CAPITOLO 1-2

2501 Words
“Ho un brutto presentimento.” “L’hai già detto. Ora chiudi il becco.” I due uomini coprirono anche la testa con il telo mimetico. Cox avvicinò la mano alla caviglia e impugnò il suo coltello da combattimento. Foster impugnò la sua Sig Sauer calibro nove millimetri con silenziatore. Passarono cinque minuti e poterono sentire distintamente le voci di alcuni uomini che parlavano in lingua pasthu. La schiena di Cox venne percorsa da un brivido che sottolineava il possibile pericolo che stavano per correre. Da quando erano appostati su quell’altura erano passate già diverse pattuglie ma mai così vicine alla loro postazione. Forse sospettavano qualcosa? Gli ostili erano ad appena una trentina di metri e si stavano avvicinando ancora, aumentando le probabilità di individuare il loro nascondiglio, anche se ben camuffato. Sperò con tutto il cuore che i presentimenti di Foster fossero infondati. Latif camminava con attenzione illuminando il sottobosco con una torcia elettrica, seguito da due suoi compagni. Portava a tracolla un AK-47 pronto a fare fuoco. Fiocchi di neve avevano cominciato a posarsi sul terreno, costringendolo a fare ancora più attenzione a dove metteva i piedi per non cadere a terra. Periodicamente si fermava per illuminare la zona intorno a lui, alla ricerca di eventuali nemici. Erano passati quasi quattordici anni da quando gli americani avevano ucciso suo padre e lui aveva fatto il possibile per mantenere la promessa fatta poco prima che morisse. Quella notte era riuscito a fuggire dal complesso di grotte con sua madre e dopo quasi un giorno di cammino erano arrivati in Pakistan. Lì erano stati accolti in un villaggio di etnia pashtun e Latif aveva subito espresso il desiderio di diventare un guerriero. Aveva passato l’adolescenza in quel piccolo villaggio lavorando come pastore. Nel tempo libero si addestrava intensamente e studiava il Corano. Quando aveva raggiunto i sedici anni si era sentito pronto per combattere gli americani ed era tornato in Afghanistan per unirsi a una formazione di guerriglieri. Aveva partecipato a diversi attentati contro le forze governative e le forze di occupazione comandate dagli americani, accumulando una grande esperienza in battaglia. Poteva dire di essere diventato un guerriero come voleva suo padre, tuttavia non sentiva di avere ancora mantenuto pienamente la sua promessa. Il padre, prima di morire, gli aveva chiesto di riportare l’Afghanistan nelle mani di Allah. Latif si era reso conto che da quando aveva iniziato a combattere la situazione non era cambiata affatto. Anzi, in quel momento le cose si stavano mettendo male. Le forze governative avevano effettuato una serie di raid in tutto il Paese allo scopo di eliminare il maggior numero possibile di guerriglieri e il suo comandante aveva deciso di fare ripiegare il gruppo in Pakistan, in attesa che le acque si calmassero. Le cose andavano così ormai da diversi anni e Latif si era reso conto che non si poteva più continuare in quel modo. Forse l’uomo che doveva proteggere si trovava in Pakistan per aiutarli nella lotta. Forse aveva un piano. Se così fosse stato, doveva impedire che gli fosse fatto anche un solo graffio. “Latif, fa troppo freddo. Torniamocene dentro casa” disse uno dei due uomini dietro di lui. “Piantala di piagnucolare. Dobbiamo proteggere quell’uomo.” “Ma se non sappiamo nemmeno chi è.” “Non importa. Mi è stato detto che è molto importante e che gli americani vogliono eliminarlo.” “E come pensano di farlo? Non possono più bombardarci a tradimento e non possono più mettere piede in Pakistan.” “Talal, tu sei ancora giovane ma dovresti aver capito che gli americani fanno tutto quello che gli passa per la testa. Figurati se si fermano davanti a un accordo” spiegò Latif. “Ma chi vuoi che ci sia da queste parti? Secondo me non ha senso mandare fuori tre pattuglie per volta” insistette Talal, arrancando sul terreno che stava salendo. “Te lo ricordi ancora chi è che comanda qui?” chiese Latif spazientito voltandosi improvvisamente. “Tu, Latif” rispose il giovane guerrigliero, rendendosi conto di avere esagerato. “Molto bene. Cerca di non dimenticarlo. E ora continuiamo.” “Sì certo. Ti chiedo scusa” si affrettò a dire Talal. “Aspettate una momento che devo fare una pisciata” disse a un certo punto il terzo uomo, che fino a quel momento era stato in silenzio. “Va bene, ma fai in fretta” gli concesse Latif. Cox e Foster, da sotto il telone mimetico, videro un paio di pesanti scarponi fermarsi a trenta centimetri dalle loro facce. Pochi istanti dopo poterono sentire il familiare scroscio di urina. Cox strinse forte l’impugnatura del coltello da combattimento trattenendo il respiro. Il cuore batteva così forte da fargli temere che il guerrigliero potesse udirlo. Quando l’uomo ebbe finito, armeggiò per rimettere a posto l’attrezzo e riprese in mano la torcia elettrica che aveva infilato in una tasca. Purtroppo per lui gli scivolò dalle mani nel tentativo di accenderla. Dalton Cox sentì qualcosa cadergli sulla schiena. Merda! Avrebbe voluto dire. Forse ci aveva pensato il guerrigliero perché aveva sentito un’incomprensibile imprecazione. L’uomo si chinò tastando il terreno alla ricerca della torcia. “Hai finito?” gli chiese Latif. “Sì, mi è solo caduta la torcia a terra.” Continuò a tastare e un campanello d’allarme gli suonò nella testa. Quello che stava toccando non era vegetazione. Sembrava più qualcosa di sintetico. “Ma che…” non fece in tempo a finire la frase. La copertura dei due agenti della CIA era saltata. Cox si sollevò da terra con un balzo e conficcò il coltello nel collo dell’uomo. Nello stesso momento si alzò anche Foster mettendosi in ginocchio. Dopo qualche secondo distinse la sagoma di un altro uomo una decina di metri più in basso. Fece fuoco per cinque volte. Il giovane Talal venne raggiunto da tre pallottole mentre cercava di impugnare il suo fucile. Latif fu più svelto del compagno e, dopo essersi inginocchiato, fece fuoco in direzione dei lampi di luce. Anche Foster sparò in direzione dei lampi di luce davanti a lui e svuotò il caricatore. Latif venne scaraventato a terra da un proiettile alla spalla. “Ethan, dobbiamo scappare” urlò Cox alla fine della sparatoria. “Dal, te lo dicevo che avevo un brutto presentimento” rispose ansimando. “Me lo ricordo, portasfiga che non sei altro. Dai, andiamo via di qua.” “Temo che per me non sia possibile” disse Foster con voce sofferente. “Che cazzo dici?” gli chiese Cox, prima che il suo sguardo si posasse sul ventre del collega. Una macchia rossa si stava allargando sulla mimetica. “Mi hanno beccato, Dal. Per me è finita. Lasciami qui.” “Non dire cazzate. Tu vieni via con me.” Raccolse il suo fucile automatico M4 e sistemò a tracolla il fucile di precisione che avrebbe dovuto usare per uccidere Hassan. Sollevò da terra Foster, che emise un gemito di dolore. “Tra poco ci saranno addosso e io ti rallenterò” disse Foster. “Ce la faremo. Tu tieni duro.” Cominciarono la loro fuga con Cox che sorreggeva Foster. Nel frattempo diverse urla risuonavano sotto di loro, allarmate dalla sparatoria appena terminata. Base Militare Americana, Bagram (Afghanistan) Chase Griffin osservava il grande monitor della sala operazioni con le braccia raccolte dietro la nuca, preso da un profondo sconforto. Le immagini che venivano trasmesse mostravano le riprese termiche provenienti dall’aereo di sorveglianza assegnato alla missione. Vedeva due sagome umane di colore bianco che correvano arrancando attraverso il bosco; dietro di loro un brulicare di altre sagome bianche si stava avvicinando rapidamente. Fino a pochi istanti prima tutto stava procedendo per il meglio: l’inserimento era avvenuto senza problemi e la sua squadra era riuscita a posizionarsi a cinquecento metri dall’abitazione dell’uomo che secondo le sue fonti era Omar Abdallah Hassan in persona. Sarebbe bastato solo che uscisse un momento da quella casa e una volta avvenuta l’identificazione i suoi uomini l’avrebbero eliminato. Aveva rassicurato personalmente il Presidente Bailey sulla riuscita dell’operazione. L’uomo più potente degli Stati Uniti aveva una particolare ossessione per Hassan. Poco più di un anno prima il JOA aveva compiuto un attentato contro l’ambasciata statunitense a Tel Aviv, in Israele. Tra i diversi morti in quell’attacco c’era un funzionario che era il suo migliore amico fin dai tempi dell’infanzia. Da quel giorno Bailey aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto il possibile per uccidere il responsabile, anche se a quel tempo non se ne conosceva l’identità. Da qualche mese, però, era stato associato un nome e un volto al misterioso leader del JOA, cosa che aveva aumentato le possibilità di eliminarlo. Griffin comandava le operazioni della CIA in Medio Oriente e a lui era spettato l’incarico di trovare un modo di uccidere Hassan, dopo che era pervenuta una segnalazione di dove potesse trovarsi. Considerando il trattato da poco firmato, la soluzione migliore poteva sembrare quella di rivolgersi al governo pakistano. Aveva scartato subito l’idea perché la CIA non si fidava completamente dei pakistani, temendo che una soffiata potesse fare sparire ancora una volta il leader del JOA. Anche Bailey si era trovato d’accordo con lui anche perché temeva che i pakistani avrebbero espresso la volontà di prendere Hassan vivo. Lui invece lo voleva morto. Sempre a causa del trattato, l’invio delle forze speciali come nel caso della morte di Bin Laden era da escludersi, così come il bombardamento con un aereo comandato a distanza. Griffin aveva constatato che l’unica soluzione praticabile era di inviare i suoi due uomini migliori nella regione del Waziristan, con il compito di identificare e assassinare Hassan. Il tutto senza fare rumore. Gli Stati Uniti non avrebbero mai ammesso l’operazione. Ora che le cose si erano messe male, bisognava ricorrere al piano B, anche se il Presidente non ne sarebbe stato felice. Prese un panno dal taschino della camicia e lo usò per pulire le lenti dei suoi occhiali. Era arrivato il momento di avvisare il Presidente sull’esito dell’operazione. “Murray, tieni d’occhio la situazione perché io devo parlare con il Presidente” ordinò a uno dei suoi collaboratori. Senza attendere la risposta, entrò nel suo piccolo ufficio e si sedette alla scrivania. Si passò una mano sulla chioma grigia e impregnata di sudore. Prese la cornetta del telefono e compose il numero che l’avrebbe messo in contatto con il Presidente Bailey. Sospirò amaramente in attesa della risposta. Casa Bianca, Washington D.C. (Stati Uniti) Il Presidente degli Stati Uniti Larry Bailey era seduto alla scrivania nello Studio Ovale. Dopo aver appeso ordinatamente la giacca a un attaccapanni, si era allentato la cravatta e sbottonato i primi bottoni della camicia. Una martellante pioggia picchiettava ritmicamente sui vetri delle tre finestre alle sue spalle. Bailey si grattò la testa con la matita. Stava lavorando a un discorso che avrebbe dovuto tenere due giorni dopo in Texas. Naturalmente aveva gente pagata per quel lavoro, tuttavia preferiva stendere personalmente la prima bozza di ogni discorso. Sbuffò con insofferenza, tirando una riga sull’ennesima frase che non lo convinceva. Non riusciva proprio a concentrarsi perché il pensiero correva continuamente alla missione che aveva ordinato per assassinare Omar Abdallah Hassan. Dal giorno della scomparsa del suo più caro amico, non aveva passato giorno senza desiderare ardentemente la morte del terrorista. Non gli importava come sarebbe morto, solo che avvenisse. Per quello che lo riguardava poteva anche cadere dalle scale e rompersi l’osso del collo. Per sfortuna, però, il suo desiderio non si era ancora realizzato. Poco tempo prima gli israeliani non erano riusciti a beccarlo per un soffio. Ora invece l’occasione era arrivata a lui, ma non aveva potuto sfruttare il modo più rapido per eliminarlo, ovvero con un missile. Aveva dovuto affidarsi a una controversa missione, sulla cui riuscita nutriva grossi dubbi. Rinunciò a proseguire la stesura del discorso e si appoggiò allo schienale della poltrona, dopo aver posato la matita sulla scrivania. Sbuffò ancora chiedendosi come mai non gli giungevano notizie da parecchie ore. Aveva saputo che la squadra era arrivata sul posto un giorno e mezzo prima, senza incidenti. Avevano individuato un’abitazione dove sospettavano si trovasse Hassan e avevano cominciato a sorvegliarla. Ora, era quasi un giorno che non riceveva notizie sulla missione. Uno dei due telefoni posati sulla scrivania cominciò a squillare. Bailey afferrò la cornetta come un rapace su una preda, senza permettere al telefono di fare un secondo squillo. “Sì” rispose secco. “Signor Presidente, c’è il signor Griffin sulla linea protetta” annunciò la sua segretaria. “Passamelo” ordinò brusco. Trascorsero tre secondi che Bailey impiegò sbuffando impazientemente. “Buongiorno, signor Presidente” esordì cordialmente Griffin. “Dai un taglio alle smancerie. Si tratta di lui?” chiese il Presidente non riuscendo a essere cordiale. “Non abbiamo ancora avuto la conferma visiva, signore. Il villaggio è molto sorvegliato, quindi i miei uomini non hanno potuto avvicinarsi molto. Sembra che ci sia qualcuno di importante in quella casa ma non abbiamo elementi sufficienti a stabilire se si tratta con certezza di Hassan. Non è mai uscito fuori da quella casa e il cibo gli viene sempre portato da un uomo.” “Capisco. Continuate la sorveglianza. Se necessario, ordini ai suoi uomini di trovare un modo di avvicinarsi ulteriormente.” “Temo che non sarà possibile.” “Che cosa?” “Beh, signore, purtroppo la missione ha preso una brutta piega.” “Mi definisca cosa intende per brutta piega.” “I nostri agenti sono stati scoperti prima di poter identificare il bersaglio. In questo momento sono in fuga e uno dei due sembra ferito” sintetizzò Griffin senza tanti giri di parole. “Dannazione!” esclamò rabbioso. “Suggerisco di mettere in atto il piano di riserva, signore.” Bailey si adagiò contro lo schienale sospirando amaramente. La sua occasione per vendicarsi era sfumata. Dannati pakistani, pensò. Se solo non avessero fatto tutto quel chiasso, la questione sarebbe già stata risolta. Avevano sottolineato il fatto che in casa loro si sarebbero occupati da soli dei terroristi. Come se lui non sapesse quanta gente corrotta era presente nel governo pakistano. Se li avesse avvisati della probabile presenza di Hassan nel Waziristan, il leader del JOA sarebbe stato informato nel giro di un’ora, permettendogli di fuggire. Era davvero in una situazione spiacevole. Non poteva fidarsi di loro ma allo stesso tempo non poteva neanche indispettirli. Anche se mettere in atto il piano di riserva non li avrebbe resi di certo contenti. “Signore, è ancora in linea?” la voce di Griffin lo riscosse dai pensieri. “Ci sono. Dovrei chiamare il Presidente pakistano per richiedere un intervento delle sue forze per catturare Hassan. Il problema è che non siamo ancora sicuri che sia davvero lui. Io dovrò ammettere che abbiamo infranto il trattato infiltrando due uomini in territorio pakistano. Posso sempre dire che erano lì per sorvegliare invece che per compiere un assassinio, ma non credo che la prenderanno comunque bene. Se devo inimicarmi il Pakistan, devo sapere che lo faccio per catturare Hassan, quindi devo farle una domanda precisa: crede davvero che sia lui?” “Secondo me sì. L’informazione che abbiamo ricevuto sembrava piuttosto attendibile e il livello di guardia nel villaggio è degno di un personaggio importante” rispose Griffin. “È abbastanza sicuro da giocarsi la carriera?” chiese Bailey a quel punto. Griffin emise un respiro profondo, consapevole dell’importanza di quello che stava per dire. “Ne sono sicuro, signor Presidente.” “Allora provvederò a fare questa chiamata.” Detto questo, Bailey riappese la cornetta. Si morse nervosamente il labbro inferiore, pensando che gli sembrava di stare a un tavolo da gioco di Las Vegas. Aveva azzardato mandando due uomini per uccidere Hassan senza coinvolgere il governo pakistano e aveva perso la mano. Ora stava per chiedere aiuto ai pakistani senza fidarsi completamente di loro e senza essere sicuro che si trattasse proprio di Hassan. Se fosse andato tutto bene, il leader del JOA sarebbe stato catturato. Bailey l’avrebbe preferito morto, ma catturarlo era meglio che niente. Però poteva sempre succedere che i pakistani favorissero la fuga di Hassan o che una volta intervenuti scoprissero che non si trattava di lui. E Bailey avrebbe scoperto le sue carte per nulla. Era un altro azzardo, ma questa volta sperava che la sua fosse una mano vincente. Alzò nuovamente la cornetta per chiedere aiuto al Presidente del Pakistan.
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