Il violino dell’impiccato

2219 Words
Il violino dell’impiccato Karl Hâfitz aveva trascorso sei anni sulla tecnica del contrappunto; aveva studiato Haydn, Gluck, Mozart, Beethoven, Rossini; godeva di buona salute e di una piccola fortuna che gli consentiva di inseguire la sua vocazione artistica; in una parola, possedeva tutto ciò che occorre per comporre grande e bella musica, tranne una cosuccia indispensabile: l’ispirazione. Ogni giorno, rinnovato da un nobile ardore, portava al suo degno maestro Albertus Kilian lunghi spartiti traboccanti di armonia, ma nei quali ogni nota ricordava Pierre, Jacques, Christophe. Il maestro Albertus, seduto nella sua grossa poltrona, i piedi appoggiati sull’alare, il gomito sullo spigolo del tavolo, intento a fumare la pipa, si impegnava a depennare l’una dopo l’altra le singolari scoperte fatte dal suo allievo. Karl piangeva dalla rabbia, si irritava, contestava; ma il vecchio maestro apriva con tranquillità uno dei suoi numerosi quaderni e, il dito sul brano, diceva: «Guarda, ragazzo!» Allora Karl abbassava la testa e perdeva ogni speranza per il suo avvenire. Ma un bel mattino che ebbe presentato al maestro Albertus, sotto suo nome una fantasia di Boccherini variata da Viotti, il tizio sino ad allora impassibile si arrabbiò. «Karl» gridò «mi prendi forse per un asino? Credi che io non mi accorga dei tuoi indegni latrocini? Questo è veramente troppo!» E vedendolo costernato per la sua apostrofe: «Ascolta» gli disse «voglio anche ammettere che la tua memoria ti giochi dei brutti tiri, e che tu consideri i tuoi ricordi come invenzioni, ma stai diventando decisamente troppo grasso, bevi troppo vino, un’infinità di boccali. È questo che blocca le vie della tua intelligenza. Devi dimagrire!» «Dimagrire?» «Sì! Oppure rinunciare alla musica. L’intelletto non ti manca, ma le idee sì; il discorso è semplice: se passi la vita a rivestire di grasso le corde del tuo violino, come faranno queste a vibrare?» Alle parole del maestro Albertus, Hâfitz ebbe un’illuminazione: «Pur di rinnovarmi spiritualmente, sono pronto a fare qualsiasi sacrificio. Poiché la mia anima è schiava dei piaceri terreni, dimagrirò». In quel momento la sua fisionomia sprizzava talmente tanto eroismo che il maestro Albertus ne fu profondamente colpito; abbracciò il suo caro allievo e gli augurò buona fortuna. Il giorno dopo Karl Hâfitz, zaino in spalla e bastone alla mano, lasciò l’albergo dei Tre Piccioni e l’osteria del Re Gambrinus per intraprendere un lungo viaggio. Purtroppo, nonostante la sua pinguedine fosse diminuita in capo a sei settimane, l’ispirazione comunque non arrivava. Si può essere più sfortunati di me? diceva tra sé e sé. Né il digiuno, né la buona tavola, né l’acqua, né il vino, né la birra possono innalzare il mio spirito al diapason del sublime. Cosa ho fatto per meritare una così triste sorte? Mentre una sfilza di ignoranti produce opere rimarchevoli, io, con tutto il mio intelletto, il mio lavoro, il mio coraggio, non riesco in niente! Ah! Il cielo non è giusto, no, non è affatto giusto! Così ragionando, proseguiva per la strada che portava da Bruck a Friburgo; la notte si approssimava, si trascinava sui piedi ed egli si sentiva venire meno per la stanchezza. In quel momento scorse, al chiaro di luna, alle spalle del sentiero e nascosta dalla vegetazione, una vecchia stamberga, il tetto rampante, la porta scardinata, le finestrelle rotte, il comignolo ridotto a un rudere. Ortiche e rovi si levavano tutt’intorno, e l’abbaino del timpano dominava a stento sulle brughiere dell’altopiano, dove soffiava un vento talmente forte da far volare via le corna ai buoi. Allo stesso tempo Karl scorse, attraverso la foschia, il ramo di un abete che sbatteva contro la porta. Forza si disse la locanda non è bella, anzi è un po’ sinistra, ma le cose non si giudicano dall’apparenza. E, senza esitare, bussò alla porta con il bastone. «Chi va là? Cosa volete?» fece una voce rozza dall’interno. «Un riparo e un po’ di pane». «Ah! Ah! Bene… bene!» La porta si aprì bruscamente, e Karl si vide in presenza di un uomo robusto, il viso squadrato, gli occhi grigi, le spalle coperte da una guarnacca bucata ai gomiti, una scure in mano. Dietro quel personaggio ardeva il calore del focolare a illuminare l’ingresso di un sottoscala, i gradini di una scala di legno, le pareti decrepite e, accanto al fuoco, era accovacciata una giovinetta pallida, vestita con un misero abito di cotone scuro a puntini bianchi. Guardava spaventata verso la porta; gli occhi neri avevano un’indefinibile espressione triste e smarrita. Karl vide tutta la scena con un colpo d’occhio, e strinse istintivamente il bastone. «Ebbene! Entrate dunque» disse l’uomo «il tempo non consente di starsene fuori». Allora, pensando che sarebbe stato inopportuno mostrarsi spaventato, avanzò al centro di quella catapecchia e prese posto su uno sgabello davanti al focolare. «Consegnatemi il bastone e lo zaino» disse l’uomo. Di colpo, l’allievo del maestro Albertus raggelò fino al midollo; ma prima di rinvenire dalla sorpresa, lo zaino era stato aperto, il bastone era stato posizionato in un angolo, e l’oste si era seduto tranquillamente accanto al focolare. Le circostanze gli fecero ritornare un po’ di calma. «Herr Wirth1» disse sorridendo «non mi dispiacerebbe cenare». «Cosa desidera vossignoria da mangiare?» «Una frittata con il lardo, una brocca di vino, un po’ di formaggio». «Ah! Ah! Ah! Vossignoria è di ottimo appetito… ma le nostre provviste sono terminate». «Non avete un po’ di formaggio?» «No». «Neanche burro, pane, o latte?» «No». «Ma, buon Dio! Cosa vi è rimasto allora?» «Patate cotte sotto la cenere». Nello stesso istante Karl scorse nell’ombra, sui gradini della scala, un esercito di galline: bianche, nere, rosse, appisolate, alcune con la testa sotto l’ala, altre con il collo affondato nelle spalle; ce n’era persino una grande, rinsecchita, magra, sconvolta, che si lisciava e si spennava con noncuranza. «Ma» disse Hâfitz con la mano stesa «devono pur esserci delle uova!» «Le abbiamo portate stamani al mercato di Bruck». «Oh! Ma allora, costi quel che costi, preparate una gallina allo spiedo!» Non appena ebbe pronunciato queste parole la ragazza pallida, dai capelli radi, si lanciò davanti alle scale, gridando: «Non toccate le mie galline… non toccate le mie galline… Ehi! Ehi! Ehi! Lasciate vivere queste creature di Dio!» L’aspetto di quella infelice creatura nascondeva qualcosa di così terribile che Hâfitz si affrettò a rispondere: «No, no, non uccideremo le galline. Opterò per le patate. Mangerò solo quelle, d’ora in poi. Finalmente, la mia vocazione si è delineata chiaramente. Rimarrò qui per tre mesi, anche sei, tutto il tempo necessario per diventare magro come un fachiro!» Esprimendosi con particolare fervore, l’oste gridò alla pallida giovinetta: «Génovéva! Génovéva! È posseduto dallo spirito… proprio come l’altro!» Fuori la tramontana incalzava; il fuoco turbinava nel camino formando delle nuvole di fumo grigiastro che si innalzavano sino al soffitto. Le galline, al riflesso della fiamma, sembravano danzare sulle assi di legno della scala, mentre quella matta cantava con voce acuta una vecchia arietta bizzarra, e il ceppo di legno verde, che piangeva in mezzo alle fiamme, la accompagnava con sospiri lamentosi. Hâfitz capì di essere capitato nella tana dello stregone Hecker; divorò una dozzina di patate, sollevò l’enorme brocca rossa piena d’acqua e bevve a gran sorsi. Allora il suo animo riacquistò la calma; si accorse che la ragazza se ne era andata e che il tizio era rimasto solo davanti al focolare. «Herr Wirth» riprese «mostratemi la mia stanza». Il locandiere, dopo aver acceso una lampada, salì lentamente su per la scala tarlata, sollevò una pesante botola sopra la sua testa grigia e condusse Karl in soffitta, sotto la paglia. «Ecco il vostro letto» disse, appoggiando la lampada a terra «dormite bene, ma soprattutto fate attenzione al fuoco!» Poi scese, e Hâfitz rimase da solo, le reni piegate, davanti a un grande pagliericcio ricoperto con un grosso sacco di piume. Rimase assorto per qualche istante, e si chiese se sarebbe stato prudente dormire lì, visto che la fisionomia del vecchio gli sembrava alquanto sinistra, e ripensando ai suoi occhi grigio chiaro, alla bocca bluastra contornata da profonde rughe, alla fronte spaziosa, ossuta, all’incarnato giallo, all’improvviso si ricordò che sulla Golgenberg si trovavano tre impiccati, e uno di loro aveva una strana somiglianza con il suo albergatore… anche quest’ultimo aveva gli occhi infossati, i gomiti bucati, e l’alluce del piede sinistro sporgeva dalla scarpa bucata dalla pioggia. Si ricordò inoltre che quello sciagurato, di nome Melchior, in passato aveva composto della musica, ed era stato impiccato per aver ammazzato con la sua brocca il locandiere del Vello d’oro, che gli chiese di fargli risparmiare uno scudo. Un tempo la musica di questo povero diavolo lo aveva profondamente commosso. Era fantastica, e l’allievo del maestro Albertus invidiava il boemo; ma in quel momento, rivedendo l’immagine della forca, gli stracci agitati dal vento della notte e i corvi schiamazzanti che volavano tutt’intorno, si sentì rabbrividire; la sua paura aumentò quando scoprì, in fondo al soppalco, appoggiato al muro, un violino sormontato da due palme avvizzite. Avrebbe voluto scappare, ma in quello stesso istante la voce rozza dell’albergatore gli risuonò nelle orecchie: «Spegnete la luce!» gridò. «Mettetevi a dormire, fate solo attenzione con il fuoco!» Queste parole fecero raggelare Karl che, dallo spavento, si allungò sul grosso pagliericcio e soffiò sopra la fiamma per spegnerla. Tutto fu avvolto dal silenzio. Ora, nonostante fosse deciso a non chiudere occhio, a forza di sentire il vento gemere, gli uccelli notturni richiamarsi nelle tenebre e i topi rincorrersi sul pavimento tarlato, verso l’una del mattino Hâfitz dormiva profondamente, ma un singhiozzo amaro, struggente, doloroso, lo fece svegliare di soprassalto. Il viso gli si imperlò di sudore freddo. Diede un’occhiata e, nell’angolo, vide un uomo accovacciato: era Melchior l’impiccato! I capelli neri gli ricadevano sulle spalle scarne, aveva il petto e il collo nudi. Era talmente magro che sembrava l’enorme scheletro di una cavalletta: un raggio di luna, filtrando attraverso il piccolo lucernario, lo illuminava lievemente di una luce bluastra e tutt’intorno pendevano lunghe ragnatele. Hâfitz, muto, gli occhi spalancati, la bocca aperta, osservava quello strano essere come quando si guarda in faccia la morte ai piedi del letto, quando l’ultima ora è ormai vicina. All’improvviso lo scheletro allungò la lunga mano rinsecchita per afferrare il violino appeso al muro; se lo appoggiò sulla spalla poi, dopo un attimo di silenzio, iniziò a suonare. Nella musica che produceva c’erano note funeree come il rumore della terra gettata sulla bara di un caro estinto, solenni come lo scroscio dei fulmini ampliato dall’eco della montagna, maestose come le sferzate del vento autunnale nelle foreste fruscianti, e talvolta tristi… tristi come l’incurabile disperazione! In seguito, in mezzo a tali singhiozzi, risuonò un canto leggero, soave, argentino, come un nugolo di cardellini felici che volteggiavano sui cespugli in fiore. Questi graziosi trilli turbinavano di un ineffabile fremito di spensieratezza e di felicità, per poi sparire all’improvviso intimoriti dal valzer folle, palpitante, smarrito: amore, gioia, disperazione, tutto cantava, tutto piangeva, tutto si rincorreva alla rinfusa sotto l’archetto vibrante! E Karl, nonostante l’inenarrabile spavento, allungò il braccio e gridò: «Oh grande… grande… grande artista! Oh genio sublime! Oh! Vi compatisco per il vostro triste destino… Essere impiccato per avere ucciso quel bruto di un locandiere che non conosceva neanche una nota musicale… Errare nei boschi al chiaro di luna… senza avere più un corpo ma un grande talento… Oh! Dio!» Non appena ebbe così esclamato, la rozza voce del locandiere lo interruppe: «Ehi! Lassù, vi decidete a stare zitto? Siete impazzito, oppure la casa sta andando in fiamme?» Pesanti passi fecero scricchiolare la scala di legno, una luce intensa illuminò le fessure della porta, che il locandiere aprì con una spallata. «Ah! Herr Wirth» gridò Hâfitz «Herr Wirth, cosa sta succedendo qui dentro? Prima vengo svegliato da una musica celestiale che mi rapisce nelle sfere dell’invisibile, poi ecco che tutto svanisce come un sogno». Il viso dell’oste assunse d’improvviso un’espressione meditabonda. «Sì, sì» mormorò assorto «avrei dovuto sospettarlo… Melchior è venuto nuovamente a turbare il nostro sonno… Ritornerà per sempre! Adesso il sonno è perduto; è inutile pensare di riaddormentarsi. Forza, compagno, alzatevi. Venite a fumare una pipa con me». Karl non si fece pregare, non vedeva l’ora di uscire di lì. Ma quando fu di sotto, vedendo che era ancora notte fonda, la testa tra le mani, i gomiti sulle ginocchia, rimase a lungo sprofondato in un baratro di meditazioni dolorose. L’oste venne a riaccendere il fuoco; aveva ripreso posto sulla sedia sfondata all’angolo del focolare, e si mise a fumare in silenzio. Sbirciò dalle finestrelle smorte e infine vide spuntare il giorno grigiastro; poi il gallo cantò, e le galline presero a saltellare sugli scalini. «Quanto vi devo?» chiese Karl mettendosi lo zaino in spalla e prendendo il bastone. «Mi dovete solo una preghiera alla cappella dell’abbazia Saint-Blaise» disse l’uomo con uno strano tono di voce, «una preghiera per l’anima di mio figlio Melchior, l’impiccato… e un’altra per la sua fidanzata: Génovéva la matta!» «È tutto?» «È tutto». «Allora, addio; non lo dimenticherò.» Infatti, la prima cosa che fece Karl arrivato a Friburgo, fu di andare a pregare Dio per il povero boemo e per colei che aveva amato. Poi entrò a casa da mastro Kilian, il locandiere del Grappolo, srotolò lo spartito sul tavolo e, dopo essersi fatto portare una bottiglia di rikevir, scrisse in cima alla prima pagina: «Il violino dell’impiccato» e compose, seduta stante, la sua prima partitura davvero originale!
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