CAPITOLO 2
Regione del Waziristan (Pakistan Occidentale)
Latif si alzò da terra con un forte dolore alla spalla. Alcune gocce di sangue, schizzate dalla ferita, si erano depositate sulla sua barba nera e ben curata. Si alzò da terra e si avvicinò al giovane Talal, accorgendosi subito che era già morto.
“Che Allah ti accolga tra le sue braccia” mormorò.
Fremente di rabbia, raccolse il suo fucile, determinato a dare la caccia a coloro che avevano assassinato i suoi uomini.
Intanto un gruppo di guerriglieri stava convergendo sulla sua posizione. Mentre constatava la morte dell’altro compagno, venne illuminato da un fascio di luce proveniente da una torcia elettrica.
“Latif, sei tu?” chiese uno dei guerriglieri.
“Sì, sono io.”
“Che cosa è successo?”
“Siamo stati aggrediti, penso siano in due. Sono rimasto vivo solo io. Credo che anche uno di loro sia rimasto ferito. Dobbiamo catturarli.”
“Ma anche tu sei ferito” affermò il guerrigliero avvicinandosi a Latif.
“È una sciocchezza. Sono andati da quella parte, non facciamoli scappare. Noi inseguiamoli attraverso il bosco mentre mandiamo un’altra squadra a tagliargli la strada dalla parte opposta del crinale. ”
“Certo, li prenderemo.”
Detto questo, Latif cominciò l’inseguimento dei due agenti della CIA, accompagnato da sette uomini armati. Nel frattempo un’altra squadra era salita su un vecchio fuoristrada per spostarsi verso la parte opposta del crinale.
Per Latif, la risalita del pendio fu piuttosto difficoltosa, a causa della ferita alla spalla che l’aveva indebolito. Vide che alcuni dei guerriglieri più giovani lo stavano superando.
“Fate attenzione. Possono aver piazzato delle trappole nella fuga” li avvisò.
“Va bene, Latif.”
“Facciamo il possibile per catturarli vivi. Dobbiamo cercare di spingerli verso la seconda squadra in modo da metterli in trappola” ordinò ansimando.
Era sicuro che si trattasse di americani. Come immaginava, quella non era gente che manteneva le promesse. Ma a loro ci avrebbe pensato lui, sempre che non avessero già chiamato la cavalleria a soccorrerli. In quel caso la situazione si sarebbe fatta davvero complicata.
Cox e Foster stavano scendendo sul versante opposto del crinale. Avevano rallentato l’andatura perché Foster faceva sempre più fatica a muoversi. Il loro piano di fuga si basava sul fatto che i guerrieri, dopo la morte di Hassan, sarebbero stati troppo confusi per capire dove cercare gli assassini. Nel frattempo loro avrebbero potuto raggiungere il confine con l’Afghanistan seguendo un percorso ben studiato. Ora però i nemici sapevano esattamente dove si trovavano e, a causa del ferimento di Foster, stavano guadagnando rapidamente terreno.
Cox decise che la loro unica speranza di salvezza era richiedere un elicottero di soccorso, anche se riteneva poco probabile che la sua richiesta venisse accettata. Prese il telefono satellitare, cercando di non rallentare ulteriormente l’andatura.
“Hunter uno chiama base” disse nell’apparecchio.
“Qui base, avanti” fu la risposta dall’altro capo.
“Siamo stati scoperti e siamo in fuga. Hunter due è ferito. Richiediamo immediato recupero.”
Passarono dieci secondi prima che Cox riconoscesse la voce di Griffin.
“Negativo Hunter uno, sai benissimo come funziona. Avete sollevato un dannato vespaio. Cercate di raggiungere una zona tranquilla vicino al confine e vi manderò un elicottero per il recupero.”
“Capisco.”
“Mi dispiace che le cose siano andate così.”
“Anche a me” rispose amaramente Cox.
Spense l’apparecchio e lo ripose in una tasca.
“Almeno ci abbiamo provato” disse a Foster.
“Sapevamo fin dall’inizio cosa ci aspettava in caso di fallimento. Lasciami qui, Dal. Io li distrarrò per un po’ così tu potrai scappare. Puoi ancora farcela” propose Foster, sempre più con il fiatone.
“Non se ne parla” rispose Cox.
“E allora che si fa?”
“Dobbiamo trovare un nascondiglio sicuro per poterti curare la ferita.”
Cox stava cercando di trovare un posto adatto a nascondersi quando scorse i fari di un fuoristrada poco più in basso.
“Stanno cercando di aggirarci” affermò.
A quel punto cominciarono a fischiare delle pallottole alle loro spalle.
“Merda, sono già arrivati” disse Foster.
“Ci penso io” rispose Cox.
Appoggiò a terra il compagno e impugnò il suo M4. Lo puntò verso la fiammata di un AK-47 che rompeva bruscamente il buio e fece fuoco. Uno dei guerriglieri venne abbattuto ma c’erano altri cinque fucili che sparavano nella sua direzione. Dovette sdraiarsi a terra per evitare le pallottole che piovevano sulla sua testa. Rispose ancora al fuoco, colpendo un altro guerrigliero.
“Dal, stanno arrivando anche dal basso” lo informò Foster.
Diede un rapido sguardo in basso. Un altro gruppo di uomini stava risalendo il pendio.
“È finita” sentenziò sconsolato Foster.
“Già, è proprio finita.”
Cox smise di sparare e allontanò il fucile. Entrambi gli agenti della CIA alzarono le mani in alto. Nel frattempo i guerriglieri, accortisi che non c’era più risposta al loro fuoco, cominciarono ad avvicinarsi con cautela.
“Fatti forza. Dobbiamo solo cercare di sopravvivere e tentare la fuga il prima possibile” bisbigliò Cox.
“Ti pare facile” rispose Foster.
Poco dopo i guerriglieri raggiunsero i due agenti della CIA, Latif in testa al gruppo.
“Gettate vostre armi e inginocchiatevi con mani dietro testa” ordinò Latif in un inglese stentato.
I due uomini obbedirono effettuando movimenti molto lenti, consci del fatto di avere una dozzina di fucili puntati addosso.
Due guerriglieri si avvicinarono a Cox e lo immobilizzarono, mentre un terzo gli dava il benvenuto colpendolo allo stomaco con il calcio del fucile. Anche Foster, nonostante la ferita all’addome, ricevette lo stesso trattamento. Vennero fatti alzare e portati al cospetto di Latif. I passamontagna vennero sfilati e gettati a terra.
L’afghano puntò loro in faccia la torcia elettrica e per un attimo rimase pietrificato nel vedere l’uomo che aveva di fronte a lui. Fissò la cicatrice che solcava il suo volto. Un volto che non avrebbe mai dimenticato. Il volto dell’assassino di suo padre. Ringraziò mentalmente Allah per il regalo che gli aveva fatto. Poteva solo significare di averlo compiaciuto in tutti questi anni.
Un ghigno si dipinse sulla sua faccia.
“Ehi, che hai da ridere, amico?” chiese Cox con voce calma e sguardo fiero.
“Tu davvero non ricordi me? Ma io ricordo bene te” disse Latif senza smettere di sorridere.
“Non ci siamo incontrati l’anno scorso allo stadio durante il Superball?” chiese ironico Cox.
Per tutta risposta Latif lo colpì sul naso con un pugno.
“No americano. Ci siamo incontrati molti anni fa, in grotta di Afghanistan. Hai ucciso mio padre davanti a miei occhi” disse a denti stretti Latif, con lo sguardo carico d’odio.
Cox ricordò immediatamente l’episodio e realizzò che non avrebbe potuto finire in mani peggiori. Un uomo armato di fucile assetato di vendetta, che dopo anni aveva trovato l’assassino di suo padre.
A conferma dei suoi pensieri Latif gli puntò il fucile alla testa.
“Finalmente lo spirito del mio povero padre potrà trovare vendetta” esclamò Latif nella sua lingua.
“Aspetta, Latif!” lo bloccò uno dei guerriglieri.
“Che vuoi?” chiese rabbioso.
“Non pensi che l’uomo che proteggiamo voglia interrogare gli americani? Hai detto tu stesso che li volevi vivi.”
“Non mi importa.”
“Ma ragiona! Il nostro comandante non te la farà passare liscia.”
Latif rimase in silenzio mantenendo il fucile puntato alla testa dell’assassino di suo padre. Cox nel frattempo sperava che quello scambio di battute in lingua pashtu fosse servito a fare cambiare idea a quell’uomo.
Dopo qualche secondo Latif abbassò l’arma con un gesto di stizza.
Si voltò di scatto e si allontanò dai due prigionieri. Cox tirò un impercettibile sospiro di sollievo. Era ancora vivo e avrebbe potuto tentare la fuga non appena se ne fosse presentata l’occasione.
Stava per rassicurare il suo compagno dicendogli di resistere quando, improvvisamente, Latif si voltò di scatto imbracciando il fucile. Una prima raffica da tre colpi penetrò nel petto di Foster. Cox fece appena in tempo a incrociare lo sguardo con il suo assassino, prima di venire anch’egli raggiunto dai proiettili. Si accasciò a terra e morì dopo che il suo corpo fu percorso da una serie di tremiti.
Tutti i guerriglieri rimasero muti. Latif abbassò il fucile puntando la canna ancora fumante verso terra. Non aveva resistito alla tentazione vendicare suo padre perché sapeva che non avrebbe avuto un’altra occasione.
“Sia ben chiaro che gli americani sono morti durante lo scontro a fuoco. Taglierò personalmente la gola a chi dirà il contrario. Mi avete capito tutti?”
Tutti i guerriglieri risposero di sì all’unisono.
“Molto bene. Raccogliete tutta la loro attrezzatura. E qualcuno si occupi dei nostri caduti.”
Hassan sentì bussare alla porta. La sparatoria scoppiata poco distante dal villaggio era finita da circa un quarto d’ora. Lui era rimasto in casa mentre Samir si era disposto intorno alla casa con tre uomini, in attesa di capire cosa stava succedendo. Hassan si era messo a giocherellare con la sua pistola in attesa che una squadra d’assalto sfondasse la porta per catturarlo. Aveva giurato a se stesso che non l’avrebbero mai preso vivo. Piuttosto si sarebbe sparato alla testa.
Con il passare dei minuti era giunta la notizia che la squadra d’assalto sembrava essere composta solo da due persone. I guerriglieri che gli avevano assegnato per la sua protezione erano partiti all’inseguimento. Forse gli americani avevano mandato solo due uomini a causa delle restrizioni imposte dal governo pakistano. Sperava che li catturassero vivi per poterli interrogare. In ogni caso entro breve avrebbe dovuto fuggire dal villaggio e trovare un nuovo nascondiglio, anche se oramai era sicuro che i suoi nemici l’avrebbero scovato ovunque.
“Omar, sono Samir.”
Hassan andò ad aprire la porta.
“Che novità ci sono?” chiese impaziente.
“I guerriglieri hanno ucciso due intrusi. Ora però dobbiamo andare via, potrebbero essercene degli altri.”
“Sì, anche se dubito che abbiano mandato altri uomini. Se così fosse, ci sarebbero già addosso. Probabilmente non hanno neanche coinvolto i pakistani perché non si fidano di loro. Ma di questo non possiamo essere sicuri. È necessario partire prima possibile. Sicuramente ci sarà un aereo spia sulle nostre teste. Occorre depistarli per riuscire a fuggire e mi è venuto in mente un modo. Chiamami il capo dei guerriglieri.”
“Agli ordini” disse con enfasi Samir, compiaciuto dal fatto che il suo comandante sembrava aver ritrovato improvvisamente la sua calma riflessiva. Forse questo attacco era proprio quello di cui aveva bisogno per ritrovare lo spirito combattivo.
Base militare americana, Bagram (Afghanistan)
Le immagini fornite dall’aereo di sorveglianza mostravano tre fuoristrada mentre percorrevano una strada di montagna che scendeva a valle. Su ogni mezzo viaggiavano quattro uomini; uno di questi era uscito dalla casa che era sotto osservazione scortato e con il volto coperto da una sciarpa, quindi non era stato possibile identificarlo. Griffin era comunque sicuro che si trattasse di Hassan. Cox e Foster, invece, erano stati giustiziati.
“Signore, due elicotteri militari in avvicinamento. Deve essere la cavalleria pakistana” lo informò Lopez, uno dei suoi sottoposti.
“Bene, stiamo a vedere che succede” gli rispose Griffin.
Osservarono gli elicotteri effettuare un paio di passaggi a bassa quota sui tre fuoristrada e poi videro i mezzi fermarsi senza opporre resistenza. Gli elicotteri atterrarono e ne discesero dei soldati che circondarono i tre veicoli. Gli occupanti cominciarono a uscire con le mani alzate.
Tutti gli uomini nella sala operazioni esultarono, tranne Griffin.
“Signore, lo hanno preso. Non è felice?” chiese Lopez.
“È stato tutto troppo facile. Non hanno neanche opposto resistenza.”
“Avevano contro due elicotteri pieni di soldati armati fino ai denti. Non c’era partita e l’hanno capito subito.”
“Quelli sono dei fanatici. Preferirebbero morire piuttosto di essere catturati.”
Le affermazioni di Griffin spensero l’entusiasmo e tutti rimasero in silenzio continuando a osservare lo schermo. Una volta che i tre fuoristrada vennero svuotati, tutti si accorsero che le persone catturate erano nove anziché dodici.
“Ma dove diavolo sono gli altri tre?” chiese sconcertato Lopez.
Griffin rimase in silenzio, ma aveva capito tutto. Sapeva che in mezzo a quegli uomini non ci sarebbe stato Hassan.
Dopo qualche minuto arrivò la conferma da parte delle forze pakistane che avevano attuato il raid contro i fuoristrada. Tra le persone catturate non c’era traccia di Hassan.
Lopez sferrò un pugno sulla scrivania.
“Ma cosa cazzo è successo? Qualcuno me lo spieghi per favore” chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare.
“È successo che siamo stati fregati” rispose Griffin.
“Che significa?”
“Ricordi quando i tre fuoristrada sono entrati in quella galleria?”
“Sì, me lo ricordo.”
“È lì che Hassan è riuscito a fuggire. I veicoli devono aver rallentato abbastanza per permettere ad Hassan di lanciarsi in corsa.”
“Che il diavolo se li porti! Spostiamo l’aereo di sorveglianza in prossimità della galleria e cerchiamoli.”
“Sarà difficile trovarli. A quest’ora chissà dove possono essere nascosti.”
Griffin si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi, sentendo che una pesante stanchezza si era impossessata di lui. Aveva capito esattamente come erano andate le cose, anche se troppo tardi.
Hassan e Samir avevano approfittato della galleria per saltare dal fuoristrada. Latif era sceso dal secondo veicolo per fare da guida attraverso le insidiose montagne, conducendoli infine in un rifugio sicuro. Nel frattempo i fuoristrada avevano continuato a procedere senza che nessuno si accorgesse di niente.
Griffin avrebbe voluto stendersi su un letto e farsi una dormita, ma prima doveva informare il Presidente Bailey del fallimento totale dell’operazione. Si avviò verso il suo ufficio consapevole che la sua carriera avrebbe subito un brusco arresto.
Islamabad (Pakistan) 7 dicembre 2015
Non era mai stato nella moschea di Shah Faisal e ne rimase molto colpito. Si era lasciato affascinare dalla sua particolare forma che ricordava una tenda beduina, circondata ai quattro angoli da altrettanti minareti alti ottantacinque metri che terminavano a punta, come lance rivolte verso il cielo. La sua costruzione era stata sovvenzionata da re Faisal, regnante dell’Arabia Saudita, negli anni ottanta. I lavori erano terminati nel 1986, facendone una delle moschee più grandi al mondo.
Omar Abdallah Hassan stava percorrendo l’interno della moschea accompagnato dal fedele Samir, anche lui molto colpito dalla bellezza dell’edificio di culto. La prossima preghiera sarebbe cominciata tra due ore, quindi la moschea era vuota. Hassan aveva un appuntamento con il comandante delle forze armate pakistane, il generale Zeshan Aslam.
Il leader del JOA si trovava da pochi giorni nella capitale del Pakistan, la tappa finale della fuga iniziata una settimana prima dalle montagne del Waziristan. Lui e Samir si erano spostati sempre di notte, rimanendo nascosti di giorno. Erano stati accompagnati da alcuni guerriglieri che avevano svolto le funzioni di guida e di scorta sostituendo Latif. Dopo qualche giorno, uno dei guerriglieri lo aveva informato che ci sarebbe stato un avvicendamento nella squadra di scorta. Il nuovo gruppo, composto da tre uomini, era capeggiato da un certo Reis. Aveva detto di essere stato mandato da un importante generale pakistano con l’ordine di fargli raggiungere Islamabad sano e salvo. Aveva continuato promettendo che, una volta arrivati nella capitale, avrebbe ricevuto protezione dai suoi nemici. Hassan non si era fidato completamente di quell’uomo. Era alto e piuttosto magro, con una carnagione scura quasi priva di peli. Quello che aveva colpito Hassan erano i grandi occhi neri che sembravano privi di espressione. Una volta arrivati nella capitale pakistana, Reis aveva sistemato Hassan e Samir in un luogo sicuro perché potessero riprendersi dal lungo viaggio. Dopo due giorni era tornato per informarli che Aslam desiderava incontrarlo.
Ed eccolo lì, Zeshan Aslam, fermo al centro della struttura, con le mani intrecciate dietro la schiena. Hassan continuò a camminare verso l’uomo, sentendo con i piedi nudi il contatto con il morbido tappeto che ricopriva il pavimento. Aslam era un uomo di cinquant’anni in evidente sovrappeso, con la pelle olivastra e le labbra carnose. Gli unici capelli rimasti si trovavano intorno alle orecchie e dietro la nuca. Indossava un largo camicione bianco e dei pantaloni dello stesso colore. Doveva pesare almeno centoventi chili, stimò Hassan. Si voltò verso Samir e ne osservò per un attimo il fisico snello e muscoloso. Per poco non gli venne da ridere quando tornò a posare il suo sguardo sul generale, ma rammentò che sotto quel corpo sformato c’era un uomo che gli aveva dato un rifugio sicuro lontano dai suoi nemici. Era curioso di conoscere il motivo per cui l’aveva fatto convocare.
Arrivato a una ventina di metri dal pakistano, fece cenno a Samir di fermarsi; voleva avvicinarsi da solo.
“Che la pace del Signore sia con te” salutò per primo Aslam con un ampio sorriso.
“Che la misericordia di Allah e le sue benedizioni siano su di te” rispose Hassan abbracciando il pakistano e baciandolo tre volte sulle guance.
“Sono contento che tu sia sfuggito agli americani.”
“Mi fa piacere che tu pensi questo, ma senza il tuo aiuto non sono sicuro che avrei potuto farcela.”
“Con le tue capacità te la saresti cavata comunque” rispose Aslam con fare mellifluo.
“Forse, ma voglio ringraziarti ugualmente.”
“Non hai bisogno di ringraziarmi. Non potevo permettere che gli americani ti catturassero. Io ammiro molto quello che hai fatto fino a ora, anche se, come sicuramente capirai, non posso ammetterlo pubblicamente.”
“Certo che capisco. La tua stima è per me una fonte di gioia” affermò Hassan con tono adulatorio.
Aslam annuì con la testa facendosi serio. Sulla sua fronte erano già comparse delle gocce di sudore. Cominciarono a passeggiare lentamente all’interno della moschea.
“Immagino che ti sia chiesto perché ti ho convocato questa mattina” esordì il pakistano tirando fuori un fazzoletto dalla tasca del pantalone.
Ottimo, pensò Hassan. La fase dei convenevoli era finita.
“Ovviamente sì, caro Zeshan.”
“Ormai sono più di trent’anni che sono nell’esercito e si può dire che ho visto di tutto. La storia recente del mio Paese è stato un alternarsi di dittature militari e tentativi di ritorno alla democrazia. In tutto questo io sono sempre stato al mio posto, confidando che la situazione migliorasse. Essendo un militare, ho riposto molte speranze in Musharraf quando ha preso il potere, ma sono stato deluso anche da lui. Poi siamo tornati alla democrazia e guardandomi intorno vedo che nulla è cambiato. La corruzione dilaga e la popolazione sta sempre male.”
Hassan annuì silenziosamente invitandolo a proseguire, mentre Aslam si asciugava la fronte con il fazzoletto.
“Oltre a tutto questo, c’è il fatto che da molti anni siamo diventati il fedele cagnolino degli Stati Uniti. Il Paese è dipendente dagli aiuti economici che ci forniscono ogni anno e per questo siamo diventati la prostituta che gli permette di fare i loro comodi.”
“Però siete riusciti a firmare il trattato che gli impedisce di mettere piede nel vostro territorio se non invitati.”
“Già, ma come hai sperimentato di persona gli Stati Uniti fanno quello che gli pare. Dopo l’assassinio di quei poveri bambini, ho faticato parecchio convincere il Presidente Rehman a prendere una posizione netta. Anche se il suo incarico è puramente rappresentativo, è molto amato dalla popolazione. Dopo le parole di Rehman, il governo ha deciso di obbligare gli Stati Uniti a firmare il trattato. Ovviamente gli americani davanti al mondo non potevano rifiutare, ma dietro le quinte gli aiuti economici che ci forniscono sono già calati drasticamente. Rehman si è pentito di essersi schierato contro i suoi padroni e vorrebbe tornare a farsi bello davanti a loro.”
“E immagino che la mia cattura possa aiutare il Presidente nell’intento.”
“Immagini bene. Ha sguinzagliato le forze armate in tutto il Paese per catturarti e consegnarti agli americani. Fortunatamente ho dei contatti nel Waziristan che mi hanno permesso di trovarti prima di lui. Quando ho saputo che eri riuscito a sfuggire alla cattura da parte delle nostre forze, mi sono subito attivato per soccorrerti.”
“Non posso fare a meno di ringraziarti ancora una volta” affermò Hassan chinando il capo in segno di rispetto.
“Qui a Islamabad ti farò proteggere. Rehman non immagina che tu sia a due passi da lui.”
“Se permetti mi pare una scelta un po’ rischiosa. Prima o poi riuscirà a trovarmi.”
“Questo è vero. Ecco perché ora ti svelerò il motivo per cui ti ho chiesto di incontrarci.”
Aslam prese una breve pausa per rifiatare.
“Se continua così le cose non potranno che peggiorare. Dopo Rehman ne arriverà un altro come lui e il Pakistan continuerà a essere lo schiavo degli americani mentre la sua gente morirà di fame. Ho deciso di prendere in mano la situazione prima che sia troppo tardi e tu puoi aiutarmi in tutto questo.”
“Sono curioso di sapere in che modo.”
“Ho intenzione di creare un grande Pakistan che segua fedelmente la parola di Allah e che sia in grado di allontanare gli infedeli dal Medio Oriente. Voglio un Pakistan che sia di esempio agli altri Stati musulmani e che gli dia la forza di ribellarsi.”
“Queste parole sono musica per le mie orecchie. Vedo con piacere che abbiamo degli obiettivi comuni.”
“Esattamente. Per fare questo ho bisogno di governare il Paese e il primo passo per farlo è eliminare il Presidente Rehman.”
Hassan sospirò deluso. Non era quello che si aspettava.
“Quindi, caro Zeshan, tu mi hai convocato per aiutarti a uccidere Rehman e farti conquistare il potere?”
“Oh no, non si tratta di questo” si affrettò a chiarire il pakistano intuendo la delusione di Hassan. “Sono in grado di eliminarlo in qualsiasi momento. Dalla mia parte ho forze sufficienti che mi permetterebbero di prendere il controllo del Pakistan anche domani. Non è così però che deve succedere. Ho bisogno che il popolo sia dalla mia parte e perché ciò avvenga tutto deve succedere secondo uno schema preciso. È per questo che ho bisogno della collaborazione tua e dei tuoi uomini.”
“E quale sarebbe il compito del JOA in tutto questo?”
Aslam sorrise ampiamente al suo interlocutore prima di rispondere.
“Semplicemente quello in cui siete bravi. Uccidere gli infedeli.”