Juanito Flores-2

2015 Words
Ha sorriso e si è un pò calmata. Disturbo bipolare, o psicosi maniaco-depressiva, non sono sicuro se c’è e quale sia eventualmente la differenza. Forse un giorno trasformerò la mia dilettantesca passione per la psicologia in qualcosa di più serio. Nella valigia avevo riposto tre libri sulla materia, ma non ho avuto voglia di leggerli: Il Potere Personale di Karl Rogers, Manuale Critico Di Psichiatria di Jervis e Psicocibernetica di Maxell Maltz. Ho letto soltanto la raccolta di fantascienza di Philip d**k. Pagine stralunate che assomigliano tanto a questi giorni stralunati. Non conosco il nome e la provenienza di tutti i componenti del gruppo italiano, me ne mancano quattro o cinque. Per esempio non so nulla di quel distinto signore che ci fece quella sorprendente offerta il giorno dopo la prima visita. È sicuramente un lombardo, dovrebbe essere anche molto facoltoso. Per due settimane non ha fatto altro che indossare completi diversi, tutti di lino; uno celeste, un altro panna e un altro ancora nocciola. Spesso li accompagnava con un panama chiaro, portato con molta classe. La stessa classe con la quale indossa la sua malattia, che comunque l’eleganza e il portamento così nobili non riescono a nascondere: «Se mi permettete volevo dirvi che mi offro volentieri per sostenere le spese di un vostro soggiorno molto più prolungato, non c’è problema, lo faccio molto volentieri. Ho visto che il vostro ragazzo ha già avuto grossi risultati, forse vi conviene restare più a lungo». Mio padre e mia madre risposero “grazie” all’unisono, ma ognuno di noi tre, in realtà, non vedeva l’ora di tornare a casa. Certe cose devi farle per non lasciare niente di intentato e non avere rimpianti, ma prima finiscono meglio è. Meglio era. Allora, all’inizio del viaggio. Ora è diverso. Lui si alza spesso dal suo posto e cammina lungo il corridoio dell’aereo come se avesse sempre qualcosa di importante da fare. Quando passa lascia dietro di sè una piacevole essenza di lavanda. Sembra accorgersi di tutto e non l’ho mai visto portare gli occhiali da sole, nemmeno quando la luce prossima al Tropico era accecante. Si è accorto di quando sono sceso dal taxi al ritorno dalla prima visita, e forse si è accorto anche di quando la madre di Juanito si è avvicinata a me all’entrata del villaggio. Felipe, la guida dell’ambasciata Italiana a Manila che ci ha gentilmente accompagnato, traduceva quelle parole appena sussurrate in una lingua-dialetto che mi sembrava di aver già sentito altre volte. Forse il signore lombardo ha sentito anche quella strana conversazione. «La signora è madre di Juanito Flores, dice di aver fede guarigione perché suo figlio, come dire, bravo trattare casi come suo. Dice che, insomma, specializzato per problemi così». La vecchietta, piccola piccola, magra e con le rughe del volto talmente profonde da nascondere quasi del tutto il minuscolo naso, gli occhi e gli altri tratti del volto, mi ha poi preso per mano per accompagnarmi dentro la capanna che fungeva da chiesa e da ambulatorio. Ha chiamato il figlio con voce improvvisamente stridula: «Uinito!» Detto così sembrava un altro nome. Voleva che fosse lui a spingere la mia carrozzina. La fila dei pellegrini d’occidente si è così fermata a lungo, in attesa che la volontà dell’anziana si realizzasse. Io mi vergognavo perché sembrava che il guaritore fosse, già al primo incontro, incline a fare preferenze. Sentivo che tutti, dietro di me, avrebbero desiderato lo stesso trattamento. «Uinito, Uinito!» Il signore col panama mi stava proprio di fianco. Vorrei che mi parlasse ancora, vorrei che si fermasse un attimo vicino al mio sedile per farmi qualche domanda, o per dirmi una qualsiasi cosa. Vorrei che tutto il gruppo mi parlasse, vorrei tanto non essere l’unico che torna a casa veramente vivo. All’imbarazzo si è presto sostituita la paura. Quel giovane allampanato, con le sue lunghe mani sottili, mi stava portando dentro una specie di stalla, vicino all’entrata razzolavano diversi piccoli maiali completamente neri, e alcune galline. Quante e quali cose possono accadere dentro una capanna, dentro una stalla? Era ormai chiaro che sarei stato la prima visita della giornata. Le Hostess della KLM non sono poi tanto belle, e nemmeno tanto gentili, o forse è il mito delle signorine d’aereo ad essere esagerato. Hanno spento tutte le luci. Sul quadrante anomalo e veloce del tempo che va a 800 km all’ora, è il momento di attraversare un breve riposo. Andiamo ad ovest, il risveglio sarà vicino a ieri. Io ho ancora la luce accesa sopra a queste pagine, così la bionda alta mi ha raccomandato, in uno stentato italiano, di non disturbare. Dovrò scrivere usando soltanto il faretto direzionale. In questo momento non c’è più sofferenza dentro l’aereo, il sonno lascia libere le cellule malate di corrodere la Vita, senza più il tormento del pensiero e delle emozioni che piangono, si oppongono oppure si arrendono. Posso raccontarmi la prima cura? “Uinito” assomiglia al giovane Fabrizio De André, quindi non può farmi del male. Ha gli occhi molto grandi e distanziati, ma li tiene quasi sempre socchiusi, spesso ride in risposta a ciò che gli viene detto e aggiunge: «okay!» Come posso spiegargli in poche parole la mia Emofilia? Vorticosamente le opinioni degli esperti si accavallano nella mia coscienza, mentre mi aiuta a distendermi sul tavolaccio che la madre ha liberato, con mossa rapida, dalla coperta utilizzata per le funzioni religiose. Sarà una specie di seduta fisioterapica, o kiropratica, sarà un’esperienza di pranoterapia, o soltanto teatro povero, prestidigitazione in buona fede, oppure consapevole e colpevole raggiro? Sarà un incontro con lo Sciamano, o peggio con lo stregone? Mi permetterà di tenere calzoncini e canottiera? «My blood do not stop! My blood do not stop!» Sul piano arrangiato, in legno, di una specie di altare orientale, sta per compiersi l’assurdo sacrificio di un giovane che si rovinerà nel tentativo di migliorarsi. «Ah okay, okay, trankilo!» Massaggi forti, potenti, con le mani e le dita sprofondate dentro i percorsi dei muscoli e dei tendini, mobilizzazioni degli arti portate ai livelli estremi di funzionamento delle articolazioni, con lentezza esasperata, unita a una stretta ferrea. Rimescolamenti e posture mai conosciute prima, che il mio corpo assorbiva ed assumeva guidato dalle sue braccia nervose, piene di vene molto evidenti. Pressioni in ogni zona corporea del mio essere, ossa che scricchiolavano o addirittura sembravano quasi esplodere per lo sforzo al quale erano sottoposte. Nulla di tutto questo era però doloroso. Si trattava di una intensità inaudita, preoccupante, perché così vicina al trauma, al punto di rottura tanto delicato e pericoloso, soprattutto per i lontani discendenti dei Romanov, ma non superato, mai portato oltre il limite di un buon senso e di una conoscenza naturali, tanto difficili da rilevare per me, in quei frangenti, ma comunque presenti e determinanti. «Giugiuba, giugiuba oil». “Adesso che vorrà fare?” Così mi ha unto gli arti; spalmato, impastato con quell’olio ambrato pieno di semi, contenuto dentro una bottiglia di vetro chiaro che lasciava intravvedere la grande quantità di piante al suo interno. L’odore era forte ma piacevole, lo respiravo ad occhi chiusi arrendendomi a una stanchezza profonda e pacifica che cominciava a impossessarsi di tutte le mie membra. Pensavo il male; che avrei sanguinato da ogni parte, che avrei dovuto prendere con urgenza un aereo che mi permettesse di atterrare vicino a Venezia, per poter raggiungere velocemente il centro Ematologico, oppure pensavo che sarei morto nelle Filippine. Pensavo il male, ma non potevo fare a meno di sorridere, di ridere, anche guardando la platea di spettatori internazionali che aveva assistito allo spettacolo del mio corpo in mano a “Uinito”. Un’ironia forse amara, ma leggera: «Guarda tu che sto facendo!» La capanna si era riempita ma, con sguardi stravolti, molti preferirono uscire. Il signore col panama era invece in prima fila, vicino ai miei che tacevano perplessi. Uinito mi batte la mano sul petto mentre fuma una sigaretta alla menta, ride, con gli occhi grandi, dietro a quelle strette fessure delle palpebre. La madre mi fascia con delle bende bianchissime gomiti e ginocchia, dopo aver messo a contatto della pelle alcune bacche scure, anch’esse molto aromatiche; le ferma abilmente con la fasciatura, poi fa un cenno alla nostra guida. Felipe si avvicina prontamente e comincia a tradurre le sue raccomandazioni. Mi daranno una scorta di quelle bacche nere da portare a casa, dovrò metterle a contatto con le principali articolazioni tutte le sere, tutto questo dovrebbe servire per ridurre l’insopportabile spasticità della muscolatura. Il dottor Forte mi aveva assicurato proprio questo: «Per quanto riguarda il problema degli spasmi può esser certo di ottenere un miglioramento deciso. Per tutto il resto non posso dire altrettanto». Avevo letto che a Milano lui era ritenuto uno specialista delle medicine alternative e primitive, ma questa qualifica fu da lui stesso subito rifiutata: «Non esistono medicine alternative e medicine ufficiali, esistono solo cure che funzionano e non, in diverso grado e per diversi motivi, che dobbiamo conoscere sempre meglio». Quando ha cominciato a parlarmi Juanito, mi sembrava di capirlo senza bisogno di ascoltare la traduzione di Felipe, la sua voce profonda aveva sfumature allegre. A giorni alterni dovrò cercare di farmi massaggiare e muovere in un modo simile al suo, a casa mia, con comodo, una volta tornato in Italia: «Bela Italy! Okay, okay Ericu!» L’Italia? Dov’è l’Italia? Dov’era la casa da dove eravamo partiti, in quei momenti, dentro quella capanna? Tutto sembrava perso e irrimediabilmente lontano, tanto diverso e inimmaginabile da rendere impossibile un vero ritorno. “Sono venuto a morire qui, in questo arcipelago che può diventare un paradiso solo per i Naturalisti o gli Archeologi. Ecco la verità, la verità di questo viaggio”. «Flores dice lei muovere in continuazione, non più stare letto come fatto ultimi anni». Come fa a sapere queste cose, chi gliele ha potute dire, come si permette di parlarmi così? «Dice che lei trovare moglie e avere figli, tanti figli, e lavorare, anche lavorare». Ma che razza di deficiente! Nemmeno un povero prete di campagna mi farebbe una predica così stupida! «Sì, sì, va bene, va bene, grazie grazie, ma adesso gli dica di farmi scendere da questo banco di macelleria, per favore, glielo dica!» Non è nemmeno cominciata la traduzione delle mie parole, che mi arriva una dolorosa stretta sul braccio. Uinito mi afferra e mi guarda dritto negli occhi, a un palmo dalla mia faccia; adesso alza la voce e sembra arrabbiato, ripete per tre o quattro volte la stessa frase, poi fa un cenno brusco alla guida invitandolo a tradurre con sollecitudine. «Deve credere, credere, dice che deve credere!» Adesso suono il campanello così chiedo quanto manca per il primo scalo a Bangkok e mi faccio portare qualcosa da bere, la sete non è affatto calata. “Mi ha mortificato, mi ha offeso, mi ha ferito, non voglio guardarlo negli occhi, voglio solo scendere da questo lurido tavolaccio prima che per me sia troppo tardi. Che vergogna, davanti a tutte queste persone, ma che mi è venuto in mente, che razza di follia, e quanti soldi ho fatto buttare via a mio padre!” Sento un braccio che si infila sotto le mie ascelle passando dietro alla schiena, un altro contatto mi prende sotto le ginocchia. Flores mi sta sollevando per portarmi via, non so dove; grido un “no” forte e arrabbiato, intravvedo mia madre che si alza di scatto dalla panca in prima fila. Mi ripete un’altra frase, complessa, diverse volte, con voce calma e profonda, so che non si tratta nemmeno di una vera lingua; è una specie di idioma quasi incomprensibile, difficile anche per Felipe che, tra l’altro, è rimasto nella capanna. Stiamo uscendo. La madre è rimasta a tener buoni i pellegrini, lui mi porta via come si farebbe con un figlio ferito, o per gioco, o con la sposa da far entrare nella nuova casa. La vergogna sconfinata cede all’arrendevolezza: «Lascia che tutto accada Enrico, lascia pure che tutto accada». Entriamo nella prima stanza di una piccola abitazione, forse la stessa dalla quale l’ho visto uscire quando siamo arrivati, oramai un secolo fa.
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