1.

2623 Words
1. He left a Corsair's name to other times, Link'd with one virtue, and a thousand crimes. George Gordon Byron, The Corsair (Lasciò ad altri tempi di Corsaro il nome legato a una sola virtù e mille colpe.) Lunedì. Lenny Pirie mostrò le sue credenziali al concierge all’ingresso dell’Hugo Palace, a Belgravia, uno degli indirizzi più esclusivi di Londra. Per quel che ne sapeva Lenny, gli altri inquilini del palazzo erano Camila Bendibroke, l’erede della dinastia di imprenditori del lusso, Edward Russel-Pike, conte di Essex, e Bradley g*n dei Guns of Brixton. Il quarto e ultimo appartamento, che occupava tre elevazioni nell’ala est del palazzo a partire dal terzo piano, era quello di Byron Kelsey, il famigerato attaccante del Chelsea, a una sola partita dall’addio al calcio. Metà dei britannici, se avesse dovuto scegliere se mettere lui sulle monete o tenere la regina, avrebbe scelto lui. Lenny faceva decisamente parte dell’altra metà. Il concierge si prese tutto il tempo per trovare il nome di Lenny su un elenco che non doveva essere per niente lungo, ossia la gente ammessa nell’appartamento di The Corsair, come lo chiamavano i fan. «Sul suo tesserino c’è scritto Leona, non Lenny» disse, dopo svariati minuti. A Lenny non era mai capitato che qualcuno mancasse il collegamento tra il suo nome anagrafico e l’abbreviativo Lenny. Abbreviativo con cui aveva firmato tre best-seller e innumerevoli editoriali sul Guardian, abbreviativo con cui la chiamavano tutti, sempre, compreso nelle numerose occasioni in cui era stata ospite alla TV. «Sono sicura che può chiamare il signor Kelsey e chiarire la questione» rispose, in tono secco. Era in momenti come quello che le mancava la presenza di David, il suo assistente. Purtroppo la star del calcio, lì, voleva che la loro intervista si svolgesse in un’atmosfera intima e informale. Cosa che, per inciso, a Lenny non faceva chissà quanto piacere. Kelsey aveva la fama del latin lover – fin troppo – e Lenny cercava sempre di evitare situazioni potenzialmente antipatiche. In quel caso aveva fatto un’eccezione per due motivi validissimi: primo, inserire Kelsey nel suo libro le avrebbe fatto guadagnare un pacco di soldi; secondo, la natura stessa la metteva al riparo da avance sgradite: l’attaccante del Chelsea sotto al livello “modella di biancheria intima” non ti guardava nemmeno. «Non ho il permesso di disturbare il signor Kelsey. Posso chiamare il suo assistente personale». Lenny guardò l’orologio, spazientita. «Oppure può ricollegare quei due neuroni e farmi entrare, visto che sono l’unica giornalista che si è presentata qua all’ora dell’appuntamento del signor Kelsey con una giornalista dal nome quasi identico al mio... che poi sono io». Il concierge sbatté le palpebre, forse preso alla sprovvista dal suo tono aggressivo. La formazione di Lenny, d’altra parte, era come reporter, e i reporter non facevano carriera andandosene quando qualcuno diceva loro di andarsene. «L’ascensore in fondo al corridoio» si arrese il concierge, come volevasi dimostrare. Lenny recuperò la sua borsa da postino e si diresse da quella parte a lunghi passi irritati. +++ La porta dell’appartamento le venne aperta da Kelsey in persona, il che la prese un po’ alla sprovvista. Si aspettava un altro filtro, forse due, ma evidentemente lui diceva sul serio, quando sosteneva di voler rendere familiare la loro conversazione. «Signorina Pirie, che piacere. Prego». Aveva una voce profonda e un inconfondibile accento di Leeds, proprio come nelle interviste che Lenny aveva ascoltato per prepararsi. «Piacere mio». Lo seguì dentro un appartamento disegnato da qualcuno con una preferenza per i colori forti e le pareti bianche. Ti dava l’impressione di entrare in uno studio televisivo o in una sit-com americana. E non c’erano quadri, non una singola stampa, neppure una fotografia. Nulla di nulla, finché Kelsey non la introdusse in un salottino con una libreria rossa fitta di foto incorniciate, ognuna in una cornice diversa, trofei e targhe celebrative. «La farà ridere. Le tengo qua» commentò Kelsey. Un paio di coppe erano così grandi che Lenny non sarebbe neppure riuscita a sollevarle. «È impressionante» disse. «Sì, vero? Ora andiamo in un posto più tranquillo». Il posto più tranquillo era un salotto con un divano e due poltrone blu elettrico disposte a ferro di cavallo su un tappeto bianco. Sotto, un parquet color miele che sembrava quello di un campo da basket. Su una parete una grossa TV piatta in una cornice argentata. «Le va un po’ di tè? Caffè? Altra bevanda?». «Quello che prende lei, signor Kelsey» rispose Lenny, con un sorriso meccanico. «Oh, no» rise lui. «Mi chiamano tutti Byron». Lenny si sedette e accavallò le gambe nei pantaloni di lana pettinata. «In questo caso, tutti mi chiamano Lenny». Kelsey si sporse oltre un arco bianco. «Manny? Puoi portarci un po’ di tè?» chiese a voce davvero alta. Poi, come nulla fosse, tornò verso di lei e si sedette sul divano in modo che fossero disposti a quarantacinque gradi l’uno rispetto all’altra. «A che cosa serve di solito questa stanza?» chiese Lenny, per rompere il ghiaccio. Kelsey aggrottò la fronte. «Nel senso? Che ci faccio?». «Sì, esatto». Fece un gesto verso la TV. «Gioco alla Play, no?». A Lenny era sfuggito il gamepad, sul tavolino bianco. «Uh. Certo, è ovvio». «Tu non giochi, eh? Non sembri il tipo. Calvin mi ha fatto una testa così con Lenny Pirie e ho pensato: okay, facciamolo. Anche se non so che cacchio c’entro con il tuo libro e ho come questa paranoia, no?». Un attimo di pausa. «Di sembrare un coglione». Per inciso, il suo accento era bestiale. Lenny faceva davvero fatica a distinguere le parole, in certi momenti. Sembrava che pronunciarle per intero fosse uno sforzo troppo grande. Di tutti i “the” non restava che una “t” e i “couldn’t” sembravano “cunt”. Era strano sentirgli dire qualcosa che sembrava “fregna” ogni poche frasi. Lenny, al contrario, parlava con un coltivato accento etoniano, reso più amichevole da una vaga influenza dell’Inghilterra del sud. Erano quasi due lingue diverse. «Non vedo perché dovrebbe sembrare un coglione. A meno che non lo sia» rispose, con un sorrisino divertito. Errore. Byron si offese, ma capì che non aveva cattive intenzioni, così evitò di risponderle. Lenny prese fiato. «Dovresti» si corresse. «E dobbiamo chiarite subito una cosa: sembrerai un coglione se io decido di ritrarti come tale. È tutto nelle coloriture linguistiche. Visto che non ho intenzione di farlo, non dovresti preoccuparti. La mia non è un’imboscata. Non ho intenzioni ostili. Sono autenticamente interessata alla tua figura e al modo in cui si differenzia dall’immaginario popolare. Se c’è una corrispondenza biunivoca tra ciò che le masse pensano di te e come tu ti percepisci nei confronti del mondo». Kelsey sbatté le palpebre un paio di volte. «Sembrerò un coglione» tradusse. In quel momento arrivò “Manny”, che poi era un cameriere filippino sulla sessantina. Era vestito in modo molto informale, con delle scarpe da ginnastica e una tuta blu. Non sembrava neppure personale di servizio e Kelsey lo aiutò a spostare teiera, tazze e biscotti sul tavolino. «Porto dell’altro, Byron?» chiese il cameriere. «Non credo». Guardò Lenny, che scosse la testa. «Nah, ora faccio quest’intervista, più tardi vado al centro. Ci vediamo stasera». Un attimo di riflessione. «O meglio, no. Ho quella festa. Ma non torno tardi». «Okay, fammi sapere se vuoi che ti venga a prendere». «Oh, no. Vedrai» sorrise Kelsey. Il cameriere se ne andò. Con vago impaccio, entrambi versarono un po’ di tè nelle tazze, zuccherarono e aggiunsero un filo di latte. Byron Kelsey era... come alla TV, ma dal vivo ti faceva un po’ impressione. Era alto, imponente, la quintessenza dell’atleta, ma anche la quintessenza del calciatore, con le braccia tatuate che spuntavano dalla maglietta a maniche lunghe blu, i capelli scuri raccolti in una specie di nodo e il pizzetto curato. Era un po’ irreale, pensò Lenny. «Ti alleni ancora?». Lui le lanciò un’occhiata perplessa. «Domenica gioco». «Pensavo che fosse... non lo so. Pro forma». «Tu non ne sai granché di calcio, vero?». Lenny sorrise. «È molto ovvio, suppongo». «È la mia ultima partita». Fece vagare lo sguardo sul soffitto. «Pazzesco, no? E, diciamo, si spera che faccia almeno un goal, tanto per non sembrare del tutto da buttare via. Anche se lo sono». «Non lo sembri». Il complimento gli scivolò addosso. «Ma lo sono. Tra due anni ne ho quaranta... va bene così». «Posso accendere il registratore?» gli chiese lei. Quel ragazzo aveva un suo modo di esprimersi, quello era sicuro, ma forse qualcosa da dire lo aveva. Per quel che Lenny sapeva del mondo, spesso chi emergeva aveva delle qualità personali insolite. Non era sempre così, ma era abbastanza frequente. «Okay. Senti, puoi spiegarmi come funziona? Calvin ha detto che sei diversa dagli altri giornalisti». Lenny posò il registratore sul tavolino e attivò anche la registrazione sul cellulare, per avere una doppia sicurezza. «Sono diversa?». Gli rivolse un sorriso gentile. «Non lo so, suppongo di essere uguale, invece, ma è diverso lo scopo dell’intervista. Non ti farò domande sulla strategia della tua squadra, sul campionato o sul calciomercato. Non farò gossip sulle tue avventure. Sai come ottieni un libro intellettualmente importante?». «Scrivendo bene?». «Anche. Ma specialmente, volando alto. È una cosa che dobbiamo fare insieme. Quali sono i temi fondanti della tua esistenza? È questo che mi interessa, non la marca dei tuoi jeans». Kelsey – Byron, visto che preferiva il nome proprio – sbatté le palpebre. «Temi fondanti? Sarebbe a dire come “il calcio”, “la fama”, “la fatica”? Come quando a scuola ti spiegano le parole astratte?». Quella definizione la fece sorridere. «Sì, così. Quali sono le tematiche di cui dovremo parlare, secondo te? Per descriverti?». «Non dovresti saperlo tu, scusa?». Lenny fece un gesto vago. «Ho delle ipotesi. Posso decidere io, e lo farò se penserò che sia necessario o che tu stia tralasciando qualcosa, ma preferirei che fossi tu a iniziare. Hai detto: il calcio, la fama, la fatica. Erano temi a cui avevo pensato anch’io, ma forse le sfumature erano diverse. Vuoi cominciare dal calcio?». Byron si passò una mano tra i capelli e così facendo sfece quella sorta di nodo che li teneva fermi. Si riappoggiò le mani sulle cosce, ma era quasi teso in avanti, come fosse sul punto di schizzare via. «Il calcio. Boh. È quello che faccio per vivere. Portare una palla in giro per un campo, ficcarla in una porta. Tu segui il calcio, Lenny?». «No». «Lo supponevo. E non giochi». «No». Si grattò la nuca. «Il calcio è divertente. Voglio dire, è anche, insomma, difficile e faticoso, però la prima cosa, no? Quello che da bambino ti fa decidere di giocare a calcio, è che divertente. Come quando ti raccontano una barzelletta... mmm... ti raccontano una barzelletta e il tuo cervello si diverte, giusto? Quando giochi a calcio si divertono le tue gambe». «Non ho capito» ammise Lenny. Avrebbe potuto annuire. Era una bella metafora, le piaceva il modo in cui aveva spiegato le cose, ma la verità era che non aveva capito, perché a lei lo sport non diceva molto. Lui sospirò. «Insomma, non hai mai giocato. Mai». «A calcio? No. Ma ho praticato altri sport. Danza, quand’ero piccola... e, credimi, è stato un totale disastro. Mi piace il modo in cui spieghi le cose, percepisco il tuo entusiasmo... non so. Forse è sufficiente, ma mi sembra di non aver afferrato qualcosa di importante». Byron si alzò. «Eh, già. Senti, cerco una palla. C’è sempre un pallone, da qualche parte». Lenny lo guardò allontanarsi con vaga preoccupazione, ma anche soddisfatta di come stavano procedendo le cose. Come supponeva, quel tizio aveva qualcosa. Molti stranieri parlavano inglese meglio di lui, ma aveva un’intelligenza fatta d’istinto e capacità di interfacciarsi con gli altri. Tornò poco dopo, con in mano un pallone regolamentare a losanghe blu, gialle e rosse. «Te l’ho detto, ce n’è sempre uno in giro. Togliamoci le scarpe, le tue sono troppo dure». «Eh?». Lenny portava delle stringate broguerate da uomo e non le sembravano “dure”. Oltretutto, per quel che ne sapeva, gli scarpini da calcio erano durissimi. Ma decise di stare al gioco e si liberò delle scarpe, restando con i calzini di spugna. Byron si scalzò le scarpe da ginnastica e restò in calzini di spugna anche lui. Lasciò cadere il pallone e lo bloccò sotto il suo piede. Glielo passò con un colpetto leggero. «Sentilo sotto la pianta, prima». Lenny posò il piede sul pallone e lo fece rotolare avanti e indietro tenendoselo sotto il piede sinistro. «È duro». Lo schiacciò un pochino. «Non cede molto». «Cede se lo calci forte. Adesso passatelo da un piede all’altro». Lenny sorrise. «La fai facile tu». Ma ci provò lo stesso, visto che Byron stava cercando di spiegarle qualcosa sul calcio. E se un campione cerca di spiegarti qualcosa sulla sua disciplina, non ascoltare è stupido. «Bene, ora passalo a me». «Okay». Lo rispedì nella sua direzione. Tra loro c’erano due o tre metri, non di più. Byron fece il gesto di caricare un calcio e Lenny saltò sul divano come se avesse visto un topo. «Scusa?» si mise a ridere lui. «Pensavo che tirassi. Ho pensato: aiuto, se mi becca mi rompe una gamba». Byron rise ancora. «In calzini? Se tiro mi fratturo l’alluce». Lenny ridiscese dal divano. «Uhm, già. Non ci avevo pensato». «Uno scatto notevole, in ogni caso». Ora Lenny era un po’ imbarazzata. «Ho un forte istinto di autoconservazione. Adesso che cosa...» «Adesso prova a portarmelo via». «Eh?». Lui rise ancora e le passò la palla. «Hai ragione, proviamo qualcosa di più semplice: prova a non farmelo prendere». Si avvicinò saltellando sui calzini. Lenny prese il pallone con le mani e se lo mise sotto un braccio. «Molto spiritosa. Posa quella palla. Giù. Provaci sul serio». Lenny si voltò e iniziò a scappare lungo un corridoio. Non molto velocemente, perché doveva tenersi davanti quella sfera ridicola, che non cooperava come avrebbe dovuto. Byron la incalzò quasi subito da dietro, le infilò un piede tra gli stinchi, spinse il pallone più avanti, la dribblò da destra e le portò via la palla. Non erano arrivati neppure in fondo al corridoio. «Avrei dovuto sedermici sopra» sospirò. «Per andare sul sicuro avresti dovuto mangiarlo» rise lui. Lei alzò le mani in segno di resa. «Ma ho capito, eh». Allungò un piede e gli portò via il pallone, lui lasciò che lo facesse. Lenny lo spinse contro il muro e lo recuperò con l’altro piede, poi si incartò e quasi inciampò su se stessa. «Ho capito, ma la mia autostima ora richiede che torniamo a sederci in salotto come due compassati britannici». Byron abbandonò il pallone lì dov’era e la seguì al punto di partenza. Lenny tornò ad accavallare le gambe senza rimettersi le scarpe, Byron fece lo stesso. «Però mi viene da pensare una cosa: è così divertente se ci giochi in corridoio con addosso solo dei calzini...» «Con addosso solo dei calzini sarebbe stato ancora più divertente, questo è vero». Lenny lo guardò male e lo ignorò. «...Ma che cosa resta di questo divertimento su un campo della Premier League?». «Qualcosa deve restare per forza. Se inizi a pensare “oddio, con quello che mi pagano devo segnare per forza” è la volta buona che non segni». «Ma con quello che ti pagano, in effetti, devi segnare per forza, no?». «Eh, sì». «Pensi che questa dimensione giocosa faccia parte del normale corredo di ogni giocatore o che sia la tua cifra personale, e che altri ne abbiano una diversa?». Byron guardò il soffitto, come in cerca di ispirazione. «Lo fai apposta?». «Che cosa?». «No, infatti, lo sapevo. Potresti provare a ridirmelo come se fossi uno con la terza media? Perché ho un diploma, ma ti giuro che è finto». Lenny restò davvero senza parole. Forse per la prima volta in vita sua, arrossì. «Non... volevo». Lui sbuffò. «Lo so che non volevi. Ma di solito la gente come te quando mi parla cerca di rendermi le cose più semplici. Mi fa incazzare, ma, insomma... ora viene fuori che forse hanno ragione, no?». Lenny aggrottò la fronte. «Non hanno ragione. Non riguarda i concetti, riguarda il lessico». Un attimo di pausa. «Le parole... “il lessico” è un altro modo di dire “le parole”. Tu mi hai spiegato perché il calcio è divertente come se avessi quattro anni, e io non ti ho ricambiato il favore. Mi dispiace. È difficile scendere al di sotto del proprio livello, ma se ce l’hai fatta tu, posso farcela anch’io. Ci riprovo». Byron si limitò a guardarla. «Anche per gli altri giocatori, secondo te, è importante divertirsi? O magari per ognuno è qualcosa di diverso? L’agonismo... mmm... la voglia di vincere? Di dimostrarsi più bravi degli altri?». Un sorrisino. «Neanche a me dispiace». «Credo che non dispiaccia a nessuno. Ma quando ti ho chiesto del calcio, la prima cosa che ti è venuta in mente è stato il divertimento. Quindi. È così anche per gli altri?». Lui si umettò le labbra, riflettendo. «Mica per tutti, no. Certi sono arrabbiati con il mondo e buttano tutto nel modo in cui giocano. Ma quelli bravi davvero un po’ si divertono. Anche quando si incazzano, non si incazzano così tanto, e riescono a restare lucidi perché sanno che in fondo è un gioco». «Grazie. Per oggi mi sa che dobbiamo fermarci. Mi hai concesso due ore». Lui diede un’occhiata all’orologio, un Rolex di acciaio davvero massiccio, e fece un’espressione stupita. «Devo andare ad allenarmi, mi dispiace. Ma abbiamo degli altri appuntamenti, giusto?». «Giusto». «Bene, sei una giornalista diversa, è vero. Mi piace».
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