello Max Cobianchi anche davanti allo specchio del bagno mentre si sbarbava. E prima quando seduto al tavolo dalla finestra della cucina inzuppava nel caffelatte una fetta di pane e marmellata. C’è qualche cosa di male a voler essere considerato come un vero padre da una bambina a cui si vuole un bene senza limiti? Sono troppo pochi due anni per affezionarsi nella maniera in cui si era affezionato lui? La bambina gli dimostrava amicizia, tenerezza. Lo aspettava la sera, prima di andare a dormire. I suoi occhi s’illuminavano quando Max la prendeva in braccio. C’era qualcosa di male in tutto questo da essere tenuto nascosto, pensava il colonnello Cobianchi quella mattina di dicembre, quando alla porta del suo appartamento suonò un militare della Gendarmeria vaticana? 6 novembre, Santo Stefano Rotondo, ore 6.30 Don Ciocci entrò trafelato nella basilica, seguito dal sagrestano mentre la donna delle pulizie era seduta fuori, nel piccolo piazzale silenzioso, ombreggiato dagli alberi secolari di Villa Celimontana. Il prete voltò a sinistra e raggiunse la cappella dei santi Primo e Feliciano. Lui e il sagrestano si chinarono sul sacco di iuta. “Spostiamolo, ma piano. Facciamo attenzione”. Il sacco fu fatto scendere dai gradini davanti all’altare e adagiato sul magnifico pavimento un po’ più in là. Sui gradini si spalmò la macchia rossa. Oreste che era stato partigiano in Toscana dove era nato, sentenziò che era sangue. Altro sangue era rappreso nel fondo del sacco che aveva fatto da spugna. Ancora sangue, tanto, sotto l’affresco che rappresentava il martirio di San Dionigi. E sangue rappreso nella cappella vicina. Tanto sangue spalmato lungo la parete circolare della basilica. Ciocci slegò gli spaghi che chiudevano l’apertura, poi allargò i bordi. “Santa Maria, santa Maria, pregate per me!” ripeté facendo il segno della croce, anzi facendone tanti, uno dietro l’altro, a ripetizione, mentre i bordi del sacco scendevano sulle forme di un corpo inerte. “La testa?” chiese il sagrestano al sacerdote. “La testa non ce l’ha. Gliel’hanno tolta. Ma è il don… è don Casimiro” rispose con un filo di voce il parroco che di cadaveri nella sua professione ne aveva visti e benedetti tanti, ma tutti forniti di testa e adagiati sul letto. Frugò nella tonaca stropicciata e lurida e dalla tasca tirò fuori una medaglietta d’argento che raffigurava l’apparizione della Madonna sul monte Figogna alle spalle di Genova. “Ecco – disse singhiozzando – questa sua carta di identità”. “Decapitato” propose il sagrestano sicuro che la sua constatazione non poteva essere confutata. Perché il cadavere nel sacco finiva all’altezza delle spalle, ricurve, legnose, come un attaccapanni di quelli da appenderci su una giacca o un cappotto. Spalle e basta. “Decapitato – ripeté don Ciocci – Ghigliottinato come i re di Francia. Con un taglio netto”. “Al paese mio in Garfagnana – suggerì il sagrestano – fanno così ai polli. Gli danno un taglio secco alla base del collo, con un’accetta e un coltellaccio, poi legano le zampe del pollo e lo appendono sotto la vigna per farlo scaricare di sangue. Il pollo sbatte come un indemoniato, starnazza e il sangue schizza e sgorga fintanto che l’animale non è pulito e la sua carne bianchissima diventerà molto tenera”. Don Ciocci osservava l’aiutante con uno sguardo misto tra l’orrore e la curiosità e si era dimenticato che lì per terra nella basilica circolare che il Pomarancio1 aveva affrescato con trentaquattro martirii descritti con un linguaggio crudissimo, era disteso un cadavere con la testa mozzata. “E lo mangiate arrosto?” domandò al sagrestano, distraendosi momentaneamente da quella che i giornali del pomeriggio avrebbero definito “una macabra scoperta”. “Bollito con le patate e l’olio buono”. “Chiamiamo il rettore e il cardinale”. Il prete si avviò verso l’uscita rivolgendo al sagrestano una raccomandazione. “Chiuda la porta e vigili”. “E la messa delle 7?” chiese al sacerdote. “Sospesa per decapitazione”. Poi uscì e con passo veloce scese fino a via della Navicella per tornare alla sua chiesa.
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