Sono nato in uno dei paesi più belli, vivi e colorati del mondo, Rio de Janeiro. Sin da piccolo sono stato molto amato dai miei genitori che mi hanno accolto come un principe. Non capivo da piccolo che per loro ero una rivalsa fino a quando non crebbi.
Mio padre un ex calciatore aveva dovuto interrompere la sua carriera prima del previsto, riservava su di me i suoi sogni. Avevo iniziato ad avere confidenza con un pallone da calcio, ancora neonato. A sei mesi avevo la capacità di stare seduto e nel farlo mi abbracciavo al pallone. A due anni correvo già dietro al pallone.
Papà mi insegnò tutto sul calcio. A cinque anni avevo iniziato a giocare anche con dei bambini di quartiere. Nonostante non fossimo ricchi infatti, mio padre aveva tirato su una squadra con i bambini che vivevano nei vicini quartieri delle favelas.
Ero felice all'epoca! Ancora la cruda realtà che era la vita non si era affacciata nella mia infanzia. Questo fin quando a meno di sei anni non vidi per la prima volta un ospedale.
All'epoca papà, il mio grande eroe, non era con me. Lui e mamma erano via per un lavoro di lei ed io ero solo a scuola, con la maestra e i miei amici che iniziarono ad urlare. Avevo sei anni e sputavo sangue dalla bocca! Avevo sei anni e sentii per la prima volta paura.
La nonna corse a prendermi e portarmi in ospedale, in quel momento iniziò il mio incubo o la paura più grande.
Vedere il sangue che mi scorreva di bocca mi traumatizzò, essere portato in pronto soccorso ancora di più. Vidi cose che un bambino di sei anni non avrebbe mai dovuto vedere. Casi molto più complicati del mio, a pensarci da adulto. Vedere la morte di un uomo a pochi passi dalla mia brandina fu forse la goccia che fece traboccare il vaso. Incuranti che ci fosse un bambino i paramedici portavano tutti i casi in quel pronto soccorso arrangiato sballottandoli a destra e manca. Dopo aver visto una milza perforata persi definitivamente coscienza di me. Mi svegliai al suono della voce dei miei genitori, ero in una stanza più ordinata e pulita, nel letto accanto al mio c'era un altro bambino dal capo calvo.
Felice della presenza dei miei, mi tirai su, avevo mal di pancia come sempre, ma non mi sarei lamentato se mi portavano via di lì.
Sentii parole come prelievo e operazione, appendice. Non capii nulla tranne una frase.
"Non siamo in grado di aiutarlo. Adriel ha il gruppo sanguigno del padre." Sentii dire da papà.
Il gruppo del padre? Ma cosa stava dicendo il mio papà? Perché parlava di se stesso come una seconda persona?
"Non è lei?" Chiese il medico.
"Sono sterile da prima che nascesse..." rispose papà.
Sterile! Cosa significava quella parola?
Non seppi perché ma piansi! Così facendo attirai l'attenzione del medico e dei miei genitori.
"Si è svegliato." Disse mamma raggiungendo il mio capezzale. "Adriel, stai bene? Hai male a qualche parte?" Chiese.
Male? No.... Non lo sapevo. Capivo solo che le parole di papà mi facevano male. "È solo mal di pancia." Dissi in lacrime.
"Non è mal di pancia campione!" Mi disse papà col suo sorriso confortante. "Devi operarti di appendicite. Stavi male da tempo, purtroppo l'abbiamo presa sottogamba pensando fosse semplice mal di pancia."
"Ma sto bene. Voglio andare via..."
"Non puoi fin quando non ti operi tesoro." Disse la mamma.
"Non voglio stare qui." Affermai ripensando al ssngue, tanto sangue. Tirai il braccio che mi trattenevano, c'era un ago agganciato e un filo appeso a una bottiglia di acqua. Iniziai a urlare! Tolsi l'ago e urlai, vidi ancora il sangue di fronte a me e quell'uomo dalla pancia aperta. Il fiato era corto! Mamma mi abbracciò.
"Calmati Adriel. Per favore..." mi disse cullandomi.
"È traumatizzato!" Disse il medico. "Faccio venire la psicologa. Intanto dobbiamo trovare il sangue per l'intervento."
"Lo troviamo quello." Disse papà. "Laura, chiama Thomas, dobbiamo intervenire presto."
Non sapevo chi era Thomas, non sapevo cosa avevo. Ma sapevo che volevo uscire da quel posto. Non mi piacevano gli ospedali, mi soffocavano e non volevo restarci. Mamma riuscì a calmarmi solo portandomi a passeggiare nei giardini più tardi. Parlai anche con una donna anziana, mi fece delle domande per capire cosa era successo quel giorno.
Le risposi che avevo perso sangue dalla bocca e non sapevo perché, che mi avevano portato lì e all’inizio c’erano persine ferite e che perdevano sangue.
“C’era un signore con la pancia aperta… hanno tirato tutto fuori…” dissi tremando al ricordo. Al pensiero di nuovo la mia mente si offuscò come la gola che divenne secca.
“Voglio tornare a casa!” Piansi disperato. Non volevo stare lì.
Così la mamma mi aveva portato fuori e lì restai fino a quando non mi addormentai esausto. Al mio risveglio ero in una grande stanza luminosa, papà mi dormiva accanto, c’erano dei fiori e dei palloncini azzurri nella stanza, un balcone dava su un terrazzo grande con delle sedie e un tavolino.
“Papà…” chiamai.
“Ohi, sei sveglio Adriel.” Mi disse lui carezzandomi il viso.
“Dove siamo?” Chiesi.
“A Villa San Francisco campione.” Mi rispose.
“Non più in ospedale?” Chiesi sollevato.
“Non più. Curerai qui la tua appendicite.” Affermò papà.
Gli sorrisi abbracciandolo. “Grazie papà. Sei il mio eroe.” Gli dissi non immaginando che qualcun altro aveva badato a farmi trasferire.
Il giorno dopo feci l’intervento. Ero impaurito, ma la mamma mi disse di stare sereno, che non era nulla di grave. Le credetti.
Mi risvegliai nel pomeriggio, sentivo le voci di mamma e papà fuori, sul terrazzino.
“Vi prego di pensare a lui… non lasciatelo solo.” Quella voce non la conoscevo. Chi era?
“Sei arrabbiato con noi, vero?” Chiese papà.
“Sono arrabbiato per il modo. Mi avete ingannato e Laura sa che non approvavo di andare con una donna sposata. Ci stetti male e sono sicuro anche tu Laura.”
“Si! Mi fece molto male Thomas. Ma sai che non potevamo bambini e con Pedro desideravamo una famiglia.” Singhiozzò la mamma.
“Ti ripeto ciò che dissi all’epoca. Potevi fare una gravidanza in vitro.” Affermò l’estraneo.