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2071 Words
I Ritorno a casa Mi incamminai da Rieti alle sette del mattino di un sabato di fine giugno. Da quanto mi ricordo, doveva essere la prima o seconda giornata di vero caldo estivo dell’anno, per la gioia di tutti quegli operai che sarebbero cotti al sole lavorando al futuro centro commerciale che stava sorgendo davanti al mio appartamento. Con me avevo solo due grosse valigie nel bagagliaio dell’auto e Billy stravaccato sui sedili posteriori, tutto preso dal suo osso che gli avevo regalato il giorno prima. Golden Retriever della famiglia dei Labrador, pelo di media lunghezza color avorio con striature nocciola, lunga coda ispida che inconsapevolmente spazzolava via tutto ad ogni movimento, dalla polvere per terra ai bicchieri sui tavolini: era il mio compagno di viaggio, migliore amico, da circa due anni ormai, da quando cioè mi ero convinto che passare da solo il resto dei miei giorni in fondo non valeva la pena. Da quel pomeriggio di agosto la mia vita è cambiata, in meglio, sotto tutti i punti di vista, ma andate a chiedere ai miei vicini, se per caso sono del mio stesso avviso; la signora che divide con me il piano, per esempio, praticamente non mi saluta quasi più. “Contento che lasciamo la città, musone?” Non mi vergogno a dire che sono uno di quelli che si intrattengono anche delle ore a parlare col proprio animale, il più delle volte solo per il gusto di farlo. Non è per mancanza di affetto umano, ma perché credo che aiuti. Non c’è differenza tra una persona e un animale. Anzi, nel caso di quest’ultimi, loro ti ascoltano, o così ti sembra, ma in compenso non ti giudicano, non trattengono dei sorrisi di superiorità, ti vogliono bene a prescindere. “Ricordi Orsara, dove sono cresciuto?” Alzò gli occhi su di me, si leccò i baffi e tornò ad azzannare l’osso. Non sapevo se il posto lo ricordasse – l’ultima volta era stata una velocissima toccata e fuga in un lontano week end autunnale quando era ancora un batuffolo di pelo – ma ero fiducioso che gli piacesse. Avrebbe goduto di tutto quello spazio che la mia pedante preoccupazione perenne gli aveva impedito di apprezzare a Rieti, vuoi per il traffico, vuoi per le lamentele di vicini e anziani. Per quanto però? A quella domanda non avevo risposte. Né volevo trovarle così su due piedi. La mia mente era interamente occupata dalla visione della vecchia casa in cui ero nato e che mi stava aspettando. Già pregustavo il silenzio ovattato che circondava quelle mura, il caldo soffocante dell’estate che saliva dalla terra e l’odore di campagna al primo sbuffo di vento. Ma perché avevo deciso di ritornare? Non avevo un’idea certa allora, solo ora lo capisco. Vedete, Rieti era la mia città, la conoscevo ormai quasi a menadito e l’adoravo, in tutto e per tutto. Ma… Ma non era più solo la mia città. Condividevo questo possesso con minimo altre cinquantamila persone, forse dopo tanti anni non la sentivo più mia e basta. Difficile spiegarmi meglio, ma qualcosa era cambiato dopo la morte dei miei genitori. Nostalgia. Nostalgia verso il proprio passato. Arriva un momento prima o poi in cui ci sentiamo scossi da qualcosa che proviene da dentro e da lontano. Ci porta a guardarci indietro e a chiederci chi siamo diventati, oppure chi eravamo. Io il mio passato lo avevo abbandonato da adolescente, in condizioni tragiche, senza poterci fare nulla. Ecco, questo al momento mi sembrava l’unico consistente motivo del mio repentino ritorno. Ma solo oggi dico che non fu l’unico. Pensai ad Orsara. Era in qualche modo cambiato il minuscolo paesino dove ero cresciuto? Non tanto nell’aspetto esteriore, se così posso dire, morfologico e geografico. Ma proprio nella gente del luogo. Ci avevo rimuginato su anche la notte prima e avevo faticato a prendere sonno. E se fossi tornato ad abitare in un luogo che non riconoscevo più? O se fosse proprio la gente del posto a non riconoscermi più? Dopotutto non ero più il ragazzo di un tempo, molte delle persone che conoscevo e mi conoscevano erano morte, e non avevo la certezza che i miei vecchi amici non avessero intrapreso la mia stessa via migratoria. Cosa c’era ad aspettarmi? Mi si annodarono un po’ le viscere nello stomaco, mentre guidavo. Scacciai quei pensieri abbassando il finestrino e respirando l’odore del vento che mi accarezzava i capelli. Poco più avanti adocchiai un’area di sosta. Mi sgranchii le gambe e lasciai che Billy marcasse il territorio, poi riprendemmo velocemente il cammino. Orsara Bormida è un paesino di circa quattrocento abitanti, in piena campagna, adagiato su una collina alla cui sommità sorge un bellissimo castello di origine medioevale. Siamo in Piemonte e la zona è quella dell’Alto Monferrato, tra Acqui Terme e Ovada. Su di me ha sempre esercitato un certo fascino, nonostante la maggior parte dei miei coetanei di allora fosse in totale disaccordo; paese minuscolo, zero svago e via dicendo. A me invece piaceva. Ci si respira aria buona, come erano soliti dire i vecchi del paese. Forse non tornavo a casa solo per una breve toccata e fuga, come quelle rare volte del passato. Tornavo con un altro intento, stabilirmi lì per qualche giorno e poi… È una prova, Tom, disse una voce dentro di me. Un esame. Due settimane. Pensala inizialmente come una semplice vacanza estiva, goditi il sole e l’aria buona e lascia che le cose vadano come devono andare. Poi deciderai. Sorrisi e per la prima volta lessi su di un cartello stradale le indicazione verso Orsara Bormida. Il mio stomaco rumoreggiò. Ci siamo. Quella strada d’ora in avanti la conoscevo come le mie tasche, potevo quasi proseguire a occhi chiusi. Dal bivio di Rivalta, la strada verso il mio paese sale impercettibilmente a poco a poco. La vegetazione si ingrossa, sembra quasi stritolarti nella macchina e poi sulla sinistra c’è una vasca d’acqua chiamata la Barina. Transitai e scorsi con la coda dell’occhio un cartello arrugginito che portava la scritta ACQUA NON POTABILE. C’era stato un tempo, ormai quasi in bianco e nero, in cui noi ragazzini ci abbeveravamo da quella fonte, ci schizzavamo d’acqua per giocare, passavamo interi pomeriggi con le caviglie immerse nella vasca, una spiga di grano tra le labbra e la voglia di sorridere ad ogni nostra battuta. Il bosco si diradò ed ero ormai arrivato. Una distesa di pioppi scossi dal vento, le prime case, una porta da calcio, il campo da calcio intero. I ricordi. A destra invece, sul ciglio della strada, due uomini con la pettorina arancio metallizzata erano impegnati in quella che mi pareva essere la pulizia dei fossi. Mi sorpresi nel constatare che avveniva ancora a mano. Mi avvicinai mantenendo i limiti di velocità e i miei occhi riconobbero un viso ormai dimenticato. Era Vittorio, lo spazzino di sempre. Il tuttofare di sempre, come lo chiamavamo noi ragazzi di un tempo. Invecchiato e con un berretto verdastro calcato sulla testa. Fui tentato di fermarmi a salutarlo, invece passai oltre, sorridendo e sentendomi vagamente stordito. Poco più avanti ecco il cartello bianco con sfondo nero, quello che avevo sognato la notte scorsa e quella prima ancora, quello che vedevo ingrandirsi a poco a poco, digrignando i denti per la fatica, al ritorno dai miei durissimi giri in bicicletta. Orsara Bormida. Il paese che da bambino avevo considerato il luogo più felice del mondo. Superai la pesa comunale, zona di incontro di ogni generazione di ragazzi (non era altro che un gabbiotto ricoperto di scritte e graffiti con due panchine) e mi ritrovai in via Roma, la strada più trafficata del paese. Diminuii i giri del motore e accostai appena al di là della striscia bianca che delimitava la carreggiata, sotto il cornicione di una vecchia casa. Spensi la macchina e lasciai le quattro frecce inserite. Rieccomi, pensai, tenendomi stretto al volante. Sto tornando bambino, sono di nuovo un mocciosetto con le ginocchia tutte sbucciate; dov’è la mia bicicletta col cambio sulla canna? Mi sporsi all’indietro tra i due sedili. Il mio cane sonnecchiava annoiato. “Billy, esco un attimo. Vado a salutare un paio di persone. Fai il bravo due minuti, eh.” Come risposta mi guardò con quei suoi enormi occhi color castagna. Okay capo, sembravano dirmi, ma vedi di muoverti. Due palazzi, una trattoria, un alimentare, un negozio da parrucchiera, uno studio dentistico e un’erboristeria. Si poteva affermare che tutta la vita del paese si svolgesse in quella via. Transitai sotto l’insegna blu elettrico con sopra la lettera T, che stava per tabacchino, e respirai un po’ più velocemente prima di entrare nel negozio. I proprietari erano una coppia anziana, Edda e Ilario Montadi, felicemente sposati da più di quarant’anni e detenevano l’alimentare da quando io ero ancora un bambino. Li rammentavo con affetto. Incarnavano la cordialità in persona. Quanti regali avevo ricevuto dalle mani della signora, quante caramelle gommose o figurine di calciatori. Contai tre persone che facevano la spesa nell’alimentare e altrettante in coda al bancone. Mi diressi verso lo scomparto delle bibite (notando che era nel posto di sempre, come ogni cosa si trovava dove mi ricordavo) e presi una confezione di birre da sei, giusto per non andare alla cassa con nulla in mano. Trovai anche una pallina di gomma di quelle che producono delle pernacchie se le schiacci e mi immaginai già la reazione di Billy. Dopo essermi incolonnato dietro a un omone grande e grosso scrutai la proprietaria, quasi trasalendo constatando che tutti quegli anni per lei sembravano quasi non essere trascorsi. Il viso era sì un po’ rugoso, come le crepe su un terreno che ha visto un po’ troppo sole, ma non mi sembrava che avesse perso la vitalità dei giorni migliori. A conferma della mia analisi, i suoi occhi turchesi erano saettanti e vispi. Quando arrivò il mio turno, Edda ispezionò prima la mia roba, poi alzò gli occhi sui miei. Glieli vidi ingrandirsi piano piano e così pure le labbra, che formarono un piccolo cerchio. “Ma guarda che sorpresa!” esclamò con voce squillante. “Tommy! Che piacere vederti!” Sorrisi imbarazzato. Tommy ero stato per lei e Tommy sarei sempre stato, pensai. Ricambiai il saluto e mi sporsi per scoccarle un bacio su entrambe le guance. “Mi ricordo che arrivavi a malapena al bancone! Come stai? Cosa ti porta qui in campagna?” Notai subito che se non era invecchiata troppo nel fisico, gli anni le avevano trasformato la voce da fumatrice in un rauco gracchiare. “Una… piccola vacanza.” “Che bello, sono proprio contenta. Com’è la vita laggiù in città?” “Un po’ caotica rispetto alla campagna, ma si vive bene. Avevo bisogno di un po’ di tranquillità per staccare.” La signora mi mostrò il suo sorriso migliore. Prese di nuovo la mia mano nella sua stringendomela energicamente. Mi chiese velocemente che lavoro facevo, si complimentò per come mi ero fatto grande e dopo controllò le birre che avevo comprato e digitò il prezzo sulla cassa. “Basta così, caro?” “Sì, grazie.” “Sono quattro euro. Quello è per il tuo bambino?” Rimasi interdetto. Posai lo sguardo sul giocattolo rumoroso, accanto alle birre e scrollai la testa. Mi sentii in leggero imbarazzo. “Oh no, in realtà è solo per il mio cane.” Il fatto che non avessi al dito nessuna vera nuziale immagino spiegasse tutto il resto. Edda sorrise e annuì senza aggiungere altro. “Allora buon ritorno, Tommy. Purtroppo al momento come vedi sono un po’ impegnata, ma passa volentieri quando ti capita, se vuoi scambiare quattro chiacchiere.” Mi scansai, lasciando passare il cliente successivo. “Certo, con piacere. Credo che ci rivedremo presto, a panini resisterò solo fino a pranzo.” Mi rispose sorridendo. “Buona giornata.” “Altrettanto, e mi saluti suo marito.” Lei ebbe come un piccolo scatto della testa. Mi guardò e sembrava che non avesse improvvisamente più fiato per parlarmi. Realizzai in quel momento come stavano in realtà le cose. Al tempo in cui io ero un ragazzino i due proprietari erano già persone avanti con l’età e avrei dovuto prevedere ancor prima di entrare che le cose potevano essere cambiate in tutti quegli anni. Così era infatti. Lo sguardo di lei si perse per un attimo nel vuoto, e temetti che la confezione di grissini che teneva in mano le sfuggisse e cadesse per terra.
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