CAPITOLO IV
Genova, Seminario del Righi, ore 7
Il cardinale Augusto Binni era rientrato a Genova da nemmeno una settimana, ma il suo scrittoio era già ingombro di carte, fascicoli e lettere. La grana più grossa gliel’avrebbe raccontata don Settimio Magioncalda, il segretario, aprendo una busta con le lettere, le copie carbone delle risposte, i ritagli di giornale, gli appunti, le segnalazioni e soprattutto, le denunce alcune anche anonime.
Accostò con la mano il vassoietto d’argento sul quale suor Pacifica aveva appoggiato la tazza con a fianco la Vesuviana con cui tutte le mattine gli preparava il caffè. Aggiungeva un po’ di latte e ci inzuppava dentro due biscotti Panarello.
“Ah i biscotti del Lagaccio, un quartiere che nonostante tutto mi è caro…” bisbigliava il porporato. Sua Eminenza consumava questa colazione appena si era vestito, seduto allo scrittoio senza avere ancora aperto gli incartamenti che don Settimio, che dormiva nella stanza in fondo al corridoio e si svegliava alle 5, gli aveva riservato per la prima parte della mattinata. Ancor prima della messa nella cappella del Seminario e prima di aver fatto due passi in giardino per nutrire gli occhi con la stupenda vista della sua amata Genova dall’alto della collina del Righi.
L’operazione durava sì e no dieci minuti, ma in quel lasso di tempo l’arcivescovo non pregava. Li chiamava “i miei minuti laici” dedicati alle terrene debolezze: il caffè con la macchinetta Vesuviana e il latte, i due biscotti Panarello imbevuti nella tazzina e la panoramica della città e del porto dalle finestre del Seminario al Righi.
Il cardinale abbracciava con lo sguardo la sua diocesi, bella e difficile. Poi metteva al dito l’anello con l’ametista che gli era stato donato il giorno della nomina, si inginocchiava davanti a un quadretto con la Madonna della Guardia apparsa al beato Pareto sul monte Figogna, quindi sedeva alla scrivania fino alle 10. L’ora della messa in cattedrale o dell’inizio delle visite e degli incontri pastorali.
In quei dieci minuti scorrevano davanti ai suoi occhi i fatti e i personaggi dei quali non poteva fare a meno: i bisognosi della sua diocesi, i portuali, gli operai dell’acciaieria, i borghesi e gli industriali, i democristiani. I suoi preti obbedienti, quei pochi che non obbedivano, ma erano sempre figli amatissimi, ma da correggere anche con il castigo, i volontari e i benefattori che collaboravano alla forza della sua Chiesa: concreta, altera, rigorosa, popolare. Ma soprattutto eterna.
Potere, potere. Fandonie dei giornalisti. “Oggi non legga i giornali, Eminenza” raccomandava don Magioncalda quando qualche articolo lo criticava. “Sono vaccinato, caro don Settimio. Che cosa scrivono? Che non sono diventato papa perché troppo conservatore? Oppure perché ero il delfino di Papa Pacelli? O perché combatto i comunisti? Non si crucci, caro don. Io sono sereno. Serenissimo, come i dogi veneziani e anche quelli genovesi”.
Allora don Settimio gli metteva sulla scrivania la copia del “Nuovo Cittadino”, il quotidiano della Curia dove il direttore, brandendo la penna come una scimitarra, tagliava le teste e i pensieri malvagi agli eretici della città.
Il cardinale Aloisius Neumann
Aloisius Neumann, arcivescovo metropolita di Paderborn, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, era considerato uno dei giovani porporati in carriera con i suoi sessant’anni spaccati. Gli era stato assegnato da Pio XII il titolo presbiteriale di Santo Stefano Rotondo perché era tradizione che la basilica fosse affidata o a un tedesco o a un ungherese da quando nel 1579 fu fondato il Collegio Ungarico unito poi a quello Germanico perché non riusciva a mantenersi da solo. L’istituzione era frequentata dalla crema dei sacerdoti che nel 1580, sull’onda impetuosa del Concilio di Trento, avevano come unica missione quella di combattere per il trionfo della Controriforma cattolica contro la ribellione dei riformisti protestanti. In realtà Neumann era un vicetitolare perché il vero titolare era il cardinale ungherese Joseph Mindszenty primate di Ungheria che era “illustre prigioniero” dell’ambasciata Usa a Budapest.
Neumann, spirito libero anche se rigoroso, si era subito distinto per le sue posizioni molto avanzate. Era un cardinale del cambiamento, della rottura con il passato.
Nonostante queste posizioni aveva accolto con favore la richiesta di un avversario potente come l’arcivescovo di Genova di ospitare per qualche tempo il prete ribelle don Casimiro Volpini.
“Vostra Eminenza è stata così cortese e generosamente cristiano – aveva scritto Binni a Neumann – da aprire la superbe porte della magnificente basilica che ebbe tra i suoi predicatori san Gregorio Magno, che accolse le reliquie dei primi martiri romani Primo e Feliciano tolte dalle catacombe di via Nomentana e che è tradizionalmente accogliente asilo dei pellegrini”.
Neumann aveva letto con divertita attenzione le parole dell’astuto porporato genovese, cercando di identificare sottintesi, malcelate ironie, frecciatine benedette.
“Il nostro fratello Casimiro – proseguiva la missiva di Binni – potrà riflettere sul suo operato nella chiesa amata da Papa Nicola V che dopo l’esilio di Avignone volle ristabilire la gloria e la magnificenza di Roma proprio partendo da questo edificio; ragionare sul coraggio dei monaci paolini ungheresi, superbo esempio di fede invitta, che difesero dai turchi invasori e soprattutto dalla dilagante riforma, ma maxime avrà le pupille occupate ad ammirare devotamente le inaudite sofferenze che sopportarono i santi cristiani perseguitati dagli imperatori romani e rappresentati con tormento e rassegnazione dall’arte del Pomarancio. Avrà modo di osservare teste mozzate, lingue e mani tagliate, povere membra bollite nell’olio, gole trafitte da alabarde, unghie e occhi strappati da dita e orbite, che Niccolò Circignani1 corredò di esaurienti didascalie biografiche”.
Ma che cosa aveva combinato don Casimiro Volpini, prete nella parrocchia genovese di San Nervino, per meritare questo film dell’orrore, si chiedeva Neumann tutte le volte che risiedeva a Roma e incontrava il vecchio prete-secco, sempre tormentato e brontolante e pronto a battersi la mano adunca sul petto ossuto, ripetendo con una inconfondibile coccina genovese “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”.
La telefonata di don Ciocci, parroco di Santa Maria Domnica in Navicella, giunse alle 8 circa e il porporato tedesco che era in partenza per la sua città ascoltò l’angosciante notizia mentre stava sbarbandosi.
“Vengo subito – rispose al sacerdote – Non toccate nulla. Io informo anche il cardinale Rosas a meno che non lo abbiate già fatto voi, caro padre…”.
L’arcivescovo metropolita di Toledo
No. Don Ciocci non aveva fatto più niente dopo aver constatato con un certo orrore che dentro al sacco di iuta rosso impregnato di sangue, sistemato con cura scenografica a corredo concreto del Martirologio del Pomarancio, riposava in eterno un prete genovese, reo di amare visceralmente poveri e sbandati e di avere la lingua troppo lunga. Tanto meno chiamare il titolare della sua chiesa, che stava a pochi metri da Santo Stefano, e che era l’austero e intransigente cardinale Jorge Pedro Rosas Burgos, arcivescovo metropolita di Toledo e guida dell’Elemosineria apostolica, ma soprattutto esponente di spicco dell’Opus Dei. Una sublime trasposizione sacerdotale al servizio dei più eccelsi altari del generalissimo Francisco Franco.
Ci pensò Neumann.
Rosas Burgos lo ascoltò e pregò: “Chissà se Iddio misericordioso accoglie un simile peccatore”.
Il cardinale si svegliava tardi per un prete anche se con un eccessivo numero di gradi ecclesiastici sulla tonaca. Abitava un immenso appartamento di proprietà dell’Opus Dei in Lungotevere dei Fiorentini e andava a piedi in Vaticano fermandosi davanti alle vetrine dei negozi e dei pasticceri. Parlava spagnolo e latino, riteneva di avere di diritto un ruolo politico-istituzionale nel suo Paese alla pari del Caudillo.
Nella grande casa romana viveva senza suore di servizio, con il segretario, una vecchia domestica spagnola e un cuoco che portava al seguito da Valencia dal quale si faceva cucinare una sera alla settimana, quando risiedeva a Roma, una sontuosa paella che consumava con pochi porporati ammessi al suo desco. Alla tavola imbandita con semplicità spartana “altrimenti il lusso dei piatti e dei bicchieri o la superbia delle posate d’argento potrebbero alterare il sapore del cibo marino” sedevano i cardinali Marcotulli e Binni, i segretari dei partiti di governo e della vecchia destra. Quando tutti gli ospiti tornavano alle loro case e il personale di servizio era a letto, Sua Eminenza, accendeva il giradischi che teneva nello studio, sistemava sul piatto un long playng di tanghi argentini e cominciava a danzare con estenuante partecipazione. Nella più totale solitudine.
Amava l’Argentina, terra materna, e la danza popolare che ne esaltava i caratteri.
La tonaca non gli impediva di eseguire figure classiche della danza che il porporato adorava quanto il fondatore dell’Opus Dei, Escriva. Terminata la camminata, passava a una baldosa, poi accennava una salida basica, quindi era la volta della molinete che eseguiva con precisione, anche se non aveva fra le braccia una donna da far girare attorno all’asse della coppia. Prediligeva la sacada attraverso la quale invadeva lo spazio dell’immaginaria partner, disegnava una barrida dall’affascinante effetto ottico ottenuto dallo spostamento del piede della ballerina, per chiudere con una volcada. Era questo l’abbraccio nel quale la coppia di ballerini si chiude a riccio.
Quindi Rosas Burgos, ormai sfiancato, si accasciava sul sofà mentre nello studio andavano morendo le note di Por una Cabeza.
Por una cabeza, de un noble potrillo
Que justo en la raya, afloja al llegar
Y que al regresar, parece decir
No olvides, hermano
Vos sabes, no hay que jugar...
...Por una cabeza
Si ella me olvida
Qué importa perderme
Mil veces la vida
Para qué vivir...
Già. Perché vivere? La risposta la ritrovava senza esitazioni: per la Fede! Per il trionfo di Cristo! Per il Pontefice romano, monarca assoluto della Chiesa. Con buona pace dei riformisti! A Carlos Gardel e al suo languido tango pensava il segretario don Juan Pardo de Tavera che nella sua camera, lontanissima e inaccessibile, dopo la sfilza di salotti, ascoltava il disco che sfumava nella notte e canticchiava sorridendo…
“Vos sabes no hay que jugar”.
“Jugar, jugar”… A cosa? A qualsiasi gioco lecito illecito?
Non era mai stato capace di ballare. Era forte e bello, ma zoppo. E omosessuale. Particolare allora rischioso per la carriera.