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Ombra di morte

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Blurb

Dopo tre morti misteriose, la notizia che un velenosissimo serpente si aggira libero nel Parco del Farneto getta la città di Trieste nel panico.Com’è arrivato fin lì? Cosa si può fare per neutralizzarlo?La polizia è mobilitata in forze, mentre un giovane erpetologo, Daniel Peruzzi, segue una sua pista personale e si innamora di Martina Guerrini, una giornalista.I giorni passano e la tensione cresce: le ricerche non danno esito, e intanto il serpente continua a colpire, inafferrabile, aggressivo, mortale. 

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CAPITOLO 1
CAPITOLO 1 Era una semplice cassetta di legno compensato, con l’interno foderato di rozza tela fissata su cartone, e dei fori praticati sul coperchio e sui lati. Misurava sessanta centimetri di lunghezza, cinquanta di altezza e larghezza e, compreso il suo contenuto, pesava circa sette chili. Per una persona che non avesse avuto le dimensioni di Andrea Servini, la casetta avrebbe costituito un fardello piuttosto ingombrante. Lui, invece, se la portava agevolmente in giro incastrata sotto il suo lungo braccio. Attraversò la strada che dal porto conduceva al bar ed entrò. Il locale era frequentato per la maggior parte da uomini dalla carnagione scura, sull’olivastro, e i grossi baffi neri; addentavano dei panini in modo famelico, parlottando tra di loro; qualcuno rideva a gran voce, singhiozzando e facendo sobbalzare le grosse spalle. Servini, in camicia bianca a maniche corte e pantaloni neri, attraversò il locale e prese posto al banco, poggiando la cassetta sul ripiano. Ordinò una birra media e si guardò attorno per qualche secondo. Animale e cassetta li aveva avuti in Africa, da un greco, in cambio di una manciata di fiche per giocare a poker. Il greco aveva sostenuto che si trattava di un esemplare raro, acquistato a prezzo d’occasione da un poliziotto di Lubumbashi il quale affermava di averlo confiscato a un nero dell’interno. Servini aveva accettato quello scambio con l’idea di lasciare libero l’animale da qualche parte, nella sua città, per farsi quattro belle risate. Poi, passata la sbornia, aveva deciso di portarselo a Trieste per venderlo a qualcuno. Aveva, quindi, portato la cassetta nella sua cabina, l’aveva sistemata sotto la cuccetta e, durante i giorni di viaggio, a parte qualche spruzzatina d’acqua attraverso i fori, non se n’era più occupato. Servini vide un telefono in un angolo. Si alzò dallo sgabello e si recò all'apparecchio. Compose un numero e dovette attendere qualche secondo. “Maria? Sono io”, disse. “Ah, quello che va e che viene”, rispose la voce femminile all’altro capo. “Ehi, tesoro”, disse con tono suadente: “Cerca di essere un po’ più affettuosa, sono reduce da sei mesi di mare.” “Sei mesi? Ma se è da un anno che non ho più notizie di te!” “Però, ogni notte ho sognato la mia bellissima Maria.” “E allora continua a sognare”, sbuffò lei. “Aspetta, ho qualcosa da darti”, e lanciò un’occhiata alla cassetta posta sul banco, vicino allo sgabello da lui occupato fino a un attimo prima. Nessuno pareva prestarle attenzione. “Devo vederti, Maria. Mi sei mancata sai?” “Ora devo andare. Ho da fare.” “No, ascolta. Ho qualcosa per te. Un regalo.” La donna esitò per qualche istante. “Se si tratta di una stupida statuetta come quella che mi hai portato l’ultima volta, sai benissimo cosa devi farne”, disse con un sospiro d’impazienza. “Per essere sincero, non ho avuto il tempo di comperarti un regalo, e così ho pensato di darti del denaro. Non ti offendi, vero?” La donna si ravvivò. “Mi vuoi dare del denaro? Quanto?” “Oh, non sciupare la sorpresa, tesoro. Comunque, tanto perché tu te ne faccia un’idea, ti dirò che si tratta di una cifra con quattro zeri.” “Bé, va bene. Ma non andartene a zonzo in cerca di guai.” “Sarò da te fra un’ora, due al massimo, tesoro. Non appena avremo finito lo scarico della nave.” Cinque ore dopo, aveva già bevuto più di tre litri di birra. Era passato da un bar all’altro, dal porto al centro città. In certi momenti, la cassetta cominciava a farsi pesante anche per lui, e Servini pensò più volte di liberarsene. Gli capitò perfino di dimenticarsela in un bar, all’imbocco del Viale XX Settembre. Quando tornò nel locale, vide che due cameriere l’avevano posata su di un tavolo e si davano un gran daffare per sciogliere il nodo della cordicella di Sisal con la quale era legata. Fu quasi tentato di non intervenire e di lasciare che dessero un’occhiata al contenuto, ma poi ci ripensò. Gli avevano detto che, sebbene l’animale fosse molto probabilmente in letargo, non c’era da fidarsi troppo: poteva schizzare fuori dalla cassetta da un momento all’altro. Perciò, Servini riprese il suo pacco e, dopo aver rivolto un sorriso da beone alle due cameriere, se ne andò. Facendosi largo tra i passanti, mentre ampie gocce di sudore iniziarono a grondargli sulla fronte, fece alcune soste nei locali del viale, per piegare poi in via Giulia. Attraversò la Piazza dei Volontari Giuliani e puntò verso il centro commerciale. Ora, era l’unico cliente rimasto in un baretto di Via Giulia, poco distante dal Parco del Farneto. Il barista aveva appena spento l’aria condizionata per indurlo ad andarsene. Servini sollevò la cassetta, pagò il conto e cacciò nella mano del barista dieci euro di mancia. Questi, un uomo tarchiato, sui cinquanta, dai pochi capelli radi sul retro della testa, borbottò un ringraziamento. “Cosa c’è in quella cassetta?”, volle sapere. Quella domanda gli era stata fatta spesso da quando aveva lasciato il porto e lui, a seconda dell’umore del momento, aveva risposto: “Un gattino”, oppure: “Niente che ti riguardi”. In entrambi i casi, il suo aspetto da gigante, aveva fatto sì che l’interlocutore non insistesse con le domande. Questa volta si limitò a strizzare l’occhio, poi prese la cassetta sottobraccio e uscì. Erano quasi le dieci e tre quarti di sera, ma le tenebre avevano diminuito di poco la calura di quella giornata di giugno. Con una strana andatura incerta, in parte baldanzosa e in parte vacillante, Servini si diresse verso le scalette che conducevano al Parco del Farneto, passando davanti all’ingresso, ormai chiuso, del centro commerciale. Barcollò all’ingresso del parco, mentre la sua sagoma si confondeva con le tenebre. Lo attendevano ancora trenta minuti circa di camminata per raggiungere la parte alta del bosco, che l’avrebbe portato al rione di San Luigi, dove risiedeva. Servini si inerpicò lungo un sentiero lastricato, in salita, e raggiunse una curva a gomito. Passò davanti a una mappa del parco rischiarata dalla luna e resa illeggibile da alcuni writers del posto, che l’avevano ridotta a una lavagna chiazzata da macchie rosse e azzurre. L’uomo brontolò qualcosa e continuò ad avanzare lungo il sentiero che si snodava tra le roverelle e le querce. Passò davanti a un’area di sosta, fornita da due panchine in legno dove la gente soleva, di giorno, fermarsi per fare un pic-nic o per fumarsi una sigaretta. La luna rischiarava il sentiero, facendolo rifulgere di un biancore spettrale. Biancore che si disperdeva tra le fronde degli alberi, dove le tenebre erano pressoché palpabili. Servini sentì un fruscio improvviso alzarsi alla sua destra e, girandosi a guardare, vacillò sulle gambe. Una sagoma saettò veloce tra gli alberi con grandi balzi e scomparve nella selva. L’uomo aveva individuato due piccole corna su quella che doveva essere la testa dell’animale: un capriolo. Sorrise tra sé e continuò lungo il sentiero, barcollando vistosamente. Arrivò a un’altra curva a gomito e puntò sul sentiero di destra, risalendo verso la zona che vedeva eretto un piccolo parco giochi per bambini e una zona adibita a parcheggio: l’entrata principale del parco. Sarà stato per le bevute fatte finora e per le salite che era costretto a fare che sentì, di colpo, un forte bruciore allo stomaco. Si fermò a metà sentiero piegandosi in due e fece ampi respiri profondi; la cassetta sempre tenuta sotto al braccio. Si riprese. Adesso la testa gli ronzava e pulsava, come se uno stormo di zanzare assetate avesse preso vita nel suo cervello, svolazzando in giro e pungendolo con le protuberanze aguzze. Servini si arrestò di colpo, mentre delle gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte; si piegò di nuovo in due e questa volta riversò al suolo gran parte dell’alcol che appestava il suo stomaco. Il conato era forte e le spalle dell’uomo sobbalzavano a ogni rigetto, mentre la sua voce, resa roca dagli spasmi, si disperdeva nel silenzio della notte. Fu allora che la cassetta gli scivolò da sotto il braccio e rovinò al suolo con un tonfo sordo, facendo sobbalzare il coperchio che si aprì di uno spiraglio, finendo di traverso. La corda di Sisal impedì che il coperchio saltasse in aria del tutto. Servini non se ne accorse, preso com’era a vomitare sul sentiero. Si riprese dopo qualche minuto, mentre il suo corpo veniva ancora scosso da profondi singulti. Si portò una mano alle labbra per asciugarsele, poi si abbassò sulla cassetta e allungò una mano, ancora tremante, verso di essa. Si arrestò di colpo: lo sguardo basso, le labbra leggermente dischiuse e gli occhi sgranati. All’interno della cassetta, Servini notò due puntini luminosi che parevano fissarlo e una massa scura in lento movimento. Poi, i puntini luminosi si fecero più grandi e una specie di colonna prese a salire verso il bordo. Con un gesto istintivo, l’uomo si abbassò sulla cassetta e ne afferrò il coperchio, per cercare di portarlo alla sua corretta posizione. Ma, prima che avesse il tempo di farlo, l’animale scattò in avanti e l’uomo avvertì il dolore acuto di una puntura alla mano destra. Ritirò in fretta la mano lanciando un grido roco. Si guardò le dita graffiate. Per fortuna, l’animale l’aveva preso di striscio, forse con un dente solo. Le gocce di sangue risultavano nere alla luce della luna. Poi, però, gli occhi di Servini si sgranarono dal terrore. L’animale aveva cacciato fuori la piccola testa e stava scivolando lungo il bordo della cassetta. Una forza misteriosa teneva l’uomo inchiodato lì, paralizzato, a guardare quel corpo sinuoso che, con moto lento e uniforme, continuava a venir fuori interminabilmente, finché la coda sottile non vibrò sul bordo della cassetta. Solo allora, Servini si destò come da un sogno; decise di muoversi molto lentamente. Doveva proseguire lungo il sentiero e l’animale gli sbarrava la strada. Si mosse leggermente, di lato, cercando di aggirarlo. Mosse un passo, poi un altro, trattenendo il respiro. La mano ferita aveva preso a pulsargli, a prudergli, come se una moltitudine di formiche gli stesse scorrendo sulla pelle. Prima che avesse il tempo di compiere un altro passo, la testa dell’animale scattò rapidissima in avanti. Servini si girò per evitarlo, ma fu troppo lento nel movimento: sentì un colpo e provò un dolore lancinante alla coscia, come se gli avessero trapassato la pelle con uno spillo. Non ebbe nemmeno il tempo di muoversi, che quella piccola testa scattò di nuovo. L’animale riaffondò i denti quasi nel medesimo punto. Servini emise un grido roco, fece un balzo in laterale e prese ad arretrare di una dozzina di passi, sempre tenendo d’occhio l’animale. Questo sembrava scrutarlo intensamente: i due puntini luminosi scintillavano nel buio. L’uomo si guardò le gambe, ma il colore nero dei pantaloni gli impediva di scorgere le macchioline di sangue che sgorgavano dai fori. Quando rivolse di nuovo lo sguardo verso l’animale, emise un gemito di terrore. Stava avanzando verso di lui, con la testa a quasi un metro da terra. Servini lanciò un grido roco e si mise a correre all’impazzata lungo il sentiero. Mentre l’uomo si allontanava, l’animale abbandonò il sentiero inoltrandosi in mezzo all’erba. Di lì a poco, sparì nel buio. Andrea Servini corse per cinque minuti lungo il sentiero, in preda al panico, poi rallentò, ma solo per un attimo: il tempo necessario a girarsi per guardare indietro e vedere se l’animale lo stesse inseguendo. Ma, ormai, la sua attenzione era focalizzata sulla ferita e, ogni tanto, allungava la mano per toccarsi il punto in cui era stato morso. Non c’era gonfiore e, se si eccettuava quella sensazione di puntura, continuava a non sentire dolore. Però, cominciava a sentirsi la testa vuota e a respirare con difficoltà. Inoltre, gli sembrava di aver perso il senso dell’orientamento e non gli riusciva di trovare la strada giusta per uscire dal parco. Senza rendersene conto, si trovò oltre al sentiero, tra gli alberi e l’erba, in un groviglio di cespugli. Riprese fiato, ampie inalazioni d’aria, e si guardò attorno frastornato. La luna rischiarava il sentiero che rifulgeva come fosse una lingua biancastra. L’uomo puntò in quella direzione, aprendosi un varco con le mani tra la vegetazione. Il respiro gli si faceva sempre più difficile. Sapeva che l’unica cosa da fare era andare subito in ospedale, ma le gambe gli si erano fatte così deboli che, ormai, più che correre, arrancava. Dopo pochi istanti, fu costretto ad aspirare con forza l’aria per riuscire a immetterla nei polmoni e le braccia gli si erano fatte così pesanti che poteva a malapena muoverle. Quando volle chiamare aiuto non riuscì a emettere altro che un suono simile al gracidare di una rana. Il fastidio della puntura stava ora invadendogli tutto il corpo. Mentre arrancava verso l’uscita principale del parco, non sentiva più le gambe; tuttavia continuò ad avanzare, strascicandosi un passo alla volta. Finalmente, tra gli alberi oscuri, vide apparire delle finestre illuminate. Era vicinissimo all’uscita. Si mosse rapidamente in quella direzione, arrancando, bestemmiando, e finalmente raggiunse l’entrata principale. Attraversò il parcheggio vuoto, con i piedi che si trascinavano nella ghiaia facendola scricchiolare e gemere a ogni passo. Lasciò il parco incespicando. Iniziò ad attraversare la strada, ma cadde prima di raggiungere il marciapiedi opposto. Scorse, attraverso gli occhi semichiusi e annebbiati, il bagliore di due fari che avanzavano verso di lui. Non tentò nemmeno di muoversi: sapeva che stava per morire, proprio lì, nel bel mezzo di via Marchesetti. L’agente Fabrizio Scleri, alla guida di un’autopattuglia in servizio nella zona, vide un uomo uscire barcollando dal Parco del Farneto, lanciarsi sulla sede stradale e rovinare al suolo. Diede un colpo di acceleratore per avvicinarsi e, prima ancora d’avere il tempo di azionare il freno, il suo collega, l’agente Mauro Aronica, era già sceso dalla vettura e si era inginocchiato accanto al corpo esanime. Scleri accese il faro girevole sistemato sul tettuccio dell’auto e scese a sua volta.

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