I - 40 yard
Respira.
Respira.
Respira.
Sei in salita, dosa lo sforzo.
Dosa lo sforzo. Ritmo.
Così… così…
Perché mi sento così stanco? Le gambe mi pesano.
Dovevo fare più allungamento.
Forse è il caldo. È molto più caldo di ieri.
Cinque giorni. Devo darci dentro per cinque giorni.
Ritmo. Tieni il ritmo.
Concentrati. Non disperdere le energie.
Lo zaino mi dà più fastidio del solito.
Tutta la gamba.
Spingi con tutta la gamba, non solo col polpaccio.
Ok, buon ritmo.
Bene.
Non mollare. Forza.
Sei quasi arrivato.
Ok, adesso posso spingere un po’ di più.
Respira.
Un passo dopo l’altro.
Non ce la faccio più.
Respira!
Che caldo! Sto grondando.
Respira.
L’ultimo sforzo. Resisti!
Resisti.
Zolle di terreno secco si sfibrano sotto i suoi passi. L’inverno è ormai un ricordo, anche se non è finito da molto, e da un paio di giorni il caldo improvviso è presagio dell’estate. Densi ciuffi di erba rendono irregolare il terreno e complicano il rapido susseguirsi dei passi. Luca non sta seguendo un vero e proprio sentiero, sta salendo la collina tagliando il pendio nel mezzo, nel tratto più ripido. In cima, davanti a lui, tre cipressi, uno accanto all’altro, a segnare la meta; in mezzo ai cipressi c’è una specie di sedile naturale, da cui può ammirare tutto il suo piccolo paese. Nei suoi infiniti pomeriggi di allenamento, negli ultimi anni, ha visto il panorama cambiare: le poche case, tra cui quella dei suoi genitori, sono diventate un complesso residenziale ampio e ben ordinato, e nuove strade hanno lambito la sua zona di allenamento, che per fortuna è rimasta intatta. Non dà più il senso di qualcosa di selvaggio e lontano dal mondo, ma è pur sempre il primo baluardo della natura dopo la città.
Oggi Luca respira affannosamente. Ha corso anche ieri ed è una cosa che fa ormai tutti i giorni da tre anni a questa parte, ma lo zaino toglie fluidità ai movimenti. Luca si concentra sull’azione delle gambe, cerca di essere reattivo nell’appoggio, di sollevare il ginocchio fino al punto giusto, di recuperare subito il movimento di una gamba e poi dell’altra. Di solito non ne ha bisogno. Di solito fa tutto d’istinto, naturalmente. Ma oggi sta lavorando su di sé per mettersi alla prova. Guarda la terra, seccata dal sole improvviso, studia i cespugli per gestire l’appoggio dei piedi nel modo più favorevole, segue il ritmo della respirazione. Il sudore gocciola dal naso; gli occhi bruciano. Con le braccia e le spalle prova a dare uno stimolo in più al suo fisico che si oppone allo sforzo, il cuore pulsa le poche energie residue alle periferie del corpo. Controlla il cronometro: 35 minuti, ottimo tempo. Ha tirato molto, forse troppo. Cinque minuti sotto il suo tempo record incidono. Torna a concentrarsi sui muscoli: a un certo punto la corsa diventa solo una questione di testa. Alza gli occhi e guarda i cipressi, la meta è vicina. È esausto. Le gambe non rispondono più ai suoi comandi. Con la maglietta fradicia raccoglie il sudore della fronte e prova a lenire il bruciore degli occhi. Perché lo sto facendo?, si chiede. E la sua mente torna indietro di qualche giorno…
Avevano stravinto tutte le prime partite della stagione. Il coach aveva notato che Luca, ogni volta che partiva dietro al quarterback, passava in mezzo alla difesa avversaria come Speedy Gonzales, o lasciava i blocchi come Bee-Beep che scappa da Willy Coyote. A un mese dall’inizio del campionato, dopo l’avvento della primavera, nel culmine della forma dei suoi giocatori, aveva voluto misurare i loro tempi sulle 40 yard. I suoi assistenti avevano fatto partire e fermato il cronometro per ciascuno, ma solo quando si era trattato di Luca, lui stesso aveva stoppato il tempo, aveva fissato il timer, aveva deglutito e aveva pensato: merda! Aveva poi riprovato i tempi sulle 50 yard: “Voglio vedere quanto tempo ci mettete a portare quella fottuta palla in meta!”. Ma questa volta, la corsa di Luca l’aveva anche guardata, controllando la sua progressione. “Bene” aveva pensato “è il momento.”
Aveva trovato una scusa per rimanere solo con lui alla fine dell’allenamento e gli aveva detto: “Ehi Luca, è giunto il momento che tu te ne vada.” Proprio così: che tu te ne vada. Luca ovviamente non aveva capito: “Come coach, non mi vuoi più in squadra?”
Gli aveva spiegato che il ruolo del coach assomiglia a quello del quarterback, ed è per questo che il compito del quarterback è ritenuto quello fondamentale nel football: sta a lui decidere quando lanciare per mandare in meta il ricevitore. Se un quarterback non capisce quando è il momento buono e non coglie l’attimo è un fallito. E mentre il ricevitore corre non è ancora detto niente: dovrà fare una buona ricezione per finalizzare l’azione. Ma, se gli riesce, il pubblico si esalterà. “Il football è bello” aveva detto “perché è l’unico sport dove la gente si ricorda chi è andato in meta, ma soprattutto chi ha lanciato la palla. Ti sei mai ricordato di chi ha fatto il passaggio quando un attaccante fa goal nel calcio? No. Ma il football non è così. Se sei un buon quarterback, sai quando lanciare. E se sei un buon coach, in Italia, sai quando è il momento di dire a un tuo giocatore che non deve più giocare nella tua squadra.”
Gli aveva svelato che non aveva segnato 5 secondi e 65 centesimi, come aveva detto davanti a tutti. Aveva fatto 4 e 93. “Capisci cosa significa, ragazzo? Già il primo è un ottimo tempo. Ma quando scendi sotto i 5 secondi… No, Luca, non ti voglio nei Rockets Bologna” aveva concluso scuotendo la testa, “se puoi giocare nella NFL.”
Lo sto facendo per questo. Il ricordo di quel pomeriggio dà a Luca la forza per salire gli ultimi duecento metri di scatto. Arrivato in cima piega il busto, appoggia le mani sulle cosce e tira il fiato. Ci mette quasi cinque minuti a riconquistare un respiro normale. Prende un asciugamano e una bottiglietta dallo zaino, poi inizia la sua serie di esercizi, ben pianificata, fatta di respiri, muscoli, ripetizioni e sudore. Una sequenza esatta di gesti tesi a perfezionare il suo corpo. Infine si siede, in mezzo ai cipressi, a guardare un po’ la sua piccola città. Per un momento si perde con la mente dentro uno stadio pieno di gente, con la folla in delirio; il mondo scompare, il frastuono lo avvolge, un’orgia di colori e di sensazioni, ne vede i contorni: uno stadio grande come San Siro, o l’Olimpico... Scuote la testa, estrae dallo zaino un piccolo libretto bianco, un libro con le pagine gonfie e arricciate per l’uso frequente, lo apre in corrispondenza del segnalibro e legge:
Tu mi doni la forza di un bufalo,
mi cospargi di olio splendente.1
Luca l’aveva guardato attonito: “Nella NFL?”
“Ragazzo, tu fai 4 e 93 allenandoti tre volte alla settimana e giocando in un campionato dove il migliore sarebbe capace solo di fare il water-boy in America. La media dei tempi sulle 40 yard alla Scouting Combine di febbraio è stata di 4 secondi e 35. I più veloci hanno fatto 4 e 30. Lo sai qual è il record assoluto, ragazzo? Lo sai? Beh, se non lo sai te lo dico io: Bo Jackson, NFL Combine 1986: 4 secondi e 12 centesimi. Capisci cosa significa?” Il coach aveva sbuffato. Si era passato la mano tra i capelli, come se avesse un problema, come se da quello che stava per dire potesse dipendere qualcosa di fondamentale: qualunque cosa avesse deciso sarebbe stata per lui una sofferenza enorme. Poi aveva preso fiato. “Significa che se segni quel tempo lì allenandoti come una donnetta in un campionato minore, tu hai nelle gambe la potenzialità di prendertelo quel record. Se vai a giocare in America, per allenarti seriamente con una squadra vera, tu potresti competere con il miglior running back della storia del football... Cosa cazzo ci stai a fare nei Rockets Bologna?”
“Dici sul serio, coach?” Luca non aveva finto di rimanere sorpreso, e non aveva tradito emozioni eccessive: sapeva di essere il più veloce, sapeva che grazie alle sue corse e ai suoi touchdown stava portando clamorosamente la sua squadra alla terza vittoria consecutiva del campionato IFL. Erano “i suoi” Rockets nel vero senso della parola: una squadra non d’assalto, trasformata in una macchina da punti con un minimo di attenzione alla difesa; il resto lo faceva lui. Ma il coach non era abituato a rispondere alle domande. Era abituato a farle e a dare ordini. “Mercoledì prossimo, prima che arrivino gli altri, voglio farti i test precisi su tutte le sette prove della Combine, ok? Ti aspetto alle 18.30. Cerca di correre un po’ dopo Pasqua. Buona fortuna, ragazzo!” E gli aveva dato una pacca sulla spalla. Sembrava triste. Poi se n’era andato.
Seduto di fronte al tramonto del sole, sotto il tetto protettivo della cattedrale di cipressi, Luca pensa al momento in cui ci si prepara all’inizio della partita. Lo sa benissimo, ovviamente, che i segni scuri che si fanno sugli zigomi servono per non rimanere abbagliati dai riflessi, ma fin da quando era un ragazzino gli è sempre piaciuto pensarlo come un totem di guerra. Una striscia rossa e una gialla sotto gli occhi, una argento sul naso: i colori della sua squadra. Mi cospargi di olio splendente, pensa. Ripercorre la sua azione preferita e percepisce il fremito che gli incendia i muscoli. Il quarterback gli consegna la palla, blocco aggiunto del tight end per creare il piccolo varco necessario al centro, finta verso il lato dell’attacco forte e corsa in mezzo a sorprendere gli avversari: un’azione da running potente, mentre lui è agile e veloce, un tail back. Mi doni la forza di un bufalo. Dopo Pasqua il coach lo aspetta per le prove della Combine! Sarà il colore acceso del tramonto, l’adrenalina dello sforzo ancora in circolo, la forza evocativa di quei versetti del salmo, che Luca viene sopraffatto dall’emozione. Il battito cardiaco accelera, l’ansia gli riempie la testa, i pensieri vagano anarchici. Per la prima volta nella sua vita capisce che cosa siano la gioia e il terrore di poter realizzare un sogno.
Luca chiude il suo libro. Inspira profondamente la brezza di primavera, come a raccogliere questo momento nei suoi polmoni. Rimette tutto nello zaino, se lo carica sulle spalle e corre senza impegno giù per la collina. Non segue il percorso di allenamento, ma quello più diretto, e in pochi minuti giunge sulla soglia di casa, una piccola villetta bifamiliare, con accesso indipendente. Apre il cancello e attraversa con tre falcate il minuscolo giardino. “Sono tornato!” urla, spalancando la porta e liberandosi dello zaino. Si affaccia in cucina, dove sua madre sta preparando del pesce: “Ciao ma’, che si mangia di buono stasera?” Senza aspettare risposta, si attacca a una bottiglia d’acqua come se avesse traversato il deserto.
“Luca, ti ho detto mille volte di non bere a collo!”
“Che problema c’è, la finisco!” Le sorride, con l’onestà di un’evidenza impossibile da negare.
Lei ricambia il sorriso: “Hai fame?” si dichiara sconfitta.
“Puoi dirlo!”
“È per te, noi stasera siamo in chiesa.”
“In chiesa?”
“È Venerdì Santo...”
“Ah...” La mamma ci prova sempre, pensa Luca. “E il babbo?”
“Ci raggiunge là direttamente.”
Spera davvero che io vada con loro?! “Beh… io vado a fare una doccia… forse esco con Mike, dopo.” Recupera lo zaino e si allontana, sotto gli occhi di sua madre: “Tuo fratello deve dirti una cosa… e tu digli di prepararsi, per favore!”
Luca è già lì, con la testa dentro la porta: “Ehi, nanetto, hai sentito cos’ha detto la mamma?”
“Ho battuto il tuo record alla Play!”
“Ma figurati, è impossibile...”
“Vedrai, dopo ti sfido!”
“Sei spacciato!” Con la mano fa il gesto di sparargli, richiude e percorre ancora lo stretto corridoio verso camera sua; appoggia le chiavi sul letto, butta lo zaino per terra, si sfila la maglietta sudata e le scarpe. È infinitamente grato di questa sensazione di sentirsi a casa e di essere accolto ogni volta che rientra, un tardo pomeriggio dopo la corsa, la sera alla fine degli allenamenti, o la notte al ritorno dalle uscite con gli amici. Il football è il suo habitat, la casa il suo rifugio. Prende un pennarello nero, cerca uno spazio vuoto tra i libri riposti sulle mensole, le foto degli amici e i poster e scrive: 4,12. Proprio così: 4,12 bello grande, nero sul muro bianco.
In quell’istante preciso un’altra porta si apre, in un’altra casa, dalla parte opposta di Bologna. Stavolta, però, nessuno dice niente. Lì non c’è qualcuno che attenda un ritorno, chi prepari da mangiare o chi abbia voglia di condividere un gioco. Non c’è nessuno. Si sentono solo i movimenti stanchi di un uomo che ha esaurito le alternative ed è venuto a smaltire la solitudine a casa. Fuori è buio, ma la sera è iniziata da poco. La luce dei lampioni riflette un bagliore all’interno e lui si muove nella penombra. Un chiarore riempie la cucina nel momento in cui apre il frigorifero per prendere una birra, l’ennesima.
“Giulia?” L’uomo prova a chiamare sua moglie. Non ha mai perso il vizio di farlo, da quando si è accorto che lei a casa non tornava più fino a tardi. Quel nome buttato così, nel vuoto, di tanto in tanto e senza una vera ragione, nella speranza che qualcosa accada, che il silenzio si rompa. Per Pasqua andranno a trovare i genitori dell’uno e dell’altra, staranno ancora insieme e non si diranno nulla, se non poche frasi di circostanza.
Lui la ama ancora, ma lei non più. Glielo ha detto tre mesi prima, subito dopo Natale. Quell’anno era iniziato sotto una cattiva stella; seduto sulla poltrona della sua casa vuota, con la birra in mano, pensa a quella cattiva stella. L’ultimo atto del suo sortilegio si sta consumando. Attende solo il giorno in cui dovrà prendere i tempi di Luca in quelle maledette prove, ma sa già come andrà a finire: farà benissimo in tutti i test. Solo un allenatore incapace potrebbe esserne sorpreso. E a lui toccherà prepararlo per lasciarlo partire e perdere il migliore giocatore che abbia mai avuto. E non avere fra le mani uno dei migliori atleti che lo sport ricorderà. E dimenticare la soddisfazione di vincere, l’unica ragione di vivere. Ci vuole un’infinita forza di volontà a preoccuparti degli altri quando stai male tu stesso. Che idiozie ha detto a Luca la settimana prima! Nessuno ricorderà un allenatore sconosciuto che ha lasciato andare il suo tesoro… Qualche volta anche il quarterback va a segnare il touchdown della gloria, e quando accade diventa un dio. Lui, invece, scomparirà nel nulla. Vorrebbe opporsi al suo destino e prova a escogitare come rimanere sul carro della vittoria, ma vede soltanto sconfitta e umiliazioni: le beffe di uomini che guadagnano milioni di dollari e ridono di lui senza neanche sapere il suo nome, e il campionato italiano tornato nei ranghi di uno sport minore e giocato malino, senza più entusiasmi, slanci e sogni di gloria.
È finita la birra... Mentre valuta se andare a prenderne un’altra, ricorda quando arrivò Luca in squadra, un adolescente con il fisico di un giaguaro, e si vergogna di sé.
Allora allenava i Rockets già da tre anni, un gruppo di giovani ben motivati, capaci appena di tenere la palla da football tra le mani. Tra tutti gli sport che potevano piacergli, lui aveva deciso di dedicarsi a questo, per insegnare ai ragazzi a non abbassare la testa quando qualcuno ti guarda negli occhi e a sfidare l’avversario su un campo fatto di regole e di battaglie. Era il suo orgoglio. Non aveva figli e il suo modo per stare vicino ai giovani era quello. Era una delle poche cose che sapeva di fare bene e lo faceva per passione, non per altro, ma quando hai assaggiato il sapore della vittoria non vuoi più sentire il gusto acre della sconfitta. Vincere non è mai tanto forte quanto fa male perdere.
Opta per non prendere un’altra bottiglia e si alza per andare a letto.
Sa meglio di chiunque altro che anche quest’anno, come gli ultimi due, vinceranno il campionato, e molto più facilmente degli anni scorsi. Luca fa un’immensa differenza, anche se il quarterback non è affatto un cesso, anzi! È forse il migliore giocatore che abbia mai avuto, a parte Luca, ovviamente. Si chiama Michele, ma che nome è Michele, per un quarterback? Per tutta la squadra lui è Mike. È bravo davvero e la presenza di Luca gli impedisce di farsi il viaggio da primo della classe.
In bagno, davanti allo specchio, si guarda senza riconoscersi. Solo le spalle abbastanza larghe gli rammentano quello che fu una volta un giocatore di football. Nonostante l’esercizio costante, i muscoli si sono indeboliti e il grasso è spuntato sul suo corpo. Una volta in più si chiede come abbia fatto a sposare una donna sofisticata e ricca. Giocare a football in Italia e avere una ragazza con il padre che gira in Porsche… che idiozia! Cosa aveva voluto dimostrare? Lei era stata al gioco: se consapevolmente o da sprovveduta, lui non avrebbe saputo dirlo, ma le era piaciuto fare la fidanzata dello sportivo per ribellarsi ai genitori. Si erano sposati che lui guadagnava qualcosa, anche se poco, mentre lei doveva fare ancora l’esame di stato. La scuola di specializzazione, però, costava una barca di soldi e Giulia cominciò a pensare che, in fondo, la vita poteva essere più comoda se pagava suo padre e il loro matrimonio andò avanti per routine, con il biasimo dei suoi genitori.
Poggiato sul lavandino, il coach si regge per non crollare. Le sue mani stringono la ceramica, vorrebbe conficcarci dentro le dita e staccarne un pezzo, vorrebbe spaccare tutto. Quante umiliazioni per quei dannati di soldi che lui non aveva! Raccogliendo le forze, si lava la faccia e il contatto con l’acqua fresca gli fa sentire addosso gli anni migliori, quei pochi anni felici: Giulia che si appassiona al suo lavoro, il suo contratto con la squadra, la situazione economica che si stabilizza. Lei guadagna benissimo, lui dignitosamente, finalmente loro, liberi.
“Giulia?” la chiama di nuovo, la cerca sempre. Dov’è finita? Come si è allontanata da lui? Esce dal bagno e si aggira per la casa al buio, come un fantasma. Nel silenzio sibilano gli urli; le offese che si sono scambiati sono penetrate nei timpani e non se ne vanno più. La loro vicinanza mangiata da un verme invisibile, ma inesorabile: la carriera di Giulia, la nuova era di successi dei Rockets con l’arrivo di Luca, i bambini che non venivano, il tempo speso altrove. Poi l’ultimo atto: “Non hai saputo nemmeno darle un figlio” il padre di lei bastardo fino all’iniquità.
Si accascia sul letto, senza nemmeno togliersi le scarpe e aspetta che il rancore sopisca.
Torna a concentrarsi sulla squadra con quel senso di malinconia di chi vede il tempo in cui una cosa non ci sarà più. Passa in rassegna i blocchi d’attacco: ragazzoni ben piantati con il compito di fermare la difesa avversaria quel tanto da permettere a Luca di cominciare la corsa. Ci sono anche gli stronzi, nella sua squadra: Robbi e Bryan sono l’esempio. Li regge a fatica, ma sono gli unici, insieme a Luca e Mike, ad alzare il livello. Quando stendono gli avversari sembra che non riescano a essere sportivi, ma il loro dovere lo fanno egregiamente.
L’alcool fa effetto. Non riesce più a ordinare i pensieri come si deve, i volti dei suoi giocatori sfumano. Non distingue più i loro i ruoli. A un certo punto la sua mente si spegne.
Quando si riaccende è perché un rumore lo sveglia. Vede sua moglie armeggiare col cuscino di fianco a lui. La colf si ostina a rifare il letto e a mettere in ordine come se fosse tutto a posto, fra loro due.
“Dove sei stata?”
“Lo sai dove sono stata.”
Lei prende il pigiama e esce dalla camera. Il coach si gira dall’altra parte. Quel letto rimarrà vuoto anche questa notte e un brivido di freddo lo percorre per tutto il corpo. Sua moglie ha lasciato dietro di sé la puzza di un altro uomo. Una vampata di rabbia lo assale; vorrebbe alzarsi e andare a picchiarla, sarebbe facile. Reprime la sua ira e la blinda di tristezza. Gli occhi si bagnano. Lui schiaccia le lacrime sul cuscino e sussurra: “Fanculo, puttana.”