CAPITOLO 1
Regione del Waziristan (Pakistan Occidentale), 30 novembre 2015
Ormai non sapeva più da quanto tempo stava osservando quel braciere che scoppiettava ritmicamente, diffondendo un piacevole calore in tutta la stanza. Fuori la temperatura era di qualche grado sotto lo zero, ma all’interno dell’abitazione dove si trovava non si stava male. Le pareti costruite con mattoni di fango secco e legno fornivano un buon isolamento dal freddo. L’abitazione era di un solo piano, molto piccola e formata da un’unica stanza.
Erano giorni che giaceva pigramente su un basso divanetto senza mai uscire di casa nemmeno una volta. Due volte al giorno il suo uomo più fedele gli portava un pasto caldo e gli veniva a svuotare il secchio che usava come latrina. Lui ringraziava sempre con un cenno della testa, senza mai aprire bocca. Sapeva che avrebbe dovuto reagire ma non riusciva a uscire dall’inerzia nella quale era caduto.
Continuava a ripensare a tutti gli eventi che si erano succeduti negli ultimi mesi, fino a portarlo in quello sperduto villaggio sulle montagne del Pakistan.
Lui, Omar Abdallah Hassan, fondatore e leader del movimento Justice of Allah (JOA), costretto a vivere come un eremita. Sapeva che per molti musulmani la sua organizzazione rappresentava una speranza. Per gli Stati Uniti e i suoi alleati era invece l’organizzazione terroristica più pericolosa al mondo, ed era proprio per quel motivo che il suo nome figurava nella famigerata lista degli uomini più ricercati stilata dall’FBI. Si trovava al primo posto, nella prestigiosa posizione che per anni aveva occupato lo sceicco Osama Bin Laden. Per un certo verso la cosa avrebbe dovuto essere gratificante, perché ora tutti i suoi sostenitori potevano finalmente vedere chi era il loro leader. Però non era così che sarebbe dovuta andare.
Da quando aveva creato il JOA, aveva sempre fatto il possibile per celare la sua identità, proprio per non fare la vita che aveva fatto Bin Laden. Solo in pochi sapevano chi era e si trattava di gente che avrebbe dato la vita per non tradirlo. Inoltre, l’aura di mistero che gravitava intorno a lui aveva contribuito renderlo una figura quasi divina.
Poi, dopo tanti anni di prudenza, aveva corso un rischio che pensava di aver calcolato. Aveva svelato la sua identità al Presidente iraniano Kaebi, per convincerlo ad aiutarlo in un’importante operazione.
Era riuscito a rubare alla Russia un sofisticato aereo stealth comandato a distanza con lo scopo di compiere un attentato durante la festa della Repubblica italiana. Era arrivato molto vicino a eliminare buona parte del governo italiano. Il piano, che avrebbe dovuto essere perfetto, era invece stato sventato all’ultimo istante. Il Presidente iraniano era stato arrestato dopo che era stato scoperto il suo coinvolgimento con il JOA. Come prevedibile, aveva cominciato a collaborare per identificare Hassan. E così in breve tempo gli Stati Uniti, con i loro potenti mezzi, erano riusciti a dare un nome e un volto al leader del JOA. Davvero non immaginava che ci sarebbe voluto così poco tempo. Aveva vagato da un rifugio all’altro, cercando contemporaneamente di pianificare nuove azioni contro gli infedeli. Per un po’ aveva creduto che facendo attenzione avrebbe potuto ancora essere al sicuro. Poi, per un soffio, gli israeliani non erano riusciti a catturarlo mentre si trovava in Libano. Qualcuno tra i suoi uomini lo aveva tradito. Solo la fortuna gli aveva permesso di spostarsi dalla casa dove si trovava appena mezz’ora prima del raid israeliano.
Sentendosi braccato come un animale, aveva deciso di rifugiarsi in Pakistan, nella regione del Waziristan. Lì aveva trovato la protezione di alcune tribù di etnia pashtun, abituate a nascondere i guerriglieri talebani in fuga dall’Afghanistan.
Sapeva che anche in quello sperduto villaggio di poche case non poteva essere totalmente al sicuro. Ormai aveva realizzato che qualcuno avrebbe potuto nuovamente tradirlo e, se fosse stato individuato, gli americani avrebbero potuto attaccarlo dal cielo con un aereo controllato a distanza. Per sua fortuna, in quel periodo gli americani avevano stipulato con il governo pakistano un trattato che prevedeva la sospensione di quegli attacchi e il divieto di ingresso di forze militari, nel rispetto della sovranità del Pakistan sui propri territori. Solo dieci giorni prima, un aereo comandato a distanza aveva colpito un’abitazione di un piccolo villaggio. Gli americani credevano che all’interno si trovasse un importante capo talebano. Purtroppo le informazioni erano errate e quella casa era invece la scuola del villaggio. Dodici bambini erano morti. L’ennesima uccisione di civili aveva fatto scoppiare delle manifestazioni antiamericane in tutto il Paese, durate più di una settimana, fino a quando il governo pakistano aveva fatto la voce grossa con gli Stati Uniti obbligandoli a firmare il trattato. Il governo aveva inoltre rivendicato il diritto di occuparsi personalmente di eventuali terroristi presenti sul proprio territorio, senza ingerenze da parte degli americani. Hassan sperava che gli Stati Uniti mantenessero la parola data, anche se non si fidava troppo di loro.
Qualcuno bussò alla porta distogliendolo dai suoi pensieri. Guardò da una finestrella, vedendo che fuori era già buio. Si era fatta ora di cenare, anche se non aveva per niente fame.
Samir, il suo più prezioso collaboratore, entrò silenziosamente seguito da un uomo che portava un vassoio con del cibo. L’uomo posò il vassoio su un tavolino e Samir gli fece cenno di uscire. Voleva parlare con Hassan. Era davvero preoccupato per il suo capo, che da giorni era scivolato in una forte apatia. Una delle qualità che aveva sempre apprezzato in quell’uomo era il suo ottimismo e la sua fiducia nella loro missione, anche nei momenti difficili. L’uomo che aveva davanti in quel momento, invece, era solo l’ombra dell’Omar Abdallah Hassan che conosceva. Doveva dargli una scossa per cercare di farlo tornare quello che era prima.
“Signore, è pronta la cena” disse al suo comandante.
Hassan posò lo sguardo su Samir, l’uomo più degno della sua fiducia. Per lui era come un figlio e aveva già deciso che gli sarebbe succeduto alla guida del JOA. Aveva impiegato parecchio tempo ad abituare Samir a chiamarlo per nome, invece del più marziale “signore”. Questa volta, però, notò che non lo stava chiamando Omar, come di consueto.
“Non ho fame, Samir, porta via il vassoio” gli rispose con fare astioso.
Il numero due del JOA, per tutta risposta, avanzò deciso verso Hassan e si sedette su una sedia.
“Omar” iniziò con tono più suadente “in questi giorni sono stato in rispettoso silenzio per non disturbare le tue riflessioni. Non sei uscito da questa casa e hai mangiato poco o niente. Sono giorni che non ti lavi e la tua barba è incolta. Adesso basta. Non ho intenzione di stare a guardarti oltre mentre continui a piangerti addosso come una donnicciola.”
“Ma come ti permetti! Ti farò pagare la tua insolenza” si infervorò Hassan.
“Ormai sono anni che ti conosco. Ho imparato ad apprezzare la tua calma, la tua intelligenza e la tua fede nella missione che dobbiamo compiere. Ora non riconosco più l’uomo che ho davanti a me e se essere insolente può servire a darti una scossa, sono disposto a correre il rischio.”
Hassan abbassò lo sguardo con vergogna senza riuscire a rispondere. Si accarezzò nervosamente la lunga barba grigia.
“So bene che gli ultimi mesi sono stati duri” continuò Samir “ma non siamo stati ancora sconfitti. È vero che la nostra organizzazione ha subito un pesante colpo ed è vero anche che abbiamo perso la protezione che ci forniva il tuo anonimato. Nonostante tutto la missione non è finita, abbiamo le capacità per portarla ancora avanti.”
“Prima o poi gli americani mi troveranno, come hanno fatto con Bin Laden. Mi uccideranno e poi tu prenderai il mio posto. Uccideranno anche te e chi verrà dopo di te” disse Hassan con tono neutro.
“Sono pronto a morire per Allah. Se taglieranno la nostra testa, altre ne spunteranno come all’Idra. Non ci sconfiggeranno mai!”
Hassan scosse la testa, sorridendo amaramente.
“Mio caro Samir, non hai ancora chiara la visione globale di quello che stiamo facendo. Non possiamo continuare a compiere attentati sporadici contro gli infedeli. Se distruggiamo un palazzo ne costruiranno ancora uno più grande. Se uccidiamo un soldato ne arriverà un altro a prendere il suo posto.”
“Alla fine si arrenderanno” lo interruppe Samir con fervore. “La guerra in Vietnam ha insegnato questo.”
“Non ne sono più sicuro. Gli interessi degli infedeli nelle nostre terre sono troppi perché loro rinuncino ad opprimerci. E noi non siamo sufficienti per cacciarli via. Pensa ad Al Qaeda. Da quanti anni combattono gli infedeli? Venticinque, trenta? Hanno ucciso tanti infedeli ma cosa hanno ottenuto in realtà? Gli Stati Uniti e i loro alleati sono più saldi che mai nelle loro posizioni.”
“E che cosa dovremmo fare? Abbandonare la nostra gente e rinunciare ai nostri principi?”
Hassan si alzò dal divano e si avvicinò al tavolino dove era appoggiato il vassoio. Prese una tazza che conteneva del tè e ne bevve un sorso.
“Non possiamo più andare avanti così. Dobbiamo cambiare pagina e alzare il tiro.”
“Come pensi di fare?” gli chiese Samir poco convinto.
“Non so cosa dirti, mio caro. L’unica cosa di cui sono sicuro è che in queste condizioni non riusciremo mai a completare la nostra missione.”
“Ci mancava solo questa!” bisbigliò Ethan Foster lasciando trasparire la sua irritazione, mentre alcuni fiocchi di neve cominciarono a posarsi sul terreno.
“Calmati Ethan, sapevamo che sarebbe arrivata la neve” rispose imperturbabile il compagno Dalton Cox.
I due uomini erano su un crinale ricoperto di alberi. Sotto di loro, a cinquecento metri di distanza, si trovava un villaggio con una ventina di piccole case. Stavano sdraiati a terra in mezzo al sottobosco da un giorno e mezzo, coperti da un telo mimetico che richiamava il colore del paesaggio circostante. Erano vestiti con un completo mimetico, indossato sopra una speciale tuta che teneva il loro corpo isolato da umidità e freddo. Il loro volti erano protetti da passamontagna.
Era stato segnalato che Omar Abdallah Hassan si trovava da giorni in quel villaggio. La loro missione consisteva nell’accertarsi che l’informazione fosse vera e in quel caso avrebbero dovuto eliminare il leader del JOA. Un aereo pilotato a distanza volava sulle loro teste fornendo immagini dettagliate della zona. Il velivolo aveva capacità stealth, cosa che gli permetteva di non essere individuato dai radar pakistani.
“Già, ma così la visibilità si riduce e sarà più difficile centrare il bersaglio, sempre che esca da quella casa” continuò Foster.
“Prima o poi uscirà.”
“Non siamo nemmeno sicuri che sia veramente Hassan. Magari è solo un altro capetto talebano.”
“Griffin ha detto che l’informazione era sicura al settanta per cento.”
“E allora se erano così sicuri potevano mandare i ragazzi delle forze speciali, invece che noi.”
“Ragiona, Ethan. In questo villaggio ci sono anche donne e bambini. Sai benissimo che dopo l’incidente della scuola il Presidente non vuole commettere più errori. I rapporti con il governo pakistano sono appesi a un filo e non possiamo comprometterli infischiandocene del trattato firmato poco fa. Una squadra di Navy Seal farebbe troppo rumore e ci sarebbe il rischio di perdite tra i civili.”
“Ma che civili! Qua anche i bambini sono dei dannati terroristi” protestò Foster.
“Forse hai ragione, ma per il governo pakistano sono civili innocenti ed è importante non ucciderne nessuno per sbaglio. Fidati di me, è molto meglio che il lavoro lo facciamo noi. Un solo colpo e ce ne filiamo via.”
“Tanto una volta che l’avremo eliminato i pakistani capiranno subito che siamo stati noi.”
“Hai ragione, ma non avranno niente per dimostrarlo. Noi ufficialmente non siamo sul libro paga di nessuno. Se venissimo catturati nessuno confermerà di conoscerci. Il Presidente otterrà quello che vuole senza sporcarsi le mani.”
“La solita merda.”
“È per questo che ci pagano molto profumatamente.”
“Ah, io ho un brutto presentimento. Ho paura che questa volta non ne usciremo bene. Questa missione è un suicidio” sentenziò Foster sgranocchiando una barretta di cioccolato.
“Non fare l’uccello del malaugurio.”
“C’è troppo movimento qua intorno.”
“Su questo devo darti ragione” convenne Cox osservando lo schermo di un piccolo palmare che aveva con sé. Trasmetteva le riprese a infrarossi dell’intera zona, gentilmente fornite dalle telecamere del velivolo che volava sopra di loro.
“Conto otto, anzi nove ostili che stanno pattugliando l’area intorno a noi. Più un numero imprecisato di altri ostili che si trova nelle case.”
“Direi che in caso di scontro le probabilità non giocano a nostro favore” sentenziò Foster.
“Penso che tutta questa gente presente in zona possa significare una sola una cosa: si tratta davvero di Hassan. E poi da quand’è che sei diventato così pessimista?”
“Da quando mi sono accorto che sto diventando troppo vecchio per questo lavoro.”
“Ma no, che sei ancora un giovanotto. Aspetta un momento. Sembra che un gruppo di ostili si stia avvicinando alla nostra area” disse osservando il monitor del palmare. “Occultiamoci completamente.”