UNO
Due fratelli, un goblin squamoso
e una serie di cattivi presagi
La brezza spirava tra le fronde degli alberi d’acciaio. Lamine d’argento ne costituivano il fogliame, fustelle poderose e di spesse leghe metalliche ne modellavano il tronco. Erano piante solitarie, confinate nella zona più esterna di Steamwood, dimenticate e temute, eppure per qualcuno ancora belle.
Due ragazzini sedevano sotto di esse, intenti a godersi la quiete e a osservare lo scintillante dondolio della luce solare che filtrava tra i rami nerboruti.
Due fratelli, tanto uguali fuori quanto diversi dentro.
«Sei ancora convinta che funzionerà?» domandò Finn, il più piccolo.
«Funziona sempre», rispose Astra.
Nati dal grembo di una madre ignota e accolti nell’abbraccio sicuro di un padre scomparso prematuramente, non avevano conosciuto altro amore e avevano subito imparato a fronteggiare la malasorte di un destino infingardo.
Ad accomunarli, un’indole di inespugnabile coraggio, quella curiosità pruriginosa e mai soddisfatta per l’inesplorato, un’impudenza malandrina e la vivacità che potrebbe governare l’animo irrequieto di un giovinotto.
Finn sbadigliò. «È da più di un’ora che ce ne stiamo qui a fissare il nulla. Ho le chiappe indolenzite e comincia a brontolarmi lo stomaco.»
Astra alzò gli occhi al cielo. «E quando non ti brontola?»
Finn scattò a sedere e le rivolse un’occhiata infuocata. «Ti odio quando fai così.»
«Lo dici solo perché sai che ho ragione.»
«Lo dico solo perché è la verità.»
Benché non riuscisse a preservare la stessa serafica pazienza della sorella, Finn non era capace di starle lontano né di litigarci a lungo. E poi nel profondo del cuore si beava di quelle sue pratiche strampalate. Lo affascinavano. Trasformavano la monotonia delle loro giornate in avventure straordinarie.
Astra voltò il capo per incontrare la sua espressione imbronciata e prese a scompigliargli la matassa di boccoli ramati.
Finn allora fece spazio a un sorriso di pace. «Mentivo», si scusò. «Non ti odio.»
Astra ricambiò il sorriso. «Lo so. Nemmeno io.»
Le loro discussioni finivano sempre così, duravano il tempo di un battito di ciglia e poi tornava il sereno.
Finn riportò l’attenzione al cielo. «È lei che ti ha insegnato questa cosa?»
Nubi ricciolute veleggiavano pigre, dando vita a forme bizzarre. Più a nord, tuttavia, là dove i miasmi venefici della foresta appestavano l’aria, scoloravano in tinte più laide, dal tetro verde rame al viola slavato, un cambiamento che incuteva paura.
«L’ho vista una notte», confermò Astra, rispondendo alla domanda del fratello.
Finn, perso nelle sue fantasticherie, si riscosse. «Cosa?»
«Lei, Melisande, sciocchino!» Aveva pronunciato quel nome in un sussurro, non era prudente farlo ad alta voce. Poteva nascondersi ovunque o aver mandato il suo scagnozzo leccapiedi a sorvegliarli. «L’ho vista una notte che non riuscivo a dormire e mi ero affacciata alla finestra per invocare l’aiuto delle lune-sorelle. È uscita in giardino con indosso una semplice vestaglia, che dopo un attimo ha fatto scivolare ai suoi piedi. È incantevole, Finn, tanto da far invidia alle stelle, ed è questa la sua arma. È così che li ammazza.»
Finn si accorse del tremore che le scuoteva i pugni.
Sapeva come la pensava sua sorella. Astra era ossessionata dall’idea che fosse stata Melisande, la loro perfida matrigna, a uccidere il padre e pertanto conduceva un’esistenza logorata dalla brama di vendetta. Sfortunatamente, le sue erano inefficaci congetture e finché non avesse posseduto prove per inchiodarla non avrebbe potuto imputarle alcuna colpa.
«Continua il tuo racconto», la invitò Finn.
Astra fissò un punto davanti a sé. «Si è avvicinata a una grossa quercia nera, una di quelle che crescono sotto l’influsso dei suoi incantesimi, e ne ha accarezzato le nervature. Hai mai avuto l’impressione che pulsassero? Come le vene di quei filibustieri che si intrattengono alla locanda di Eudora. Ripugnante.» Fece una pausa, quindi riprese: «Comunque, non è questo il punto. Il punto è che ha staccato alcune foglie e ne ha inspirato l’odore, dopodiché ha mormorato qualcosa che non ho afferrato e le ha affidate al vento. Ne ha seguito l’ascesa con occhi scrutatori e poi ha ostentato un sorriso appagato, come se le avessero consegnato la risposta a un dilemma importante.»
Era un episodio avvincente e Astra era un’abilissima oratrice, ma Finn non trovava un nesso con ciò che li teneva impegnati in quel momento. «E questo spiegherebbe il motivo per cui ce ne stiamo qui impalati ad aspettare il nulla?»
Astra fu pronta a chiarire, impettita: «Sicomanzia.»
«Oh, ma certo, come no!» Finn si beccò una gomitata. «Ahi! Ma che ti prende?»
«Non dovresti sottovalutare il potere della magia», disse Astra, burbera. «È un’arte antica, nobile e prodigiosa, e come tale bisogna onorarla.»
«E da quando ti interessa così tanto?»
Un tenue rossore irrorò le gote della ragazza. «Be’, da quando ho scoperto che potrebbe aiutarci a liberarci di quella vecchia megera.»
A quella affermazione, proferita in tono tanto solenne, Finn si incupì.
Un alito di vento soffiò leggero sui loro visi, le chiome d’argento degli alberi sussultarono.
«Cos’è che farebbe questa sicomanzia?» domandò dopo un po’, dissipando il silenzio.
Astra conosceva l’argomento come le sue tasche, perché era solita prendere appunti mentre prestava assistenza alla sua matrigna, durante le sessioni di esercitazione e pratica alchemiche.
Studiava attentamente ogni passaggio, ogni delicato e macchinoso processo di conversione, ideazione e annullamento, memorizzando la nomenclatura degli ingredienti che venivano impiegati nell’elaborazione di una pozione, di un filtro o di una formula, metabolizzandone a fondo le caratteristiche principali e gli effetti.
Lo faceva per imparare, perché un giorno avrebbe presentato la sua candidatura come ingegnere alchimista presso la Corte Imperiale e avrebbe risollevato finalmente le sue miserabili sorti. Avrebbe portato anche Finn con sé e lo avrebbe reclutato come suo personale e fidato braccio destro.
«Divinazione delle foglie», spiegò, quando ebbe riordinato le idee. «È una dottrina fiorita nelle regioni del Sole d’Oriente, in quel fortunato angolo di mondo dove la natura cresce prosperosa e dal suolo non proviene che abbondante e fertile humus. Il resto della civiltà l’ha conosciuta solo a seguito della prima ondata colonizzatrice, un paio di secoli fa, ottenendo un notevole successo tra negromanti e alchimisti.»
Gli occhi di Finn parvero farsi più grandi. «Prima di Steamwood?»
«Molto, molto tempo prima.»
«Ma come potrebbe una foglia predire il futuro?»
Astra soffermò lo sguardo sull’ambiente che li circondava, focolaio di stranezze e anomalie nelle quali risiedeva un’unicità speciale. Irripetibile. «È questa la magia. Non importa che tu sappia come accade ma soltanto che tu ci creda.»
«Anche se dovesse rivelarsi tutta un’illusione», si frappose una voce.
I ragazzi sobbalzarono e Astra estrasse in un sol gesto il coltello a serramanico custodito in una fodera appesa alla cintola. Finn si armò della prima cosa che gli capitò nelle vicinanze, una pietra dal taglio irregolare ma appuntita abbastanza da infliggere brutte ferite.
«Vieni fuori!» gridò la ragazza con voce ferma. «Vieni fuori o giuro che ti taglio la gola.»
«Quale affettuosa accoglienza», rispose la voce in una cantilena che ad Astra suonò familiare.
Una sagoma si staccò letteralmente dalla corteccia di un alto acero che si innalzava imperioso proprio davanti a loro. Usare la mimesi era illegale quasi quanto l’evasione o l’ammutinamento e contravvenire al decreto poteva procurare un mucchio di problemi – come rimpinguare le celle delle Torri Carcerarie – eppure esisteva e resisteva una minoranza che osava sfidare le autorità.
«Roderick!» esclamò Finn. «Tu e le tue burle! Ti piace così tanto andare a spaventare la gente?»
Un goblin alto poco più di mezzo metro squadrava i due fratelli con un sorriso spavaldo sul volto. Indossava una giubba lacera dalla quale spuntava un petto ossuto e squamoso, pantaloni stracciati ornati di pendagli – anelli perlopiù, di varie dimensioni – e un ridicolo cappello da giullare sul capo. La pelle brillava di sfumature variopinte, rese ancora più vivide dalle macchie di fuliggine sparse su faccia, braccia e gambe, e assomigliava per densità a quella di un rettile.
«Deformazione professionale.» Con un agile salto li raggiunse e con altrettanta alacrità strappò ad Astra il coltello. «Che vuoi farci con questo? Sventrare, affettare, sgozzare?»
Ridacchiò – la sua era un’ironia drammatica e grottesca che non molti comprendevano – e cominciò a leccare la lama con la lingua crostosa. Il metallo era un elemento urticante per alcune creature sovrannaturali di Steamwood; laddove avveniva il contatto si levò un fumo sfrigolante.
Sebbene avesse assistito più e più volte alle eccentriche abitudini del goblin, Astra non riusciva ancora a restarne indifferente. Finn, dal canto suo, disponeva di un animo più mascolino e, pertanto, imperturbabile.
Sul mento della creatura gocciolarono rivoli di sangue scuro. Roderick interruppe il macabro passatempo e riconsegnò il coltello alla ragazza.
La lama era viscida e collosa, e lei non osò toccarla. La saliva di un goblin poteva essere ancor più velenosa delle esalazioni che contagiavano il terreno della foresta. Astra lo rinfoderò con cautela e pregò che il liquido non trapassasse la pelle della custodia.
«Allora», disse l’essere, sedendosi a gambe incrociate su una radice, «l’arpia è morta?»
Era così che si riferiva a Melisande, affibbiandole epiteti non troppo cortesi. Un piacere con cui si trastullava spesso, in parte dettato dall’indole briccona e in parte dal sentimento di solidale amicizia che riservava ai ragazzi.
«Se lo fosse saremmo ancora qui a struggerci?» ribatté Finn, stiracchiando i muscoli intorpiditi.
«E cosa posso saperne io? Magari celebravate la sua disfatta. Più che ragionevole, direi, ma visto che così non è… se mi permettete, avrei qualcosa da confidarvi.» Roderick ridusse il tono a un volume cospiratorio e si sporse in avanti. Le scaglie sul busto e sulla schiena cigolarono come se l’intera epidermide fosse fatta di un materiale artificiale. «Il vostro indulgere si sta trasformando in un grosso impiccio. Proprio un grosso impiccio. Non vi starete mica ritirando dai giochi?»
«Niente affatto!» esclamò Astra. «Ma abbiamo bisogno di più tempo.»
«Bubbole», disapprovò il goblin.
La ragazza eluse il rimprovero e sfoderò la sua espressione più adulta e severa. «La pozione a cui sto lavorando è una delle più potenti, ma necessita di una preparazione lunga e certosina. Non è mai una passeggiata sgattaiolare nel laboratorio di Melisande per rubarle gli ingredienti senza che se ne accorga e mi tramuti in uno dei suoi orripilanti gingilli meccanici.»
«Giusto», concordò Finn. «La vecchia pazza è sempre nei paraggi, o comunque lo è quella piattola della sua chimera. Noi ce la stiamo mettendo tutta.»
Roderick soppesò le parole torchiando con i polpastrelli locuste e scarafaggi intenti a zampettare nell’erba incolore e facendone uno spuntino succulento. «Capisco. Tuttavia non avete preso in considerazione la via alternativa.»
Astra e Finn si scambiarono un’occhiata smarrita. «Via alternativa?» ripeterono all’unisono.
«Fuga», dichiarò Roderick con un ampio sorriso. «Nei sotterranei della Grande Miniera.»
«Un suicidio», puntualizzò Astra, caustica.
«O una salvezza», ribatté il goblin. «Io e miei compagni potremmo scavare un sentiero che sbuchi dalla parte opposta della foresta, dritto sulle Terre Consacrate.»
Finn ebbe un sussulto. «Intendi dire al Cenobio? Vuoi spedirci ad ammuffire in quella gabbia di matti scriteriati? Gli scarafaggi devono averti mangiato il cervello, se pure ne possiedi uno.»
Sapeva di avergli scagliato addosso parole irriguardose ma non era riuscito a frenarsi. Il pensiero di un soggiorno in quelle lande di cui tanto si vociferava e dalle quali la gente si teneva alla larga gli aveva stretto il cuore in una morsa di terrore, privandolo di tutto l’autocontrollo.
Le Terre Consacrate appartenevano a una confraternita di fanatici religiosi chiamati Monaci Devoti, per via del loro assoluto e ossessivo asservimento al Narratante, figura misteriosa di cui poco si sapeva. La loro abbazia, il Cenobio, era edificata in un luogo inaccessibile, oltre il suo versante occidentale, oltre le miniere e la Gola Ghiacciata, avamposto militare della grande e possente Anja, Regina delle Nevi. Soltanto coloro che intendevano giurare perpetua fedeltà al Narratante venivano accolti tra le sue mura; tuttavia le saghe popolari narravano di un’esistenza scandita da truci rituali pagani, vizi e dissolutezza. E a subirne le conseguenze peggiori, quasi sempre la ragione.
Astra posò una mano sulla spalla del fratello nel tentativo di rasserenarlo. «Finn non ha tutti i torti. Chi ci è entrato non ha più fatto ritorno, e chi lo ha fatto non era sufficientemente in sé per parlarne.»
Roderick si diede una sistemata al gilè e indirizzò a entrambi un’occhiata sostenuta. «Non insisto, ma vi suggerisco di rifletterci. Domandare asilo ai Monaci Devoti metterebbe al sicuro la vostra incolumità e si tratterebbe in ogni caso di una permanenza temporanea.»
«Sono esseri sinistri e immorali», perseverò Astra con voce funerea. «E poi cosa dovremmo fare? Attendere che la morte venga a bussare alle porte di Melisande per trascinarla all’altro mondo?» Le mascelle si contrassero. «Voglio assicurarmi che soffra come e quanto abbiamo sofferto noi in tutti questi anni. Voglio impartirle la punizione che merita.»
«Ed è ciò che avrà», convenne il goblin, «se solo provaste a fidarvi di me. Saranno trascorse cinque Stagioni dell’Insomnia da quando provo a convincervi.»
I due fratelli erano sul punto di controbattere quando il rapido cambio d’espressione del loro amico convogliò tutta la loro attenzione.
Finn fu il primo ad allarmarsi. Gli afferrò le spalle segaligne. «Rod, che succede?»
«Rod, di’ qualcosa, avanti!» si unì Astra.
Un balbettio confuso uscì dalle labbra della creatura. «Sta arrivando.» Aveva le pupille dilatate fisse nel vuoto.
«Chi?» chiese Finn.
«Sa dove siete. Ha scoperto il vostro rifugio. Dovete andare via da qui.»
Aveva parlato in maniera tanto frettolosa che faticarono a capirlo. Lo videro sfilarsi il cappello esibendo un cranio calvo e lucente al centro del quale spiccava una rosea protuberanza.
Il suo terzo occhio.
Vi era incastonato come un minerale nelle cavità della roccia e risplendeva di una luce opalescente. Funzionava alla pari di un normale organo sensoriale e anzi costituiva un prezioso potenziale. Secondo gli antichi culti, chi lo possedeva godeva di una vista lungimirante, assai più sensibile e intelligente, e qualche volta addirittura profetica. Certo, non funzionava a dovere come la psiche di chi il dono lo possedeva per natura, ma le visioni sapevano rivelarsi allo stesso modo preziose. Un vantaggio che poteva essere una benedizione e una maledizione insieme.
Nonostante la virtù che ne derivava, Roderick finiva di frequente al centro di volgari sberleffi e così privilegiava camuffarne la presenza indossando balzani copricapo. Un’ingiustizia alla quale non era ancora riuscito a porre rimedio.
Qualcosa nel clima mutò. I due fratelli osservarono il cielo e si accorsero che le nuvole avevano preso a ispessirsi e ad assecondare un’andatura vorticosa. Folate di vento sibilanti sferzarono i rami ferrosi e si fece come notte.
Astra mantenne i nervi saldi. «Cosa vedi, Rod?»
Il goblin restò inerte per quella che sembrò un’eternità, mentre il terzo occhio perlustrava l’ambiente, frenetico, generando un sordo brusio metallico. Poi Roderick si ricompose e fissò i ragazzi con cipiglio austero. «Non c’è più tempo. Melisande viene a prendervi.»