1 – PRESSO LA CORTE DEL RE DEGLI STREGONI

3206 Words
1 – PRESSO LA CORTE DEL RE DEGLI STREGONI È meglio conservare tristi ricordi o dimenticare con essi anche le gioie passate? Stella Ottaviani, la Veggente Riemergo dalla quiete del sonno con il respiro affannato. Spalanco la bocca in un urlo silenzioso e stringo le lenzuola tra i pugni. La seta mi accarezza i palmi e mi scivola morbida sotto i polpastrelli. I capelli mi ricadono sul viso in lunghe ciocche scure e scomposte, coprendo momentaneamente la vista del pomposo letto a baldacchino. Con un singhiozzo, mi sforzo di immettere aria nei polmoni. Va tutto bene, mi ripeto, ma il battito cardiaco impazzito, il sangue che mi pompa nelle vene a ritmo folle e la persistente sensazione di vuoto remano contro il tentativo di tranquillizzarmi. Mi districo dalle coperte attorcigliate alle mie membra e, ancora seminudo, corro in bagno. Afferro la boccetta di Seroxat posata sul lavandino e ingoio una pasticca, più per abitudine che per reale necessità. Sebbene abbia provato ad assumerne diversi, nessun anti­depressivo mi è stato particolarmente d’aiuto finora e l’ultimo arriva­to non pare più efficace dei suoi predecessori. L’effetto placebo mi permette tuttavia di racimolare la lucidità necessaria a ricor­rere a un rimedio più utile, per quanto non risolutivo. Innalzo solide barriere mentali e ricostruisco mattone per mattone lo scudo in grado di mantenere isolate le mie emozioni traditrici. Le imbriglio senza pietà e le rinchiudo nella loro pri­gione invisibile, mettendole a tacere in maniera quasi completa. Piegate, ma non per questo docili, filtrano dalle crepe della mia armatura il tanto sufficiente a farmi provare ancora qualcosa di vago e sottile, un sussurro tra i miei pensieri, ma non abbastanza da mettermi in ginocchio. Essere in buona parte insensibili e freddi potrebbe sembrare un destino peggiore del tormento ma, quando si riescono a pro­vare soltanto ansia e prostrazione, senza l’intercessione nemmeno del più fugace assaggio di piacere, la prospettiva appare all’improvviso un compromesso assai con­veniente. Mi appoggio al gelido marmo del lavabo, afferrandolo per sostenermi, e incontro il mio sguardo allo specchio. Gli occhi azzurri della mamma mi fissano di rimando, finestre sull’anima colme di una disperazione a stento tenuta a bada dai trucchi da prestigiatore nei quali so esibirmi. Sono l’unica caratteristica fisica in mio possesso che la ricordi. Il resto, dalla carnagione abbronzata ai tratti somatici tipici dell’etnia magrebina, ha il sapore delle origini di mio padre. Mi passo una mano sul viso e mi scompiglio barba e baffi, che neanche oggi ho intenzione di rasare. Inizio ad apparire tra­scurato, ma non mi stupisce che dopo più di un decennio la mia maschera di compostezza stia cominciando a sgretolarsi. Semmai è sorprendente sia durata tanto a lungo. In ogni caso, pare che i peli facciali siano tornati di moda. Buon per me. Mi riscuoto e mi scrollo via di dosso le ultime tracce di un risveglio difficile quanto i precedenti quattromilatrecentono­vanta. Torno in camera da letto e indosso gli abiti preparati per me dal domestico, lasciati ordinata­mente piegati su una delle due poltrone gemelle sistemate di fronte all’unica finestra della stanza. Il costoso completo blu di Prussia mi rispecchia quanto gli opulenti appartamenti dalla tappezzeria damascata sulle tinte del rosso e dell’oro, ossia niente affatto. Ma non ha importanza, in fondo mi sento un ospite nella mia stessa pelle così come lo sono in questa casa. Mi pettino con fare apatico e intreccio i capelli, raccoglien­doli alla maniera in cui era solita acconciarli Zora, circa una vita fa. Il ricordo delle sue dita amorevoli tra le mie ciocche mi farebbe sanguinare il cuore, se l’incantesimo non lo avesse si­gillato in una bara incatenata tra le costole. Quando bisbigliava al mio ingenuo orecchio dolci promes­se di una nuova esistenza – addirittura migliore della splendida infanzia vissuta a Tebessa – mi convincevo che il suo affetto sa­rebbe bastato a lenire la sofferenza provocata dalla morte dei nostri genitori. Non avrei mai potuto immaginare di ritrovarmi abbandonato da lei nel medesimo modo, che mi sarebbe stata strappata via prematuramente dalla mano assassina dei nemici della stirpe reale. Era così giovane, sebbene di cinque anni più grande di me. Troppo buona e innocente per la fine che le è toccata. Non riu­scire a rammentare i suoi ultimi istanti, le parole che forse mi ha rivolto appena prima di andarsene, è una colpa che pesa sulla mia coscienza e per la quale non mi posso perdonare. I medici di corte sostengono che la violenza del suo trapasso, unita ai danni cerebrali da me riportati durante il terribile scon­tro ingaggiato nel tentativo di proteggerla, abbia comportato sia l’iniziale perdita di memoria relativa a quell’infausto giorno sia gli episodi di blackout verificatisi in seguito, di solito proprio in corrispondenza dell’anniversario del suo omicidio. Sono anche convinti che quanto accadutole sia la principale causa scatenante della depressione, dell’ansia e degli episodici at­tacchi di panico, ma io mi ostino a scartare questa ipotesi. Sono il primo a ignorare il perché. Lancio un’occhiata all’orologio a pendolo umbertino appeso alla parete. Sarà meglio sbrigarmi a scendere per la colazione. Ho l’onore e il privilegio di godere di un invito perenne alla tavola del sovrano degli stregoni italiani. Sebbene la sua ispe­zione quotidiana mi metta a disagio, non posso certo esimermi dal presentarmi, possibilmente in orario. Nessuno a palazzo sa spiegarsi le attenzioni e la preoccupa­zione riservatemi dal re, me compreso. In quanto figlio di sua sorella, ho sangue nobile e il diritto di essere sostenuto econo­micamente dalle casse della famiglia Solaro, ma nulla gli impo­neva di accogliermi sotto il suo stesso tetto invece di siste­marmi in una delle tante proprietà in suo possesso sparse per il Paese. E niente lo costringe a trascorrere del tempo insieme o a tenersi informato circa il mio stato di salute. Sebbene mi abbia legalmente adottato quando ero ragazzo, prima della morte di Zora ci comportavamo come poco più di due estranei e solo in seguito il nostro rapporto si è evoluto. Parreb­be che il lutto per la perdita della nipote lo abbia addolcito, a differenza di quanto in precedenza accaduto a seguito del tra­passo di mia madre. Forse perché da quest’ultima si era sentito tradito quando, invece di convolare a nozze con un compagno adeguato al proprio rango e che avesse la sua approvazione, era fuggita con un umile stregone del deserto. La sala da pranzo privata del sovrano si trova al primo piano del fastoso palazzo. Una mostruosità che, tra le dimensioni dell’edificio e il terreno circostante adibito a parco, occupa circa sessantamila metri quadrati. Ho sentito mio cugino Ludovico, il principe ereditario, la­mentarsi del fatto che la Reggia di Versailles sia più estesa di quasi un ettaro. Lo zio si è premurato di fargli notare che nes­suno deve occultarne la vista con incantesimi tanto sofisticati da ingannare persino le rilevazioni satellitari, così da mantene­re la propria esistenza segreta agli esseri umani. In effetti, per quanto ne sanno i mortali, la zona a sud del fiume Toce – in corrispondenza dell’area che va dal Parco Na­zionale della Val Grande a Ornavasso – è incolta e disabitata fino all’altezza della città di Forno. Seppure di recente la nostra gente si sia rivelata alle loro au­torità, seguendo l’esempio di altre razze soprannaturali, abbia­mo condiviso solo lo stretto indispensabile e continuiamo a mantenere il riserbo su molti aspetti della nostra vita e cul­tura, inclusa la collocazione dei luoghi da noi maggiormente frequentati. A essere sincero, apprezzo sia il relativo isolamento della dimora reale sia la vastità della tenuta che, con qualche abile accorgimento, mi concede spesso l’illusione di essere solo. È l’ostentazione di ricchezza annidata dietro ogni angolo a infa­stidirmi, l’accozzaglia di oggetti superflui ed eccessivi elementi di arredo di ogni epoca e foggia, accomunati da poco o niente oltre al prezzo vertiginoso. L’inutilità di quanto mi circonda ri­sulta lampante e il pensiero della vacuità di tanta bellezza fini­sce per renderla grottesca ai miei occhi. Lungo il cammino incrocio la strada di alcuni membri della corte, nobiluomini e nobildonne occupati in fitte discussioni sussurrate, intenti a tessere intrighi politici e a progettare mano­vre atte a entrare nelle grazie gli uni degli altri. Fabbricano un’intricata tela di inganni, senza rendersi conto di esserne vitti­ma a propria volta, in un gioco di potere che non ammette vin­citori. Mi rivolgono qualche sorriso di circostanza e si mantengono in disparte, cedendomi il passo. Non sono mai stato capace di fingere compiacenza e li ho presto costretti a rinunciare a ogni mira nei miei confronti. Consapevoli di non potersi guadagnare le mie simpatie e che, pur riuscendo nell’improbabile impresa, ne ricaverebbero ben poco, hanno desistito. Non ho interesse nello sfruttare la posizione privilegiata della quale godo né intendo intromettermi negli affari del so­vrano. Constatarlo mi provoca l’ombra di un di­spiacere. Una volta ero un idealista, sognavo di cambiare le cose, di portare una ventata d’aria fresca qui sulla penisola. Adesso che a stento riesco a tenere insieme i pezzi di me stesso, ho abbandonato qualsiasi ambizione. Pur trascorrendo le giornate ad aggirarmi per i corridoi del palazzo come un’ani­ma in pena, pur non avendo altro da fare se non affliggermi e correre a rinchiudermi il prima possibile nelle mie stanze come un vecchio orso nella sua tana – impegnandomi giusto a so­pravvivere ad altre ventiquattro terribili ore – ritengo di non avere tempo da perdere con ir­realistici desideri di sovvertire l’ordine prestabilito per inondare di luce lo stantio mondo degli stregoni, intrappolati in una gabbia di antichi costumi, statici ormai da secoli, bisognosi di rinnovamento e apertura. Forse in gioventù ho avuto la tempra del ribelle e del condottiero, ma ora che, nonostante l’età, mi sento già decrepito, sono preda di un’oscurità tale da necessita­re soccorso, lungi dal trovarmi nella posizione di poter salvare qualcuno. Quasi giunto a destinazione, mi imbatto in Milena Novarino, probabilmente diretta alla sala del Consiglio. Una delle poche persone, all’interno della tenuta, a svolgere a tutti gli ef­fetti un’attività di utilità pubblica. Avvocatessa e figlia di un magistrato, presta consulenza tecnica durante le assemblee in sede alle quali i delegati del re prendono decisioni in merito a questioni a loro demandate. Resasi conto della mia presenza, inclina il capo e mi rivolge uno sguardo carico di significati. I suoi occhi grigi cercano i miei e, mentre mi passa accanto, dita leggere mi sfiorano le nocche con discrezione. Ha un viso naturalmente pallido, dai tratti dolci, pelle liscia e capelli castani odorosi di vaniglia legati in una coda di cavallo. Non indugia e prosegue come se la mia reazione a quel pic­colo contatto non la interessasse. Sospetto in realtà che l’appa­rente indifferenza sia un meccanismo di difesa, un espediente per mantenere salda la dignità e impedirmi di ferirla. Per qualche assurda ragione, tuttavia, si ostina a lasciare aperto uno spiraglio del suo cuore per me. Mi basterebbe una parola – o ancor meno, un semplice gesto – per averla, eppure il solo pensiero mi fa rivoltare lo stomaco. Il fantasma del suo tocco mi aleggia sul dorso della mano come un marchio d’infamia, l’invisibile prova di un atroce peccato. Devo fermarmi a prendere fiato e, facendo respiri profondi, a rafforzare le mie barriere mentali, timoroso di vederle crollare come l’ultima volta. Due anni fa ho commesso l’errore di illudermi di poter indul­gere nel piacere promesso dalle sue labbra morbide e piene, dalle forme delicate e femminili del suo corpo minuto. Soltanto un folle, quale io sono, potrebbe impe­dirsi di desiderarla, eppure fin da subito, nell’avvicinarmi, sono stato preso da insensato disgusto. Mi sono costretto a ignorarlo, a compor­tarmi nel modo più sensato, finendo per mettermi in imbarazzo e umiliarla in maniera imperdonabile. L’esperienza peggiore della mia vita. Ogni parte di me si ribellava al contatto, mi urlava che ciò che stavo facendo era contro natura. Sudavo, tremavo, avevo le vertigini. Non riesco a spiegarmi come possa essere ancora attratta da me dopo avermi visto vomitare l’orgoglio assieme all’ultimo pasto, quel giorno. Se anche non avessi l’assoluta certezza di reagire similmente, basterebbe la vergogna a impedirmi di fare un nuovo tentativo. Non sono mai stato uno sciupafemmine, ma un tempo amavo le donne, perdermi in loro per assaporare momenti di dolcez­za, di pace lontana dal tempo. Il sesso è solo l’ennesimo fram­mento di normalità del quale sono stato privato. La consolazio­ne della carne non è più un’opzione praticabile. Per assurdo, tuttavia, nemmeno mi manca, se non in astrat­to. Sento nostalgia di un’indefinita sensazione di effimera com­pletezza, ma non mi sorprendo mai a rimpiangere la passione, non mi scopro a desi­derarla nemmeno in segreto. Ormai privo di simili impulsi, non riesco a trarre piacere da nulla. «Tahar», mi chiama lo zio. La sua voce mi riscuote dalle mie riflessioni e scopro di aver percorso l’ultimo tratto di strada in au­tomatico. «Mio signore», lo saluto, esibendomi in un rispettoso inchi­no e sperando di non aver indugiato troppo a lungo sulla porta. Lui risponde con un ozioso cenno del capo e mi scruta con occhi di ghiaccio, così innaturalmente chiari da farmi sospetta­re possa scorgere oltre qualsiasi velo posto a occultare la realtà, forse persino al di là della barriera che separa il regno mortale da quello dei defunti. Ma sono solo sciocche supposizioni det­tate dal senso di soggezione. Sorseggiando con cautela il suo caffè bollente, indaga in si­lenzio sul mio attuale stato di salute, fisica e mentale. Un imba­razzante controllo al quale mi sottopongo stoico, come ogni mattina, consapevole di essere considerato al pari di una bomba a orologeria pronta a esplodere. Raggiungo la tavola riccamente imbandita e siedo alla sua sinistra, di fronte a Ginevra Abati. Al momento i miei cugini si trovano all’estero: la giovane Diletta in Finlandia, ospite della corte di re Arvo Heikki Saari­nen, Vittoria e Benedetta in Croazia con la madre, in visita da alcuni parenti, e Ludovico in India, in missione per conto del sovrano. Quest’oggi, dunque, il capofamiglia dei Solaro può concedersi di indulgere nella compagnia della sua più fidata consigliera senza timore di offendere i parenti. La natura controversa della presenza della Profetessa a pa­lazzo non è dovuta a un’eventuale ambiguità dei loro rapporti, quanto piuttosto alla sua appartenenza a una razza considerata empia e inferiore alla nostra. Si tratta infatti di una Dotata senza natali degni di nota, venuta al mondo tra gli esseri umani. A differenza degli stregoni – in grado di lanciare incantesimi volti a raggiungere gli scopi più disparati, di produrre amuleti e di distillare pozioni – i Dotati possiedono un’unica e immutabile capacità soprannaturale, diversa per ciascuno di essi e attribui­tagli secondo criteri in apparenza casuali. Le nostre abilità risultano più ampie, raffinate e complesse e, pur essendo frutto di potenzialità innate, possono essere in gran misura accresciute dal duro allenamento. I loro talenti, al con­trario, si manifestano sin da subito nella forma più evo­luta e appaiono rozzi e istintivi, privi di qualsivoglia rituale e spesso anche di intenzionalità. Eppure, nell’esercizio di tali Doni, i Dotati eccellono e si dimostrano al di sopra delle possibilità di qualunque membro del mio popolo. Nessun incanto può eguagliare gli effetti dell’opera di una di queste misteriose crea­ture. Le origini della loro esistenza rimangono ignote, ma l’ipotesi più credibile e accreditata li definisce canalizzatori di Eredità perdute, inconsapevoli ladri di Lasciti. È risaputo come ogni stregone morente abbia la possibilità di convogliare le proprie energie in un sacrificio finale, che non può prescindere dall’accettazione dell’arrivo della sua ultima ora. Si crede che un’Eredità racchiuda in sé l’anima stessa di chi la dona a un amico, a un amante o a un discendente. Il risultato della procedura, definito Lascito, somiglia troppo a un Dono perché tale affinità possa non indicare un legame tra le due realtà. E se le Eredità mai prodigate di coloro che non hanno avuto il tempo, la forza o il coraggio di fornire un Lascito prima di morire vagassero invisibili in cerca di qual­cuno di degno e prendessero forma nel ventre fertile delle donne umane, laddove una nuova vita non sia stata influenzata dal mondo e risulti quindi ancora pura e plasmabile? E se si convertissero in Doni, modificando per sempre l’essenza dei nascituri e rendendoli speciali? Non mi pare una teoria tanto improbabile e, sebbene alla sua luce in molti considerino i Dotati degli impostori, io preferirei vederli come fratelli. Non provo disprezzo nei loro confronti, non ne sono infastidito né mi sento defraudato di qualcosa, ma c’è chi direbbe che posso permettermi di non odiarli perché godo in prima persona dei benefici dell’Eredità di uno dei miei genitori, a differenza di quanti non vantino invece alcun Lasci­to. In effetti, può darsi sia per questo che ne sono attratto, incu­riosito come da un rompicapo la cui soluzione, seppure sfug­gente, sembra a portata di mano. C’è qualcosa di familiare in loro, che non sono ancora stato in grado di identificare, ma la cui ricerca mi ricorda la sensazione di avere una parola proprio sulla punta della lingua. «Sto preparandomi a partire», mi informa mio zio, prima di addentare una fetta di pane integrale ricoperta di burro e mar­mellata di more. Sfidando le leggi della fisica, riesce a non intaccare per niente il candore dei folti baffi, quasi fosse incapace di sporcar­si, troppo intrinsecamente impeccabile per doversi misurare con simili inconvenienti plebei. Bevo un sorso di tè verde e mi rassegno a pasteggiare con khfaf, una torta di semolino, e tcharak, croissant di pasta di mandorle. Pur impegnandosi a preparare pietanze tipiche della mia terra d’origine, i cuochi della reggia a colazione si ostinano a propinar­mi una sfilza di dessert, anziché pane bianco e cou­scous. Lamentarmi con il re, tuttavia, è fuori discussione e, seppur infastidito, non lo sono abbastanza da prendere provve­dimenti. «Mancano ancora un paio di giorni alla Riaffermazione, ma intendo assentarmi per una settimana e svolgere alcune incom­benze lungo il tragitto verso la cripta», continua. «In seguito alla cerimonia, rimarrò nei pressi del cimitero il tempo necessario a recuperare le forze.» In occasione dell’anniversario della sua incoronazione, dovrà recarsi ove riposano i resti dei nostri passati sovrani. L’ubicazione della Necropoli dei Re è nota solo ed esclusiva­mente a lui e alle Ancelle, streghe votate al ruolo di ministri re­ligiosi, che hanno dedicato la vita alla custodia dei luoghi sacri e alla protezione dei prescelti ammessi al cospetto delle entità che in essi dimorano. Una volta lì, il signore degli stregoni avrà il compito di evocare gli spiriti dei suoi predecessori affinché ne giudichino il recente operato e lo reputino degno di conti­nuare a guidare il popolo per un altro anno. Quando sarà giunto il momento di cedere il posto alle nuove generazioni, intraprenderà il viaggio per l’ultima volta al fianco di Ludovico, pronto a presentarlo ai Grandi Padri nella speran­za che gli permettano di eleggerlo suo successore. Sebbene di rado, è capitato che il primogenito fosse rifiutato in favore di un fratello ma, essendo mio cugino l’unico figlio maschio dei Solaro, non esistono alternative: si tratterà di una semplice formalità. «Avrei bisogno di un favore da te, Tahar. Mi ritrovo a non poter gestire in prima persona una situazione che preferirei non dover rimandare e che, tra l’altro, ritengo potresti sbrigare in maniera eccellente e senza grosse difficoltà.» Rivolge alla Profetessa uno sguardo d’intesa e, con un movi­mento quasi impercettibile delle sopracciglia, sembra cedere a lei la parola. La signora Abati si rigira tra le mani un bicchiere di succo d’arancia semivuoto, tamburellandovi sopra le dita. Un sorriso nervoso le tira le labbra e, quando parla, lo fa al piatto di pan­cake zuppi di sciroppo d’acero che ha davanti, perché si rifiuta di guardarmi negli occhi. «Siamo venuti a conoscenza di un incidente verificatosi a Valgrisenche. Ancora non sappiamo se sia il risultato dell’erro­re di un principiante oppure un atto premeditato, ma il nucleo abitato è stato colpito da un incantesimo di quinto livello e, prima di preoccuparci di attribuire responsabilità, sarebbe il caso di limitare i danni, annullandolo e accertandoci di non compromettere la segretezza dell’esistenza degli stregoni.» «Ginevra ti accompagnerà», mi comunica lo zio. In buona sostanza, alla veneranda età di trentasei anni, ho ancora bisogno di una balia. Mi domando cosa tema. Niente di quanto potrei combinare in preda all’angoscia esistenziale lo danneggerebbe. Forse, se riuscissi a scorgere in lui il minimo accenno di tenerezza, potrei convincermi di stargli a cuore, invece ho l’impressione di non cogliere una fondamentale – e soprattutto rivelatrice – sfu­matura del suo agire. Ciononostante, sorvolo. «Spero di potermi rendere utile», mento. Non mi importa affatto. Anche mentre simulo interesse ponen­do ulteriori domande e informandomi sulla situazione, mi avvolge una cappa d’indifferenza.
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