III - Allo stadio

2869 Words
III - Allo stadio In tarda mattinata, il sole aveva conquistato quasi tutta l’area dello stadio, restava solo un piccolo spazio d’ombra generato dalla torre sopra la tribuna dei distinti, quando Allyson, infastidita dal caldo crescente, decise di fare una pausa. Attraversò il campo da calcio, recuperò lo zainetto che aveva lasciato sul tavolo della segreteria e si diresse verso la zona riparata dal sole. La superficie dello Stadio Dall’Ara era gremita di atleti in tenuta da gara, allenatori impegnati a dare suggerimenti, professori e personale occupato a gestire le varie competizioni. Questo scenario rendeva Allyson particolarmente estranea al contesto, con i suoi jeans stretti, una maglietta rossa e scarpe da ginnastica bianche alte sulla caviglia. A ben guardare, avresti trovato pochi altri intrusi come lei, riconoscibili per una bella macchina fotografica a tracolla e un vistoso pass che li autorizzava a sostare sul campo. Era il giorno delle finali di atletica delle scuole superiori di Bologna; Allyson si trovava lì perché il preside della sua scuola l’aveva interpellata personalmente. “Mi scusi professoressa” aveva detto la bidella dopo avere interrotto la lezione di greco “il preside avrebbe bisogno di parlare con Allyson Guglielmi.” Allyson si era trovata così, faccia a faccia con il preside, per la prima volta nella sua carriera scolastica. “Ciao Allyson, scusa se ho disturbato la tua lezione.” “Si figuri, magari capitasse più spesso!” sorrise. Era un modo garbato per metterlo alla prova e vedere se si poteva fidare di lui. Il preside la guardò negli occhi, intuendo la sua sfida pacifica. Non poteva semplicemente accondiscenderla, ma allo stesso tempo voleva dimostrarle un po’ di complicità. “Già” disse spontaneamente, quasi senza dar peso alla cosa. “Specialmente durante le lezioni di greco, vero?” Uno a uno, palla al centro. “Esatto” rispose Allyson, ricambiando quel pizzico di complicità che prima era stata lei a richiedere. “Volevo chiederti una cortesia, se posso.” “Mi dica… Ho fatto qualcosa che non va?” “No, no. Assolutamente! Da quello che mi riferiscono, tu sei quasi una studentessa modello, stai tranquilla. La tua professoressa di storia dell’arte mi ha detto di aver scoperto, in occasione di un laboratorio, che sei molto brava a scattare fotografie.” Allyson arrossì e abbassò lo sguardo. “Beh, sì… mi piace...” “A dire il vero, la tua professoressa non ha detto che sei molto brava, sostiene che hai un talento raro.” “Addirittura! Grazie...” “Tra un paio di settimane, giovedì 29 aprile per l’esattezza, ci saranno le gare di atletica interscolastiche: desidero chiederti se puoi andare tu a fare le foto per la scuola. Se poi qualcuno dei nostri vince, tanto meglio: magari ne incorniciamo qualcuna e la esponiamo negli spazi più rappresentativi. Che ne dici?” “Wow… mi farebbe piacere! Ne sono onorata. L’unica cosa è che non so se sono davvero in grado: non ho mai fatto foto di sport, e neanche a soggetti in movimento...” “Sono sicuro che sarai bravissima. Ovviamente significa saltare un giorno di scuola, ma non sarà necessario che porti la giustificazione, perché ti facciamo il permesso noi. Dovresti solo fare firmare l’autorizzazione per minorenni ai tuoi genitori, pensi ci siano problemi per questo?” “No, nessun problema.” “Bene. I colleghi di educazione fisica, invece, ti faranno avere il pass per entrare allo stadio. Allora siamo d’accordo?” “Eccome, va benissimo.” “Quando hai le foto pronte, le metti in una chiavetta e le consegni alla segreteria, dopo ci pensiamo noi. Ovviamente, se vuoi inserire il tuo logo, per noi va bene, ammesso che tu ne abbia uno. Il copyright è il tuo. Ok?” “Ok, grazie. Non ho nessun logo per ora.” “Molto bene, Allyson, grazie, anche a nome della scuola. Torna a lezione, ora, se no i tuoi professori mi sgridano!” Si alzò dalla sedia e le strinse la mano. Allyson aveva sempre pensato che i presidi di una scuola avessero pochi capelli unti, si vestissero di marrone e grigio, con abiti di lana anche d’estate, e non potessero in alcun modo risultare simpatici. Invece, quella era stata una conversazione piacevole e gentile, il preside era vestito bene, con un abito blu scuro moderno e una cravatta perfettamente intonata, e il suo sorriso, nel momento in cui l’aveva salutata, sembrava sincero e paterno. Mentre stava uscendo, Allyson si voltò di nuovo verso di lui e disse: “Signor preside?” “Sì?” “Grazie. È una bellissima opportunità” e gli sorrise a sua volta, andandosene prima che lui potesse nuovamente ricambiare. Il preside rimase in piedi a osservare la scia di quella ragazzina e gli venne in mente il collegio docenti del giorno precedente; soprattutto, pensò all’arringa isterica di una professoressa che non era riuscita a mettere in luce una sola caratteristica positiva dei suoi studenti, per poi arrivare ad ammettere che aveva svolto soltanto metà del programma. “Il problema sono gli alunni” sbraitava lei “manca la disciplina!” Il problema è che non li sappiamo più guardare. Li guardiamo con i nostri occhiali fuori moda e non riusciamo a vedere realmente niente di loro. Scacciò il pensiero di quell’insegnante con un brivido e un moto di rabbia e ripensò, invece, con gratitudine, al saluto di Allyson Guglielmi, quarto anno, sezione C. Poi prese in mano la sua penna, sedette e ritornò a leggere le sue carte. Erano andate così le cose. Allyson era appoggiata sulla panchina ai margini della pista di atletica, con più di trecento foto scattate e l’aria di chi aveva già fatto ampiamente il suo dovere. L’unica amica si chiamava Christine ed era impegnata nella prova di resistenza dei 5.000 metri, per il resto non aveva particolari legami con gli atleti della sua scuola. Il folto gruppo delle ragazze in gara occupava la corsia più interna della pista e, fortunatamente per Allyson, l’arrivo era proprio da quel lato del circuito, poco distante da lei. Poiché la gara sarebbe durata parecchio, decise di fare le foto dalla sua posizione, comodamente seduta. Fece qualche scatto con il grandangolo, in modo da comprendere tutto il contesto, e ne fece qualche altro con il teleobiettivo, ma a un certo punto non riuscì più a contenersi, perché la sua amica si stava avviando a vincere la gara. Quando tagliò il traguardo, stremata, Allyson le corse incontro per complimentarsi con lei, tenendo sotto controllo i suoi strumenti. Poco dopo furono annunciate le ultime gare della giornata: i 100 metri e la staffetta 4x100. Allyson si trovava sul campo da calcio, all’interno dell’ovale della pista di atletica; era la posizione migliore per seguire le gare e, soprattutto, aveva spazio per le angolature, perciò chiese a Christine se poteva sorvegliare le sue cose e si divertì un sacco a fare mille foto ai ragazzi sui blocchi di partenza, immortalando la loro concentrazione, i muscoli tesi, le catenine penzolanti dal collo. Scattò avendo in mente di farli sembrare dei veri professionisti. Quando si udì il colpo dello starter, fu colta di sorpresa. Tempo di seguire il primo e di regolare l’obiettivo, e si accorse che più di metà gara se n’era andata. Riuscì a malapena a fare una sequenza di scatti al vincitore mentre tagliava il traguardo, ma non a inquadrare gli altri, perciò si infilò tra il piccolo gruppo dei velocisti mentre riprendevano fiato, per rubare qualche primo piano a ciascuno. Tornò allegramente verso Christine, senza riuscire a controllare le foto appena scattate sul display per via del sole, che faceva troppo riflesso. Allora alzò lo sguardo e osservò la sua amica che la stava aspettando comodamente seduta, mentre beveva a piccoli sorsi da una bottiglia d’acqua. Christine era una ragazza mulatta, figlia di padre africano e di madre italiana. Le lunghe treccine dei suoi capelli raccolti da una fascia, assieme alla muscolatura evidente e ben proporzionata, le conferivano una bellezza selvaggia. Il sudore non ancora evaporato faceva risplendere la sua pelle di un riflesso d’ambra. Indossava una maglietta rosa attillata, pantaloncini blu e un paio di scarpe bianche con il baffo della Nike disegnato in viola acceso, che risaltavano sul bordo della pista rossa. Allyson si fermò a guardarla e decise che quel momento andava reso immortale. Christine se ne accorse e, dopo avere bevuto un altro goccio d’acqua, si offrì all’obiettivo, gettò lievemente indietro la testa e le sorrise con tutto l’affetto e la spontaneità che aveva in corpo. “Se dovessi pensare a un’immagine perfetta per scattare una foto” le disse Allyson mentre si avvicinava “penserei a questa: la regina della scuola!” “Dovrò andare in giro a firmare autografi!” Christine si stava riposando e intanto prendeva il sole. Allyson, invece, aveva poggiato lo zaino sulla panchina per sistemare gli strumenti di cui non avrebbe avuto più bisogno; per la staffetta le sarebbe bastato il teleobiettivo, che era già montato sulla macchina. In quel momento, un elicottero volò sopra le loro teste. Dall’alto, lo stadio pare un catino in mezzo alle case e raccoglie giovani vite, corpi da esplorare, sentimenti acerbi, muscoli reattivi, ormoni allineati come un plotone d’esecuzione, progetti nascenti, legami difficili, speranze da godere, sofferenze consumate e destini da abitare. È una singolare concentrazione di vita che prolifera e la cornice dello stadio sembra indicare il punto, nella mappa della città, in cui qualcosa deve accadere. Viene sempre da chiedersi come l’esistenza annodi i suoi fili, come avvenga, cioè, che una persona si trovi lì non prima, non dopo, ma in quel preciso istante. Talvolta le circostanze sono talmente puntuali da sfidare qualsiasi probabilità: come quando ci si urta in mezzo a una strada, un incidente capita in una frazione di secondo, a una festa siedi al tavolo con uno sconosciuto o incontri un amico in un Paese lontano. Altre volte, le situazioni sono come il grembo di una madre che cura la gestazione degli eventi. In entrambi i casi, la vita si prende una grande responsabilità. Essa chiama a raccolta tutti i suoi segreti perché un contatto, improvvisamente, possa avvenire; oppure intreccia la sua rete giorno per giorno, in modo che ogni cosa, preparata da lontanissimo, sia pronta all’appuntamento. Trame come questa, scritte di nascosto nel nostro destino, possono decidere della felicità o della tristezza di un uomo e in questo caso, forse, sono pronte a decidere per entrambe. Fu così che, mentre Allyson stava predicendo alla sua amica quanto il preside sarebbe stato orgoglioso di lei, Christine si alzò di scatto e se ne andò. “Vado a prendere un’altra bottiglia d’acqua” disse semplicemente, allontanandosi rapida e facendole l’occhiolino. Allyson rimase interdetta, risentita che Christine avesse interrotto così bruscamente la conversazione. Un istante dopo percepì qualcuno dietro le spalle: “Tu non gareggi?” Non era una voce nota, o almeno non la identificò, e dovette girarsi per rispondere. “No” disse lei. Lo squadrò da cima a fondo e le parve di riconoscere uno degli atleti che aveva fotografato, ma il fatto che non indossasse la divisa da gara la confondeva: capelli scuri tagliati da sbruffone, viso squadrato ma non troppo, sguardo da buono che faceva il duro… sicuramente non gli aveva mai parlato. “Io faccio le foto.” Alzò la macchina fotografica scuotendola leggermente. “Ah già…” disse lui. “Bella! È una…” “… Canon, ovviamente.” “Apple o Microsoft?” “Apple, è molto meglio per il fotoritocco. Vedo che te ne intendi...” “A dire la verità, no. Mi fermo qui.” Pausa, respiro. Da lontano gli occhi così verdi non si notavano. Da vicino fanno male. Strinse le labbra, guardandosi in giro nervosamente, come chi tenta di ricordare che cosa bisogna dire. Allyson trovò quella situazione buffa. Lo fissò con più attenzione, cercando di capire che tipo fosse, e lui avrebbe fatto meglio a starsene zitto e ad accettare quel silenzio, che metteva alla prova entrambi. Alcune volte le parole hanno bisogno di attesa per essere dette, e il volto ha bisogno di tempo per essere visto. Invece lui violò impunemente l’attimo dell’incontro, pensando di fare un battuta. “E la privacy?” disse. Allyson si corrucciò, perplessa. Sentì la stonatura di una domanda così mal posta che il fragile istante della scoperta perse per lei di qualunque interesse. A quel punto, non vide più Luca; vide solo un ragazzo che non era diverso dagli altri, impacciato e grezzo nei modi di fare. Ma anche lei era stata frettolosa. Se avesse avuto pazienza, avrebbe potuto scorgere sul volto di lui i tratti inconfondibili e teneri dell’imbarazzo e del rimpianto per una cosa maldestra, e lo avrebbe visto chiudere gli occhi per un momento e morsicarsi il labbro. Invece, riprese subito ad armeggiare con le sue borse, dandogli nuovamente le spalle. “Giusto perché tu sia informato, con il modulo di iscrizione hai contestualmente e automaticamente firmato la liberatoria per i fotografi autorizzati. E io sono una di quelli.” Esibì l’autorizzazione, si voltò e fece per andarsene. Distratto da quella brutta risposta, Luca non fece nemmeno in tempo a leggere il nome sul pass. Idiota!, si disse. “Tu sei quello che ha vinto, vero?” “Certo!” rispose lui, con il tono di chi ha sempre considerato ovvia la cosa. Poi tornò all’attacco, cercando di fare il simpatico: “Se vuoi ti faccio un autografo...” “Sicuro” sbuffò lei, guardando altrove. Entrambi si sarebbero dati volentieri l’opportunità di conoscersi, ma la tentazione di arroccarsi su dettagli insignificanti avvelenò il momento e la fretta giocò, come sempre, contro di loro. La prova li trovò inesperti, poiché non sapevano ancora che di fronte a una persona bisogna stare massimamente attenti: alle volte, pur desiderando una cosa, si fa di tutto per impedirsela. Allyson mosse un passo e Luca capì che la sua occasione stava sfumando. “A proposito, io sono Luca, piacere. E tu?” Lei osservò con sollievo che era uscito dalla postura del predatore e apprezzò il gesto di quella mano offerta, in cui il possesso non soffocava la relazione e vi era un semplice desiderio di contatto. Tuttavia, non volle permettergli di tornare in una posizione forte e non ricambiò. Lo guardò in volto, provando a vedere dietro la maschera del suo fisico imponente, oltre quel confine. Non ci riuscì. Esitò un attimo, inclinò lievemente la testa di lato e con il sorriso più malizioso che le venne rispose: “Alice.” “Alice” disse lui. “Piacere di averti conosciuto, Luca...” Allyson si girò per andarsene. “E complimenti per la vittoria.” Luca capì, in realtà, di avere perso, e non avrebbe saputo dire se per orgoglio o per paura di un altro rifiuto, fatto sta che non la seguì. Quando invece realizzò che avrebbe dovuto farlo, lo speaker annunciò l’ultima gara: la staffetta. Tutti gli altri concorrenti erano già pronti sulla pista. Cavolo! Doveva dirigersi velocemente verso la sua postazione. Allyson conquistò il centro del campo da calcio, da cui poteva inquadrare i partecipanti ai quattro lati della pista e notò che Luca si stava spogliando per prepararsi alla gara. Si ritrovò a pensare che era stato un poveretto e che i maschi non ce la possono fare. Era scocciata, in fondo. Inizialmente non le sarebbe dispiaciuto conoscerlo, ma non si era dimostrato degno della sua attenzione. Per ripicca, aveva intenzione di non scattargli nemmeno una foto, ma la verità è che non ci riuscì. Luca partiva come quarto staffettista. Nell’ultima frazione, si trovò davanti tre avversari di altre scuole, ma si mangiò letteralmente la distanza che li separava da lui. Mentre correva, il tifo divenne frastuono e tutti, nello stadio, si accorsero della potenza che sprigionava, tanto che Allyson decise che quello slancio doveva essere catturato. Lo immortalò mentre superava l’ultimo degli avversari che gli rimanevano davanti, poi allargò l’obiettivo al massimo, scattando un’altra foto ai primi quattro nel breve istante in cui erano ancora vicini, prima che Luca li distaccasse e regalasse a se stesso la seconda vittoria, e alla sua squadra la gloria delle scuole. “Sei stronzo” disse Allyson ad alta voce, in mezzo al caos generale “ma sai correre!” Si mise il cuore in pace, classificandolo in quel genere di ragazzi molto sportivi che non vale la pena di frequentare. Aveva voglia che quella mattina finisse e di andare a casa a riposarsi. Quando incontrò Christine, si arrabbiò scherzosamente nei suoi confronti. “Come cazzo ti è venuto in mente di lasciarmi da sola con quel tipo?” “Stava venendo verso di te, ho pensato ti facesse piacere.” “Sì, infatti… moltissimo… A parte che poteva venire per te!” “Per me? Non ti sei accorta che ti ha squadrata per tutta la mattina? Vedi, ti sta puntando anche adesso.” Christine le indicò la posizione da cui Luca stava cercando, evidentemente, di individuare qualcuno. “Oddio, nascondimi” disse Allyson, rifugiandosi dietro di lei. “Davvero?” “Ti giuro! Ovunque andassi, ti seguiva con lo sguardo. E quando eri troppo lontana, accorciava le distanze. Sembrava che non gliene fregasse niente di fare riscaldamento o di prepararsi alle gare.” “Pare che non ne avesse bisogno… Comunque non mi ero accorta di niente!” “E come è andata?” disse lei maliziosamente. “Sembra carino.” “È carino e ha un gran fisico, ma è stronzo.” “Stronzo?” “Cioè, non è proprio stronzo… è che… insomma, non ci siamo! Mi ha tirato fuori una questione sulla privacy… sembrava che volesse attaccare briga.” “Forse voleva attaccare bottone!” “Allora non c’è proprio riuscito.” “Niente numero di telefono?” “Ma neanche per sogno! Non gli ho dato nemmeno il tempo di chiedermelo!” “Quindi, se lo incontro, ci posso provare io?” “Guarda, tutto tuo! Anzi, se vuoi, puoi andarci adesso.” “Stavo scherzando! Tanto non avrei alcuna possibilità!” “E perché mai?” Allyson non poteva credere che Christine non si rendesse conto della sua bellezza. “Perché ti mangiava con gli occhi!” “Ancora?! Basta! Tanto… guarda: non ce n’è proprio.” “Beh… nel caso ci ripensassi, so che scuola fa...” Allyson la guardò un po’ sorridendo, un po’ scuotendo la testa. Era buffa Christine, sembrava votata alle imprese impossibili in favore degli altri. “E come fai a saperlo?” “Sono stata attenta alla proclamazione dei vincitori subito dopo la gara: fa il Fermi.” “Bene, l’importante è che non sia da noi. Vieni, dai, che ci sono le premiazioni. Non vorrai mancare! Cosa direbbe il tuo preside?” Al centro era stato messo un podio. I vincitori di tutte le gare venivano chiamati per ricevere la medaglia e il saluto di rito. Tutti gli altri atleti, il personale e chi aveva saltato la scuola ed era passato dalle tribune al prato, erano in piedi e occupavano il campo. Allyson fece diligentemente il suo lavoro immortalando la terna vincente di tutte le gare. Diede il meglio di sé quando fu il turno di Christine: aveva vinto la gara più faticosa e si meritava il riconoscimento adeguato. Fece una sola foto furtiva: un primo piano di Luca, intenso. Prima di mettere definitivamente la macchina fotografica nella borsa, diede uno sguardo a quest’ultima foto: “’sto sfigato!” mormorò tra sé sorridendo.
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