I

883 Words
IMi mancò il fiato. «Dov’è?», il suo alito mi sfiorò la guancia. La donna avanzava sicura a passo felino. Mi strappò di mano il foglio, la busta, stracciò tutto e mise in borsa. «Non ci servono più». La sua somiglianza con Brigitte mi diede le vertigini. Mi afferrò i capelli e io, d’istinto, le tirai una ginocchiata. «Cagna!», urlò, e mi si avventò contro. Il ricordo mi fece tornare in mente il giorno in cui incontrai, per la prima volta, Brigitte Vasseur. Mi colpirono quella sua magrezza estrema, le gambe lunghe, il caschetto biondo con le punte che danzavano sul viso. Era curata, graziosa; il nasino all’insù le dava un’aria sbarazzina. Sotto il cappello a tese strette, spiccavano gli occhi azzurro cielo, increspati di malinconia, o forse era sofferenza. «È lei la dottoressa Nora de Hortensi?», mi domandò con inconfondibili vocali nasali ed erre moscia, e mi parve che nello studio fosse calato un silenzio irreale. «Venga, si accomodi, Madame Vasseur». «Mi chiami Brigitte», disse sorridendo, ma il tono era triste. Annuii e lei iniziò a raccontare. «Da molti anni ho un problema che nessuno è riuscito a spiegare. Ho lampi di assenza in cui perdo il contatto con me stessa e con l’ambiente che mi circonda, la mente si svuota e io resto immobile, pietrificata, come se una mannaia stesse per calare su di me». «Quanto dura questa assenza?». Brigitte sospirò profondamente. «In genere più di mezz’ora, è un’agonia e mi lascia senza forze». «Li ha definiti “lampi”, quindi i sintomi sono improvvisi?». «Sì. Imprevedibili. Però so che mi può succedere solo quando sono fuori casa, per strada, al porto o al parco». «Come riesce a superare la crisi?». «Passa da sola. Lasciandomi spossata. Nella maggior parte dei casi mi soccorrono i passanti che, vedendomi confusa, mi scuotono sino a farmi tornare in me. Quando mi riprendo, ho solo il ricordo della paura e dico loro che soffro di epilessia». «Da quando le accade?». Lei sospirò ancora, come fosse un peso troppo grande per le sue spalle esili. Controllava con difficoltà un tremore generale. Capivo che desiderava alzarsi e andarsene, ma mi sorprese per il coraggio con cui restava incollata alla sedia. «Ero adolescente. Allora mi capitava di rado. Una volta ogni due o tre anni, poi gli intervalli si sono accorciati e le crisi sono divenute più frequenti. All’epoca vivevo ad Antibes, dove sono nata, poi, a trent’anni, ho lasciato la Francia e ho vagabondato per l’Italia per circa sette anni sino ad approdare qui, speravo che, allontanandomi, la situazione migliorasse: non è stato così, ora mi capita quasi tutti i giorni. Ci sono volte in cui vorrei stare a casa, a leggere un libro, a guardare le fotografie del passato. Ma non posso, sento una forza… quasi una presenza invisibile che mi spinge a uscire, e non è un invito ma un ordine». «Questa terra non è la mia terra», sussurrai. Non compresi nemmeno io perché avessi detto quella frase. Lei mi guardò e non aggiunse nulla. Spostai l’argomento sulla necessità di fare una diagnosi differenziale con una qualche forma di epilessia. Brigitte era preparata e sistemò sulla scrivania un sostanzioso fascicolo di esami e di referti, elettroencefalogrammi compresi. La prima ipotesi di ogni medico consultato era stata l’epilessia, ma nessuno era riuscito a dimostrarla. Pensai a un disturbo schizo-affettivo o a una variante di paranoia, non esclusi nemmeno la mitomania o la personalità isterica, ma non le dissi nulla e mi riservai di pensarci in seguito. «Non si è mai rivolta a uno psichiatra?». «No». «Perché?». Nei suoi occhi galleggiava una liquida tristezza. Avrei voluto avere risposte e spugne per quella malinconia. «C’est rigolo!1 Credo si possa sviluppare un legame forte con la propria sofferenza…». Mi fissò come se si aspettasse un parere che non ebbe. Io mi limitai a guardarla. Ero incuriosita da lei, dalla sua strana malattia e da quel che lasciava intravvedere della propria storia, ma non volevo che se ne accorgesse. «In fondo», si decise a proseguire, «mi piace sentire quella forza, quella presenza fuori e dentro di me. Ho avuto paura che con i farmaci o la psicoterapia svanisse, solo che ora… mi sta rendendo la vita impossibile», spiegò con un sospiro. «È difficile vivere con un fardello così pesante». «Ne parla come se sapesse di cosa soffre». Brigitte s’irrigidì. «Devo essermi espressa male», rispose. «Il mio italiano è buono, ma non perfetto». Ci fissammo senza aggiungere altro. La seduta era finita. Il tempo scaduto. Le chiesi se volesse fissare un altro appuntamento. Lei annuì. La sua stretta di mano fu decisa. Finita la seduta feci una lunga passeggiata. Pensai al suo caso, ai suoi attacchi di panico che sconfessavano tutte le regole dei manuali di psichiatria. Ma erano soprattutto le caratteristiche delle crisi che continuavano a martellarmi il cervello: la durata estenuante, il fatto che niente potesse costringerla a rimanere in casa. La nonchalance con cui utilizzava l’epilessia per giustificarsi. Pensai e ripensai a lei. La vedevo come un angelo caduto, fuori dal suo tempo. C’era qualcosa nella mia paziente che mi spingeva a mettere in discussione la razionalità cui tenevo tanto, che faceva saltare tutte le difese che permettono al medico di mantenere il distacco professionale. Provavo un’empatia che mi metteva a disagio. Un’affinità fuori dal comune, come fossimo entrambe degli angeli caduti. Eravamo come fenicotteri su quest’isola di granito e sale, nel cui cielo vola sa genti arrubia2, con le sue leggende di giganti e gianas3. Entrambe nomadi, entrambe senza radici, alla ricerca di una baia in cui sostare prima di ripartire. Nemmeno io appartenevo a quella terra. 1 È divertente. 2 Il popolo rosso, come venivano chiamati i fenicotteri. 3 Fate del folclore sardo.
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