CAPITOLO VI
Primo pomeriggio. In auto verso Roma
“Senza testa e senza mani, Eminenza. Tagliate anche quelle. E senza cuore. Una scena agghiacciante. Me l’ha raccontata padre Pardo. Ha detto che il povero don Casimiro sembrava un pollo… Ha detto proprio così”.
“Sono sicuri che si tratti del corpo di don Casimiro?” chiese il cardinale seduto a fianco dell’autista, sulla Fiat Millequattro che lo stava portando nella capitale e che affrontava le curve del passo del Bracco. “Senza testa e senza mani, senza cuore… Chi lo ha riconosciuto?” insistette rivolto al suo segretario.
Intanto a Santo Stefano
“Occorrerà un riconoscimento ufficiale…” disse il questore che si era fatto accompagnare sul luogo del ritrovamento dal commissario Felice Persivale, uomo fisicamente smisurato “del quale ci si può fidare a occhi chiusi” aveva assicurato ai due cardinali presenti.
La totale fiducia nel commissario era originata dal fatto che fosse suo compaesano di Frosinone e sensibilmente vicino alle idee dei missini, quelli sodi, non quelli troppo dialoganti, quelli che rimpiangevano ancora i bei tempi della Repubblica sociale. Pane e manganello quanto basta.
“Con Persivale tutto troverà una serena conclusione nell’ambito più rigoroso della legge.”
“E il magistrato?” chiese il prete tedesco.
“Ho già sentito il procuratore Droppi Pendieri. Manda un giovane di fiducia e in carriera, tal Di Portella e poi rivede tutto lui personalmente. L’obbiettivo come voi auspicherete e certamente desidererà Sua Santità in questi primi giorni di papato è una rapida e silente chiusura del caso. E sarà così. D’altronde è miseramente chiaro quello che è successo”. Il questore ritenne di avere offerto agli Eminentissimi il massimo delle sue capacità investigative.
“Chiusura sì, ma con un colpeffole!” sbottò facendosi sfuggire una cadenza teutonica il cardinale Neumann, irritato dal servilismo del personaggio, così lontano dal suo modo di pensare e di comportarsi.
“El culpable? Mi pare claro!” rispose Rosas che si era già costruito la sua personale indagine, con colpevole al seguito.
Tutti voltarono lo sguardo verso di lui.
“Uno de esos usureros de su banda de latrones!”.
Sulla Fiat 1400 nella pineta di Tombolo
Il cardinale Binni si era assopito, vinto dalla stanchezza, ma anche dall’angoscia. Sentiva la morte di don Volpini come una sua pena personale. Anche se il prete gli aveva tormentato molte giornate e molte notti con le accuse di reggere una diocesi con principi antidiluviani, l’essere il faro di una Chiesa vecchia, anacronistica, che rifiutava ogni dialogo, ogni confronto con una società che stava cambiando velocemente anche in Italia. Ma gli attacchi che di più addoloravano l’arcivescovo erano quelli politici: venire indicato dalla comunità di San Nervino come un uomo che difendeva i ricchi e i potenti della città, infischiandosene degli ultimi della terra. Questa accusa lo macerava, lui figlio di una portinaia.
Don Magioncalda lo osservava con trepidante preoccupazione.
“Fermiamoci a prendere un caffè”. Scesero davanti a un piccolo bar al limite della pineta di Tombolo.
“Eminenza – disse il segretario – lei non è solo. Lo sa bene. Ha una città che la ama e si vede quando passeggia nei caruggi. Lei è popolare, tutti la fermano, le baciano l’anello…”.
“Io sono del popolo don Settimio. Sono nato proletario capisce e mi descrivono come un Principe. Una volta mi hanno attaccato perché come cardinale indosso vesti di seta. Tanto che Pio XII decise di abolire questa usanza…”.
“L’abito non fa il monaco”.
“Io ero contrarissimo. Chiesi al Papa il perché di questa scelta”.
“Che cosa le rispose” domandò incuriosito il segretario mentre rientravano nell’auto per ripartire verso Roma.
“Che facendo così aveva voluto mettere a tacere i comunisti e le balle che diffondevano sulle spese eccessive della Chiesa per il guardaroba dei cardinali. Sono convinto che ciascuno di noi debba essere povero, ma come principe della Chiesa debba tenere alta la sua dignità che è la dignità della stessa Chiesa. Sancta Romana Ecclesia deve presentarsi in tutta la sua potente storia, capisce? Con tutti e davanti a tutti siano essi re e regine o senza tetto. E poi, caro don, se io in-dossassi degli stracci crede che i comunisti di Genova parlerebbero bene di me? Ma si figuri…”.
Quando don Magioncalda capì che il cardinale era più tranquillo gli rivolse la domanda che aveva in testa da quando era uscito dal conclave e non aveva ancora osato fargli.
“Come è andata veramente Eminenza?”.
Binni lasciò passare alcuni minuti osservando le colline toscane che scorrevano al di là del finestrino e il segretario temette di avere esagerato, con una domanda molto diretta. Forse troppo. Ma Binni era un uomo schietto.
“Lei ricorda che siamo andati a Roma poco prima del funerale. E sa bene che avevo capito che Papa Pacelli, quando mi voleva mandare in missione all’estero, stava facendo con me quello che Papa Ratti aveva fatto con lui: prepararmi al papato. Farmi fare esperienze di diplomazia.”.
“Pio XII era un uomo triste?” chiese don Settimio.
“No, ma era solo, era circondato da una spaventosa solitudine. Parlava alle masse, ma era solo…”
“Un monarca….”
“Sì un monarca solitario che possedeva un’ eccezionale autorità morale, ma accentrava tutto, come se non potesse fidarsi di nessuno all’interno della Curia. Tanto da non avere nominato la figura più importante nell’organigramma politico della Chiesa…”
“Il segretario di Stato?” rispose don Magioncalda.
“Proprio così. Non voleva collaboratori né di alto né di basso livello. Il governo della Chiesa era lui e nessun altro. Nominò trentadue nuovi cardinali, ma solo quattro erano italiani e mi spiegò che così Roma diventava davvero la Città Eterna, capisce, la città di tutti i cittadini del mondo. Il mondo e lui solo a difendere questa Chiesa soprattutto da chi?”.
Non era una domanda difficile per don Magioncalda che rispose senza esitazione: “Dai comunisti”.
“Proprio così. Aveva ragione, caro don, come aveva ragione nel parteggiare, se posso semplificare il concetto, per una nuova controriforma, che doveva realizzarsi nella centralità del potere papale e nella riconferma della monarchia assoluta del Pontefice”.
“Dunque secondo lei fece bene a promulgare la loro scomunica nel 1949?”.
“Eccome! E anche a riconfermare questa posizione della Chiesa due anni fa quando i comunisti sovietici hanno invaso l’Ungheria. Senza esitazione: nessun dialogo alla pari con i comunisti. Ha fatto bene Pacelli a mettere le serrature alla sua casa, alla nostra casa caro don Settimio. Ora cambieranno molte cose e noi dobbiamo vigilare perché questi cambiamenti non siano troppi”.
D’accordo, pensò il segretario mentre ormai l’imbrunire cancellava ogni figura e paesaggio al di là dei finestrini dell’auto. Ma Binni non aveva risposto alla prima domanda, quella sul conclave.
“Ora le racconto, ma lei – disse sorridendo rivolto all’autista di fiducia – si tappi le orecchie”.
Raccontò così di quando alcuni potenti cardinali gli avevano offerto la candidatura su un vassoio d’argento.
“Gli altri, i progressisti francesi che mi temevano, cominciarono a sostenere che ero troppo giovane. Ricorderà quell’articolo sul ‘Corriere’ dove si riferiva della battuta di un altro cardinale italiano?”.
Magioncalda ricordava tutto di quei giorni romani così intensi e densi di emozioni e delusioni.
“Con l’Eminenza Binni avremmo non un Padre santo, ma un padre eterno…”.
Binni rise e anche l’autista non poté trattenersi. Il cardinale d’altronde era una persona di grande spirito e divertito delle battute, soprattutto quelle in genovese che apprezzava particolarmente.
“Sa che cosa mi disse un giorno il mio maestro, l’arcivescovo di Genova? Diventerai docente di teologia dogmatica in seminario. Come faccio così giovane? gli risposi. E lui: Sta tranquillo, diventerai vecchio”.
Il cardinale riprese.
“Ero simpatico a parecchi cardinali. Bene . Eravamo chiusi là dentro, al gelo dei corridoi, quando mi riferirono della tendenza molto favorevole nei miei confronti. Risposi secco, forse persino troppo, che non avrei mai accettato anche perché avevo seri problemi di salute…”
“Ma lei sta benissimo Eminenza!” sbottò don Magioncalda.
“Già, una piccola bugia… Così spuntarono i nomi di Roncalli e di Agagianian. Ma mancavano sempre un pugno di voti per arrivare alla soglia dei 34. Il 27 ottobre, lo ricordo bene, provarono a fare convergere una maggioranza di porporati su Aloisi Masella. Non passò. Allora riuscimmo a spostare i voti di Aloisi su Roncalli… E fu eletto. Certo ho contribuito fortemente a questa scelta e con me anche gli amici, i cardinali Rosas Burgos, Marcotulli, Cirrincione e Pacca. I nostri decisivi cinque voti. Altro che conservatori! E sono convinto forse più di loro che abbiamo fatto la cosa giusta per la Chiesa. In questo momento. Grazie allo Spirito Santo…”.
Le luci di Roma cominciavano a illuminare i bordi della strada.
Don Settimio aveva ancora una curiosità.
“Come faceva il vaticanista Maddalosso a sapere tutto quello che vi dicevate chiusi nella Cappella Sistina? Una spia ma chi?”.
Binni sorrise.
“Caro don il Vaticano è pieno di spie e nella Sistina in quelle occasioni c’è un concentrato di informatori. Io credo che i primi a far sapere siano i miei colleghi cardinali….”.
“Ma sono tutti chiusi, in clausura eppure qualcosa trapela dalle mura…”.
“Allora sarà lo Spirito Santo…”.