01. FIRST DAY (once again)

1951 Words
Il primo giorno di scuola, ancora una volta. Tutti erano eccitati per il nuovo anno, tranne lui ovviamente. Non voleva apparire come un asociale con l’odio verso la gente nelle vene al posto del sangue, ma come da copione quello era l'ennesimo anno in cui dopo una tremenda estate a consolare sua madre per l'ennesima delusione d'amore, cercando di limitare anche la droga e l’alcool, entrava in una scuola nuova. Nuove persone, nuovi volti e personalità, nuovo mondo, ma solita ansia, solita tristezza nel sapere che non ci sarebbe stato neanche un volto amico in quella nuova scuola. Il massimo a cui aspirava erano conoscenze. Will non ricordava il periodo che andava dal suo primo respiro fino ai dieci anni, aveva solo ricordi sfocati di alcuni episodi con Jason, il suo vero padre, che aveva gettato sua madre nel baratro dei superalcolici come risposta a tutto, con qualche aggiunta di pastiglie o siringhe. Odiava la vita che gli era toccata, eppure non poteva farne a meno. Era la sua routine e nonostante a volte pensasse di voler lasciare tutto e andarsene, Nadine era sua madre e non poteva farci nulla. Era la sua famiglia e avendo solo diciassette anni (tra quattro mesi diciotto, finalmente) non poteva separarsi da lei, o contattare assistenti sociali. Non voleva finire in un orfanotrofio, li aveva sempre reputati posti schifosi e terribili, e sotto sotto non voleva essere paragonato a suo padre, lasciando sua madre coi mille problemi che si portava dietro. Lui era diverso da quel verme. Nadine causava guai, ma i pochi ricordi felici di quando era ancora un bambino spensierato, ignaro del fatto che mentre lui giocava a palla il padre si scolava una bottiglia di chissà cosa, seguita da pastiglie a caso, lo spingevano a non lasciarla andare. Nadine, nonostante l'amara fine della sua prima storia d'amore con Jason, non smetteva di credere nell'amore e dopo anni passati a piangere e cercare di superare la depressione aveva deciso di trasferirsi. E così, da quando aveva iniziato il liceo, Will viaggiava ogni anno, un po' perché la madre non era stazionaria, sembrava una nomade piuttosto, un po' perché a seconda di come si svolgeva la sua situazione amorosa, prendeva il triplo di ciò che prendeva di solito e decideva, con la mente annebbiata e il cervello ormai bruciato da tutto quello schifo, di spostarsi. E lui accettava, sempre. Accettava perché la solitudine lo spaventava a morte. Accettava per vederla felice, ma non lo era mai. Nessuno dei due lo era. Ed eccolo, davanti all'ennesimo liceo, solite cheerleaders, i giocatori di football che pensavano di essere i re del mondo, gli sfigati, i gruppetti anonimi e il resto. Era così triste che la società fosse divisa in gruppi che per poco non si avvicinavano alle classi sociali del Medioevo. Faceva davvero schifo. Entrò nell'enorme cortile e ignorò gli sguardi interessati che lo trapassarono da parte a parte, stringendo il suo zaino blu e andando verso la segreteria, che per fortuna si trovava appena dopo l'ingresso. Solita procedura: foglio con orari, ben arrivato, spero ti troverai bene, vieni da me per qualsiasi cosa. Monotonia. Non aveva neanche ascoltato il nome della donna che doveva essere la segretaria. Non che gli interessasse più di tanto, le avrebbe parlato un’altra volta e basta probabilmente. Studiò la piantina della scuola e in seguito gli orari delle lezioni che avrebbe dovuto seguire. Lesse poi il numero del suo armadietto: 128. Si trovava nel corridoio a sinistra. Si voltò verso quella direzione e scrutò i numeri uno alla volta, dandosi mentalmente una pacca sulla spalla quando notò un "127", prima di rivolgere lo sguardo su quello che avrebbe dovuto essere il suo. A quel punto, rimase per due minuti buoni a fissare la scena che si ritrovò davanti, non sapendo se essere schifato, sentirsi di troppo o fuggire per cercare di nascondere l'imbarazzo. Optò per uno schiarirsi la voce cercando di attirare l'attenzione dei due ragazzi intenti a ispezionarsi l'ugola premuti contro il suo armadietto. Doveva ricordarsi di disinfettarlo. «E questo chi è?» chiese il riccio davanti a lui, senza mollare la presa sui fianchi di una brunetta che sembrava volergli staccare i bulbi oculari. Fantastico, bell'inizio (ancora una volta). Almeno si erano accorti di lui. «Scusate se vi…» si zittì un secondo cercando le parole giuste e guardando le sue scarpe nere, per poi alzare nuovamente lo sguardo sui due che lo guardavano nervosi e parecchio scocciati dalla sua interruzione, «…disturbo. Ma sarebbe il mio armadietto e-» «Che cazzo dice questo?» chiese nuovamente il ragazzo. Come se la bruna davanti a lui avesse tutte le risposte alle sue domande. Quella alzò le spalle e gli stampò un bacio veloce sulle labbra, «Chiedi al diretto interessato, non mi preoccupo della gente irrilevante, lo sai! A dopo, Eddy.» lo salutò, allontanandosi sculettando. Stava decisamente sculettando, William ne era certo. Non che le avesse fissato il culo, lui era per l'altra sponda, ma aveva sculettato, e se fosse stato etero probabilmente le avrebbe sbavato dietro come di certo mezza scuola faceva già. «William Spencer.» parlò nuovamente, porgendo la mano al riccio che lo squadrò da testa a piedi, senza nessuna intenzione di ricambiare la stretta. Per una volta che provava a interagire senza farsi troppi problemi, finiva così; eppure, sapeva che doveva evitare la gente, perché provava a farsi apprezzare inutilmente? Non sarebbero diventati amici, era piuttosto evidente. Pazienza. Se lo fossero diventati, Will l'avrebbe comunque perso entro la fine dell'anno scolastico, non aveva un profondo interesse nel stringere rapporti sociali stretti. «Come non detto. Ora sai il mio nome, puoi smettere di chiamarmi "questo", non è molto carino nei confronti delle persone ed è preferibile usarlo per gli oggetti.» continuò, per poi indicare l'armadietto a cui il riccio era ancora poggiato. Alto, occhi verdi, mandibola ben definita, muscoli, una giacca con lo stemma della scuola, labbra gonfie e rosse (probabilmente per i baci con la brunetta), ricci incasinati ma che in un certo senso gli donavano e un naso che avrebbe potuto essere più piccolo. Nel complesso, era un bel ragazzo. Ma era sgarbato, e non sembrava molto interessato al rivolgergli la minima parola. Quindi, nulla, meglio ignorarlo, e se si fosse levato dai piedi sarebbe stato tutto più facile, ma era pur sempre contro il suo armadietto. E continuava a fissarlo in silenzio. Will si chiese se potesse essere sordo, ma era abbastanza improbabile, lo stava ignorando senza vergogna. Odiava la gente, figuriamoci i maleducati. Probabilmente era il classico stereotipo di giocatore di football tutto muscoli e scopate, ma zero cervello. Un po' se lo aspettava, di essere finito in uno di quei film americani sui teenager stereotipati e generalizzati. Che tristezza. «Perché mi stai fissando, Willelhm? Levati dalle palle.» rispose, aprendo bocca per la prima volta dopo diversi minuti di silenzio nei quali l’aveva squadrato e studiato da capo a piedi. Sembrò riflettere sulle sue parole, prima di «Sei nuovo?» aggiungere, con tono comprensivo, come se stesse parlando con un bambino e non con un ragazzo della sua stessa età. «È William.» lo corresse Will, nonostante sapesse perfettamente che il riccio lo stesse solo scimmiottando, per poi «E sparirei, davvero, non voglio infastidirti, però sei poggiato contro il mio armadietto e-» Il riccio si voltò, mentre William tacque nel vedere che sembrava più interessato al colore arancione sbiadito degli armadietti, piuttosto che al suo monologo. «È mio. Il 128, giusto?» lo interruppe poi, voltandosi e puntando quei fari verdi sul viso di William, che spostò lo sguardo annuendo impercettibilmente, «La segretaria mi ha detto che il 128 è mio, non so.» aggiunse, guardando l'armadietto. Il ragazzo, Edward, come aveva detto la brunetta di poco prima, sbuffò e si staccò, finalmente, dall'armadietto borbottando un «Fottuta Bridgit, perché non va in pensione o direttamente nella tomba?» che confuse William. Bridgit chi? «Chi?» chiese, infatti, seguendo il riccio senza che lo invitasse o cose simili. Pensava stesse andando alla segreteria e così era, per fortuna. «Bridgit, la segretaria. È capitato altre volte che, vecchia com'è, sbagliasse numeri o cazzate simili. Ora risolviamo.» spiegò Edward, mettendo le mani nelle strettissime tasche degli skinny neri che sembravano una seconda pelle. William si stava sentendo male per lui. Non rischiava che il sangue smettesse di fluire dentro quei pantaloni? Entrarono nuovamente in segreteria e dopo vari controlli appurarono che ovviamente la donna aveva sbagliato. William si sorprese di come Edward avesse cambiato espressione. Sorrideva come un bambino innocente davanti a Bridgit e ripeteva grazie dopo ogni frase. Un classico leccaculo di prima categoria. Doppia faccia. Lo era decisamente, dato che la stava insultando due secondi prima ed ora sembrava stesse parlando con la vicina dolce e comprensiva. «Grazie mille, sei fantastica, Bri!» la ringraziò per quella che fu la venticinquesima volta in un quarto d'ora (William le contò, per evitare di annoiarsi) per poi girare i tacchi ed uscire dalla segreteria passando un foglio con la combinazione giusta e il numero dell'armadietto. 127. D'accordo, aveva sbagliato di uno, poteva capitare, povera donna. «Grazie per avermi aiutato.» disse William, piegando il foglio accuratamente mentre la campanella suonava uccidendo i suoi poveri timpani. Che rumore odioso e inutile. «Come ti pare, non aveva niente di meglio da fare che rompermi le palle con un cucciolo smarrito e una vecchia rimbecillita alle otto del mattino.» il cambiamento istantaneo del tono di voce del riccio lo scosse nuovamente. Cucciolo smarrito. Sul serio? William lo prese per un "prego" poco carino e annuì soltanto, allontanandosi poi dal ragazzo e aprendo finalmente il suo armadietto. Aveva ritirato alcuni libri pochi giorni prima, per fortuna, o si sarebbe ritrovato senza nulla alla mano. Afferrò un quaderno e l'astuccio gettandoli dentro lo zaino e rimettendoselo in spalla, prima di andare alla ricerca dell'aula di scienze che per fortuna si trovava in quello stesso piano. Entrò proprio mentre il professore si stava sedendo alla cattedra. «Oh eccoti, Spencer, giusto?» chiese l'uomo, alzandosi nuovamente e avvicinandosi a lui. William annuì chiudendo la porta e stringendo la mano del professore, «William Spencer.» precisò, mentre «Mark Lermann, benvenuto nella classe di scienze, William e nella nostra scuola ovviamente. Siamo felici di averti qui. Ragazzi, questo è William Spencer, il vostro nuovo compagno. Puoi prendere posto dove preferisci.» si presentò l'altro, tornando poi a sedersi e indicando la classe con la mano. William si guardò intorno e dopo aver notato alcuni banchi liberi si sedette in terza fila, al centro. Non aveva una buona vista della lavagna, ma non era un problema. Era solo il primo giorno di scuola, e sperava sarebbe durato tanto. La sola idea di tornare a casa lo terrorizzava, non aveva la minima voglia di sentire ancora le storie su sua madre e Troy, il suo ultimo ex, e su come lui la pensasse "una delle tante" mentre lei si era irrimediabilmente innamorata. Sospettava avesse qualche sindrome dell’abbandono o cose simili, ma non era informato in psicologia e Google non aveva tutte le risposte corrette purtroppo, o per fortuna. Punti di vista. William aveva smesso di credere nell'amore e nel lieto fine da un po', perché era cosciente del fatto che con tutti gli spostamenti che lui e sua madre facevano ogni anno, mai avrebbe potuto godersi una relazione che sarebbe finita col suo trasferimento. Odiava le cose a distanza, quindi prima dei venticinque anni, come minimo, non avrebbe potuto avere rapporti sociali sia d'amicizia che più profondi. E poi era gay, il pensiero degli altri non gli importava più di tanto, ma non aveva voglia di tastare il terreno e scoprire quanti omofobi grossi e ben piazzati avrebbero voluto operare senza compenso come suoi bulli personali ogni giorno. Preferiva guardare quelle cose nelle serie tv e non provarle sulla sua pelle, grazie tante.
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