CAPITOLO 1

2007 Words
CAPITOLO 1 VERONA, 22 APRILE 2018 Come ogni sera, inserì il pesante lucchetto dorato facendolo passare tra due anelli della spessa catena di metallo. La serratura scattò con un secco schiocco. Diede un leggero strattone per un’ulteriore verifica dell’effettiva chiusura del lucchetto. Tutto bene. Andrea Visentin infilò un mazzo di chiavi all’interno del suo marsupio, accanto a un sacchetto che conteneva l’incasso della giornata. Si avviò fischiettando verso casa, che distava appena mezzo chilometro. La sua lavanderia automatica aveva incassato bene anche quel giorno, così come era successo nelle ultime due settimane. La primavera era arrivata innalzando le temperature, la gente aveva iniziato a togliere i piumoni dai letti. Tuttavia, prima di riporli negli armadi, occorreva lavarli. Visentin, con la sua attività, consentiva alla gente di spendere la metà della cifra proposta nelle lavanderie tradizionali, garantendo lo stesso risultato. Recuperò dal marsupio un accendino e un pacchetto di sigarette. Con le labbra ne afferrò una e la sfilò dall’involucro. Ne scaldò la punta con l’accendino e aspirò la prima boccata. Ripensò allegro ai quasi trecento euro incassati nella giornata. Anche se la lavanderia aveva cinque lavatrici e quattro asciugatrici, in certi momenti la fila di persone era arrivata fuori dal negozio. Proprio quello di cui aveva bisogno, dopo un inverno un po’ fiacco. Con la lavanderia, infatti, c’erano periodi di alti e bassi. Nei cinque anni trascorsi dall’apertura non si era certo arricchito. Aveva tirato fuori giusto lo stipendio necessario a mantenere la sua famiglia. Nonostante i buoni incassi, erano troppi i soldi che uscivano dalle sue tasche. L’affitto del locale, materie prime, manutenzione delle macchine e soprattutto le tasse, tante tasse. Al termine del servizio militare Visentin era riuscito a farsi assumere in una fabbrica di mobili, la licenza media non poteva permettergli grosse aspirazioni. Si era sposato presto e sua moglie gli aveva dato tre figli. Con il suo stipendio e il lavoro part-time della consorte non c’erano mai stati grossi problemi. Una vita tranquilla, il mutuo da pagare, le vacanze ad agosto. Poi però era arrivata la maledetta crisi. La fabbrica in cui lavorava aveva galleggiato per qualche anno ma alla fine era stata costretta a chiudere. Si era ritrovato a trentotto anni senza uno stipendio e con una famiglia a cui badare. Il tentativo di trovare un altro impiego era stato infruttuoso. Quando il sussidio di disoccupazione era finito, aveva deciso che non poteva aspettare oltre. I soldi della liquidazione erano stati investiti nella lavanderia. Dopo i primi mesi di difficoltà la situazione era migliorata. Doveva ringraziare sua moglie per il sostegno che gli aveva dato, aiutandolo a non farsi prendere dallo sconforto nelle fasi iniziali, in cui gli incassi erano magri. Pensando alla moglie, si ricordò che doveva chiamarla per informarla del suo arrivo. Prese il suo smartphone e compose il numero della donna. “Pronto?” “Ciao Chiara, ho chiuso adesso il negozio.” “Bene, allora comincio a mettere su l’acqua della pasta.” “Ok, dieci minuti e arrivo.” Chiuse la chiamata e infilò il telefono nella tasca dei jeans. Essendo le dieci di sera il marciapiede era deserto, ad eccezione di un uomo di colore che gli stava venendo incontro parlando al telefono. Solitamente chiudeva alle 21.30 ma quella sera era arrivato all’ultimo momento un cliente che aveva chiesto di lavare un gioco di maglie da calcio. Odiava quelli che arrivavano all’ultimo minuto. Possibile che con tutta la giornata di tempo dovessero proprio presentarsi all’orario di chiusura? Non mostravano alcun rispetto. Ad ogni modo aveva acconsentito alla richiesta e aveva atteso pazientemente nel retro del negozio. Passò davanti a un furgone bianco parcheggiato accanto al marciapiede. L’uomo di colore si fermò a pochi passi da lui. Sfilò una sigaretta da dietro l’orecchio. “Amico, hai da accendere?” chiese. Visentin fu colto per un attimo alla sprovvista. Il suo primo pensiero fu quello di una rapina ma scartò subito l’idea. Il tizio non sembrava pericoloso. Aveva una corporatura esile e i capelli raccolti in treccine sottili. “Certamente” rispose Visentin aprendo il marsupio. L’uomo infilò la sigaretta in bocca e si sporse verso di lui. Visentin avvicinò la fiamma dell’accendino fino a quando lo sconosciuto non tirò una generosa boccata. “Grazie” disse con un ampio sorriso. “Prego.” All’improvviso il portellone del furgone fu aperto. Quattro braccia lo afferrarono tirandolo dentro. Visentin non ebbe neanche il tempo di gridare perché fu subito raggiunto da un pugno allo stomaco che gli mozzò il fiato. Immediatamente dopo qualcuno gli legò le braccia dietro la schiena. Gli occhiali gli vennero tolti e una benda nera fu sistemata sugli occhi. Sentì lo sportello richiudersi con un tonfo. L’uomo che gli aveva chiesto da accendere fece rapido il giro del furgone e si sistemò al posto di guida. Accese il motore e partì. “Chi siete? Che volete da me?” chiese Visentin, ritrovando un po’ di fiato. Nessuno rispose. “Volete soldi? Nel marsupio ci sono trecento euro. Prendeteli ma lasciatemi andare.” Un calcio in faccia fu l’unica risposta che ricevette. Visentin perse i sensi per il dolore. Aprì gli occhi ma intorno a lui tutto era scuro. Si sentiva confuso, non capiva cosa stesse succedendo. Provava un forte dolore al naso e sentiva qualcosa che gli appiccicava la faccia. Provò a toccarsi ma le braccia erano bloccate dietro la schiena. Ora cominciava a ricordare. Il tizio della sigaretta, il furgone parcheggiato, il calcio in faccia. Per quanto tempo era rimasto svenuto? Il furgone era ancora in movimento, all’interno non si sentiva nessun suono. Era rimasto solo? Provò a concentrarsi e gli parve di percepire il respiro di qualcuno. Fu tentato di chiedere ancora che cosa stesse succedendo ma rinunciò per non rischiare di essere percosso ancora. Decise di aspettare che il furgone si fosse fermato. Non dovette attendere per molto tempo. Il veicolo imboccò quella che a giudicare dagli scossoni sembrava una stradina sterrata. Dopo qualche minuto l’autista arrestò il furgone e spense il motore. Tutto si fece silenzioso, come se la cosa fosse stata studiata per aumentare il terrore. Se così fosse stato, stava funzionando alla grande. Visentin aveva il cuore che gli martellava il petto. Uno sportello fu aperto con un cigolio, qualcuno scese a terra. Rumore di passi intorno al furgone. Qualcuno aprì il portellone scorrevole. Visentin fu afferrato per le braccia e fatto alzare dal pavimento del veicolo. “Che succede?” Lo colpirono con violenza alle reni, lasciandolo ancora una volta senza fiato. Fu trascinato giù dal furgone e costretto a camminare. Un passo dopo l’altro, riuscì a riprendersi dal colpo subito. Sentiva scricchiolare della ghiaia sotto i piedi. Una porta fu aperta, si accorse di essere condotto in un edificio. A giudicare dall’eco dei passi, sembrava che fosse vuoto. Lo fecero svoltare a destra e lo fermarono strattonandolo come se fosse un animale da tiro. L’aria odorava di muffa. Ma cosa diavolo stava succedendo? Dove l’avevano portato? Sentì due mani dietro la sua testa. Pochi attimi e finalmente la benda gli fu tolta. Dovette sbattere le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco la vista. Si trovava in una stanza vuota, ad eccezione di un vecchio tavolo in legno sotto il quale si trovava una scatola di cartone. Un lampada da campeggio posizionata in un angolo creava un alone di luce sufficiente a illuminare tutto l’ambiente. Visentin vide nella stanza tre uomini di colore: due di fianco a lui, mentre il terzo era seduto su una sedia, a due passi dal tavolo. Stava intagliando un oggetto di legno con un coltello, sembrava un elefantino. Aveva una corporatura molto esile ma sembrava in buona forma. I capelli ricci avevano un’attaccatura che iniziava a metà fronte. L’uomo soffiò sul manufatto e lo rigirò tra le mani, in apparenza soddisfatto del risultato. Si alzò in piedi e infilò l’oggetto nel taschino della camicia. Avanzò verso il nuovo arrivato con il coltello in mano. Si fermò a fissarlo, accarezzandosi un pizzetto ben curato. I suoi occhi erano grandi e inespressivi. Visentin provò un brivido di paura che gli percorse la schiena. “Andrea Visentin” esclamò. “Sì, sono io” rispose Visentin dopo aver deglutito a vuoto. “In questi anni tu non cambiato.” L’italiano non era parlato correttamente ma era comprensibile. “Non capisco, signore.” Era sicuro di non conoscere quell’individuo. Lui invece sembrava conoscerlo bene. “Tra poco tu capisce tutto. Aspetta, io libero tue mani.” Utilizzando il coltello tagliò le corde che immobilizzavano i polsi. Visentin iniziò a sperare in una soluzione pacifica ma fu subito smentito. I due uomini che lo avevano trascinato nell’edificio lo bloccarono. Uno dei due aveva un fisico piuttosto muscoloso e il cranio completamente rasato, mentre l’altro era il tizio della sigaretta. Il terzo uomo gli sferrò un improvviso calcio nei genitali. Visentin gemette dal dolore. Dopo averlo trascinato verso il tavolo, lo issarono sopra facendogli battere la schiena sulla dura superficie. Mentre lo tenevano fermo, l’uomo che l’aveva colpito iniziò a fargli passare una corda intorno al corpo. Visentin tentò di liberarsi ma una gomitata sotto l’occhio vanificò il suo tentativo. Senza che potesse tentare alcuna reazione, si ritrovò con il busto e le gambe legate al tavolo. Le braccia gli furono lasciate libere. “Lasciatemi, bastardi! Lasciatemi!” “Calmo, Andrea. Calmo.” “Perché mi state facendo questo?” “Ora io spiego. Ma tu sta’ calmo. Ok?” Visentin cercò di controllare il respiro. “Bene, iniziamo a parlare. Io mi chiamo Bilal. Loro sono Salad e Jama.” Salad era l’uomo della sigaretta. “Tanti anni fa tu fatto soldato in Somalia.” “Sì, è vero, ma che cazzo c’entra?” “Giorno 6 luglio 1993 tu e tuoi compagni perquisito piccolo villaggio.” “Ne abbiamo perquisiti tanti di villaggi.” “Tu e tuoi compagni entrati in casa dove viveva giovane donna.” “Non ricordo” mentì Visentin. “Tu e tuoi compagni violentato giovane donna.” “No, io non ho mai fatto niente di male.” Bilal gli lanciò uno sguardo carico d’odio. Senza dire niente si chinò sotto il tavolo e raccolse un oggetto dallo scatolone. Con grande sgomento, Visentin constatò che si trattava di una sega circolare alimentata a batterie. “Che cosa volete fare con quella?” chiese sgranando gli occhi. Bilal premette il pulsante di accensione. La lama iniziò a roteare a forte velocità. Fece un cenno a Jama che afferrò il braccio sinistro di Visentin, stendendolo. Salad si occupò di bloccare il braccio destro per impedire la reazione della vittima. Bilal avvicinò la sega circolare appena sopra il gomito della sua vittima. “No, vi prego! Vi prego!” I primi schizzi di sangue si depositarono sui vestiti di Bilal e Jama. La lama rotante iniziò a lacerare arterie, tendini e ossa. In pochi istanti il braccio venne tranciato di netto tra le urla disperate di Visentin. Il moncherino rimase tra le mani di Jama che lo fece cadere sul pavimento sporco. Due dita si mossero ancora in uno spasmo involontario. Salad si affrettò a recuperare un rotolo di bende dallo scatolone sotto il tavolo. Iniziò a medicare la ferita allo scopo di tamponare per il momento la fuoriuscita di sangue. Visentin nel frattempo era svenuto per il dolore. Bilal lo schiaffeggiò un paio di volte, facendogli riprendere coscienza. “Andrea, guarda me. Guarda me.” “Perché mi fate questo? Che cosa vi ho fatto?” si lamentò con un filo di voce. “Io già detto cosa tu fatto. Guarda questa foto.” Visentin cercò di mettere a fuoco una fotografia che il suo aguzzino teneva tra le mani. “Non ci vedo. Mettila più vicina.” Bilal la posizionò a un palmo dal suo naso. “Ora tu vede?” Riconobbe subito quella foto, ricordava di averla persa da qualche parte in Somalia ma non aveva mai saputo dove. Lo ritraeva in tenuta da combattimento accanto a un mezzo militare. Era stata scattata prima di partire per l’Africa, durante l’addestramento. “Sì, la vedo.” “Tu sa dove trovata questa foto?” “No.” “Dico io. Trovata in capanna dove giovane donna violentata.” Visentin non seppe cosa dire. “Allora tu non parla ancora?” “È vero, io ero lì quel giorno, ma non ho violentato quella donna.” “No? E allora chi violentato lei?” “È stato il mio sergente. Io l’ho solo tenuta ferma. Non potevo oppormi, stavo eseguendo degli ordini” piagnucolò. Bilal scosse la testa. “No, tu non eseguito ordini. Secondo me tu divertito molto.” “Non è vero. Lo giuro!” “Non giurare. Voglio nomi di tuoi compagni e tutto quello che sa di loro.” “Sì, ti dirò tutto quello che so.” Fece come gli era stato richiesto mentre Bilal registrava tutto con il proprio smartphone. “Bene, Andrea. Queste notizie sono utili” sentenziò alla fine del racconto. “Ora mi lascerete andare?” “Non posso fare questo. Tu deve pagare per tuo crimine.” “Ti prego, non farlo. Ti ho detto tutto quello che sapevo.” Visentin si guardò intorno cercando la comprensione da parte degli altri due rapitori. La sua fronte era imperlata di sudore, gli occhi erano rossi e gonfi di lacrime. Entrambi lo fissarono con uno sguardo che sapeva di condanna a morte. “Ho una moglie e tre figli.” Bilal non rispose, limitandosi a riaccendere la sega circolare. “Non uccidetemi.” Gli occhi dell’aguzzino si ridussero a due fessure. “Troppo tardi, Andrea. Troppo tardi.”
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