Juanito Flores-1

2000 Words
Juanito Flores Aprile 1975 Sono convinto che fra un pò dormiranno tutti. Intorno a me vedo tanti volti stanchi, tanti sguardi disperati, tanti corpi pesantemente abbandonati sui sedili, in attesa di un qualsiasi spazio di tempo per dimenticare, ad occhi chiusi, sprofondati nel sonno che separa dalla Vita e dalle estreme delusioni. Quando siamo partiti da Fiumicino era tutta un’altra cosa, c’era un entusiasmo anche troppo esagerato; risate, battute, conversazioni da tutte le parti. Per me è vero il contrario. Sono partito spento, ad occhi chiusi, e ora torno con gli occhi spalancati, cuore e cervello che vanno a mille; più o meno come questo vecchio DC8 appena decollato, in rotta per le sue prossime diciotto ore di volo, carico al massimo della sua portata. All’aeroporto di Manila mi hanno lasciato tenere lo strano banjo che ho comprato a Baguio. Ha la cassa armonica della stessa forma dei nostri classici mandolini, ma la cordatura sembra fatta con una logica musicale incomprensibile, almeno per me. Se faccio piano dovrei riuscire a non disturbare nessuno. Più tardi cercherò di dargli un’accordatura in la. Ha cinque coppie di corde molto vicine l’una all’altra, mischiate con tre corde singole piazzate senza un’apparente regola, la più grossa al primo posto, la seconda al terzo e l’altra al penultimo. Questo rebus musicale mi farà compagnia insieme al diario, visto che sono sicuro di non dormire, neanche dieci minuti. Lo so, sarà come è stato a Dagupan e poi a Manila. Posso dormire solo di giorno. Il risveglio, nella stessa giornata del sonno, non può cambiare nulla, non posso perdere ciò che ho conquistato. Quando invece c’è di mezzo la notte e il passaggio da una data all’altra è diverso. Ad ogni giorno nuovo c’è sempre il rischio di dover ricominciare tutto da capo. Non ho paura di cedere al sonno, sono intimamente convinto che riuscirò a portare tutto a Roma, tutto il bagaglio che ho addosso, che mi sento dentro. Davanti a me il ciuffo dei capelli ispidi di Alessio spunta perentorio dalla sommità del sedile dove è sprofondato il suo corpo di dodicenne altissimo e gonfio per il cortisone. Non riesco a togliermi dagli occhi la faccia che ha fatto quando Flores ha parlato di tumore delle ossa con il padre. Sicuramente dorme, altrimenti starebbe girato verso di me a raccontarmi della sua Pallacanestro. Mi ha fatto una piccola smorfia prima di allacciarsi la cintura, nient’altro. Un decollo ben eseguito, lineare, senza strappi o esitazioni. La sensazione di essere in aria mi fa sentire ancora più leggero; come se non bastasse, per questo, tutto ciò che ha già fatto Juanito. Ho ancora sete, questi sono stati quindici giorni di sete aspra e continua. Per fortuna sono riuscito a bere soltanto acqua, se mi fossi riempito di bibite dolci e gassate sarebbe stato molto peggio, e poi non potevo mica bagnarmi la faccia con la coca cola o con l’aranciata! Qui dentro l’aria condizionata è fin troppo forte, non avrò certo bisogno di rinfrescarmi e forse anche la sete calerà. Manila-Bangkok, Bangkok-Karachi, Karachi-Roma, Roma-Montegiorgio. Se terminerò il diario di queste due settimane qui in aereo tornerò a casa più tranquillo, in fondo si tratta soltanto di raccontare un paio di dozzine di giorni e poco più. Sì, poco più di questo. Non è vero. Come mi sembra lontana quella trasmissione alla radio, “Chiamate Roma 3131”, la voce di Corrado Guerzoni è molto suggestiva, la sento ancora nella testa; la misura e l’acutezza della sua intelligenza sono state fondamentali per la mia decisione di partire. Se avesse trattato l’argomento in modo diverso probabilmente adesso non mi troverei dentro questo aereo. Lui, il Dott. Forte di Milano e Roberto, il liutaio di Bologna, sono stati i miei maestri di saggezza per questa folle avventura. Nessuno di loro ha mai parlato di miracoli, né di poteri paranormali. Questo diario sarà probabilmente l’unico luogo, l’unica occasione, per raccontare la mia verità, quella verità che speravo di incontrare e che in effetti ho trovato. Agli altri, a tutti gli altri, compresi i miei genitori, dovrò concedere una recita paziente, una finzione necessaria, partecipando alle discussioni su muscoli, equilibrio, ematomielia e quant’altro. Dovrò essere fermo e tenace nel mantenermi sempre vicino alla mia verità, sarò circondato da sguardi e pensieri di tutti i tipi, che però non dovranno contaminarmi. Né la pietà, né il cinismo, e nemmeno l’entusiasmo isterico potranno toccarmi. Se la dimenticanza porrà la sua minaccia sopra la mia testa, potrò rileggere le pagine che sto per scrivere. Tiziana è sull’altra fila di fianco alla mia, la guardo con la coda dell’occhio per evitare che si accorga di me, ha gli occhi fissi, attoniti. Sono quasi due giorni che non parla a nessuno, non risponde nemmeno al saluto. La sua figura, alta e massiccia, male si armonizza con quei capelli così corti su di una testa tanto piccola; sembrano un addobbo posticcio. Ha gli occhi di un cane abbandonato, sembrano sempre implorare. Si vede subito dov’è il suo male. Flores le ha sempre messo le mani sulla testa, soltanto sulla testa, ma non è un tumore al cervello, e nemmeno epilessia, ne sono convinto. Io e lei siamo stati gli unici a non voler far visite con altri guaritori. Roberto mi disse che è meglio non mischiare certe energie, ma Roberto mi ha detto tante altre cose. Devo assolutamente ricordarle tutte, scriverle con chiarezza, come si fa con un lavoro scolastico, come facevo con le relazioni che mi chiedeva di scrivere il Professor Luzi al Liceo. Anche Renzo e Attilio non si sentono più. All’andata scandalizzarono le hostess giocando chiassosamente a carte sopra i sedili reclinati. Il dialetto romano del primo e la calata anconetana del secondo si mischiavano al sibilo dei reattori, in fondo mi aiutavano a ricordare la terra sotto ai piedi che non c’era più da diverse ore. Amici di magrezza e di colorito, quello del cancro, amici di malattia e di speranza. Ora tacciono anche loro. Durante la prima settimana non c’era serata che non organizzassero una spaghettata all’italiana, avevano riempito due valige con spaghetti e passata di pomodoro. Quando li hanno finiti hanno girato tutto Baguio fino a che si sono imbattuti nel classico, immancabile, ristorante italiano di un campano di Aversa. A spaghetti e pomodoro aggiunsero olive, parmigiano e vino rosso. Poi hanno smesso, gli ultimi giorni non si parlavano neanche tra di loro. Attilio diceva che si sentiva peggio di quando era partito. Renzo faceva le visite dai tre o quattro guaritori che aveva contattato nella zona, spostandosi con una enorme Ford Mercury a pagamento, poi si chiudeva in camera per tutto il resto della giornata. Mi viene da pensare che questo gran giro di visite possa essere stato eccessivo, ma chi poteva ritenersi veramente esperto di queste faccende? Io lo ero, lo sono? Su quali verità si fondano le mie opinioni in materia? Ho seguito ciò che mi ha detto il cuore o ciò che mi ha suggerito la mente? Roberto ha una bellissima villetta sulle colline sopra Bologna, tutta a piano terra, con grandi stanze pavimentate in cotto scuro, arredate con pochissimi mobili e tanti grandi cuscini appoggiati ovunque. Lui è stato nove mesi a casa di Juanito Flores, lavorava il giunco e costruiva flauti per tutto il villaggio, così ha salvato la sua gamba rotta in dodici parti per un incidente con la moto. Quella gamba in Italia volevano tagliarla. La moglie con i capelli ricci e rossi preparò un thè con la cannella mentre io suonavo una delle sue chitarre: «Juanito è l’ultimo rimasto dell’antica tradizione dei guaritori, non si è fatto corrompere dal grande giro di denaro che vortica intorno ai cosiddetti viaggi della speranza per le Filippine. Io ti consiglio di andare da lui, solo da lui. È insolitamente alto rispetto alla media dei filippini, ed è un grande fumatore di sigarette alla menta!» Due giorni dopo l’arrivo a Manila abbiamo organizzato quella specie di primo pellegrinaggio sgangherato, a bordo di un pullman degli anni Sessanta che portava sopra al tetto un paio di grosse gomme di scorta legate con una corda. Al ritorno abbiamo preso un taxi insieme con Alessio e il padre. Abbiamo detto, quasi in coro, «mai più con la corriera!» Il fatto di essere marchigiani ci ha spinto a socializzare quasi obbligatoriamente. Per la verità Guido, il padre di Alessio, non mi è molto simpatico. Dopo quella volta anche gli altri componenti del gruppo hanno optato per i taxi, cercando di riempirli e dividere le spese, sempre molto alte, a causa dei tassisti approfittatori, saldamente coalizzati tra di loro. Noi italiani eravamo una quindicina, poi c’era un gruppo di signore americane e alcuni tedeschi. L’itinerario prevedeva la prima visita al villaggio di Flores, un gruppo di capanne appoggiate a sottili e alte palafitte, nella zona tra Mangaidan e San Jacinto. Nel pomeriggio ci saremmo stabiliti nell’Hotel sul mare davanti a Dagupan. È cominciato tutto così. Dei primi due giorni nella capitale porto il ricordo di un lungo sonno in una bella stanza di un lussuoso Hotel del centro, e di un interminabile giro a bordo di un taxi arancione pagato con molti pesos. Le strade erano piene di vecchie jeep americane modificate in tutti i modi: da corsa, con enormi ruote e pistoni esposti sopra al cofano; da piccoli furgoni, con le pareti in lamiera di tutti i tipi, attaccata qua e la alla meno peggio; da mini pullman, con il piano posteriore aperto e prolungato. In questo caso la quantità di persone imbarcate, appoggiate su ogni centimetro libero, era sempre fenomenale. Erano pitturate con ogni colore e ogni fantasia immaginabile: madonne, fiori, ritratti di persone e animali. Ci hanno fatto anche l’onore di portarci lungo gli unici 30 km di autostrada del paese. Il manto stradale era fatto con piastre di cemento lunghe una decina di metri ognuna, con profondi solchi di separazione tra una e l’altra che ci facevano sobbalzare ogni volta. Tiziana mi ha voluto riferire, con aria misteriosa e compiaciuta, che Lucia aveva vomitato. Sembrava contenta del fatto di non essere lei la sola a fare figuracce. Il traffico era caotico, apparentemente senza regole. Carretti tirati da piccoli cavallini si incrociavano con Jeep stracolme di gente e BMW potentissime; tutti dappertutto e in tutte le direzioni. Mi dispiace un pò che la signora Lucia con suo marito stiano lontani dal mio sedile, con quella sua parlata toscana così accattivante ha sempre una parola carina e un sorriso per tutti. Lei accompagna lui, anche in questo caso si capisce dal colorito, oltre che dallo sguardo: «Signor Enrico, che bel giovane, ma che ci fa lei in mezzo a questa squadra di vecchie ciabatte?» Tiziana me lo ha detto il giorno dopo la prima visita, con il suo accento romanesco un pò arrogante e perfido: «Io e te siamo gli unici curabbili, ma che ci vengono a fare dal guaritore se stanno in ste condizioni! Non hanno capito niente di come funzionano certe cose!» Io non ho risposto, mi è sembrata una cattiveria; Tiziana non sa trovare la misura giusta, secondo me soffre di disturbo bipolare ed è per questo che si trova qui. Comunque mi piace; sulla spiaggia dell’hotel abbiamo messo in continuazione un pezzo dei Led Zeppelin: Stairway to Heaven. Ad un certo punto il Juke-Box non prendeva più la programmazione: L-7. La scala per le stelle, chissà che non sia questa. Qui, dentro questo enorme tubo di dentifricio con le ali, a un passo dal vuoto cosmico. A proposito del capolavoro dei Led Zeppelin lei, davanti al mare, sosteneva una tesi satanica che non ho capito molto bene; pare che il testo della canzone, cantato all’incontrario, riveli una specie di messaggio d’amore luciferino. Le ho detto che secondo me sono sciocchezze, scatenando in lei un’interminabile polemica che sono riuscito a placare solo con una battuta: «Va bene Tiziana, non ti agitare, se anche fosse vero ciò che dici, io credo che alla fine dei discorsi anche il demonio è in fondo soltanto un povero diavolo!»
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