Capitolo VI-1

2066 Words
Capitolo VI Sua maestà il re Luigi XIII La faccenda fece molto rumore. Il signor di Tréville tempestò molto ad alta voce contro i suoi moschettieri e li complimentò sotto voce; ma siccome non c’era tempo da perdere per prevenire il Re, il signor di Tréville si affrettò a recarsi al Louvre. Era già troppo tardi, il Re era a colloquio col Cardinale e il signor di Tréville si sentì rispondere che in quel momento lavorava e non poteva ricevere. La sera il signor di Tréville andò al giuoco del Re. Il Re vinceva e siccome Sua Maestà era avarissimo, era di ottimo umore; cosicché appena scorse Tréville gli disse: “Venite qui, signor capitano, debbo farvi dei rimproveri; sapete che Sua Eminenza è venuta a lamentarsi dei vostri moschettieri? E con una tale emozione che questa sera Sua Eminenza ne è ammalata. Ma, dite un po’! i vostri moschettieri sono dei diavoli a quattro, gente da forca!” “No, Sire” rispose Tréville vedendo di primo acchito che la cosa si metteva bene “no, al contrario, sono delle buone creature, dolci come agnelli, che hanno un solo desiderio, me ne rendo garante: quello che la loro spada non esca dal fodero se non per il servizio di Vostra Maestà. Ma, che volete, le guardie di monsignor Cardinale cercano sempre di attaccar briga con loro, per cui, per l’onore stesso del corpo, quei poveri ragazzi sono costretti a battersi.” “Ascoltate un po’ il signor di Tréville!” disse il Re “ascoltatelo! non si direbbe che parli di una comunità religiosa? In verità, mio bravo capitano, mi fate venire il desiderio di togliervi il brevetto e la carica e di dar l’uno e l’altra alla signorina di Chemerault, alla quale ho promesso un’abbazia. Ma non crediate che vi presti fede sulla parola. Mi chiamano Luigi il Giusto, signor di Tréville, e fra poco ci rivedremo.” “Ed è appunto perché fido nella vostra giustizia. Sire, che attenderò tranquillamente e pazientemente le buone grazie di Vostra Maestà.” “Aspettate, dunque, signore” disse il Re “aspettate, che non vi farò aspettare a lungo.” Infatti, siccome la fortuna cambiava, e il Re cominciava a perdere ciò che aveva guadagnato, non era spiacente di avere un pretesto per ‘faire Charle Magne’ (ci si consenta di servirci di questa espressione da giocatore, della quale, confessiamo, non conosciamo l’origine). Il Re si alzò dunque in capo a un istante, ed intascando il denaro che era davanti a lui e che, nella massima parte, proveniva dalla sua vincita, disse: “La Vieuville, prendete il mio posto, ho urgenza di parlare al signor di Tréville per una faccenda importante. Ah!... Avevo davanti a me ottanta luigi, mettete la stessa somma, perché quelli che hanno perduto non debbano lamentarsi. La giustizia prima di tutto.” Poi, voltandosi verso il signor di Tréville e andando con lui nel vano di una finestra, continuò: “Ebbene, signore, voi dite che sono le guardie di Sua Eminenza che hanno provocato i vostri moschettieri?” “Sì, Sire, come sempre.” “Com’è andata la cosa, vediamo? Perché voi lo sapete, mio caro capitano, è necessario che un giudice ascolti entrambe le parti.” “Ah! mio Dio! Nel modo più semplice e naturale del mondo. Tre dei miei migliori soldati che Vostra Maestà conosce di nome e di cui ha più volte apprezzato la devozione, e che hanno, posso affermarlo al Re, il suo servizio molto a cuore, tre dei miei migliori soldati, dico, i signori Athos, Porthos e Aramis avevano fatta una scampagnata con un giovane, cadetto di Guascogna, che avevo loro raccomandato proprio quella mattina. La scampagnata doveva aver luogo a Saint-Germain, credo, ed essi si erano dati appuntamento ai Carmelitani Scalzi, quando la loro festa fu turbata dal signor di Jussac, dai signori di Cahusac, Bicarat e da altre due guardie, che non venivano certo là in così numerosa compagnia senza cattive intenzioni contro gli editti.” “Ah! mi ci fate pensare” disse il Re “senza dubbio, erano andati là per battersi.” “Io non li accuso, Sire, ma lascio giudicare a Vostra Maestà, ciò che potessero andare a fare cinque uomini armati, in un luogo così deserto come lo sono i paraggi dei Carmelitani.” “Sì, avete ragione, Tréville, avete ragione.” “Allora, quando hanno visto i miei moschettieri, hanno cambiato idea e hanno dimenticato i loro odi particolari per l’odio di corpo. Vostra Maestà sa che i moschettieri, che sono del Re e solo del Re, sono i nemici naturali delle guardie di monsignor Cardinale.” “Sì, Tréville” disse il Re malinconicamente “è ben triste, credete a me, che in Francia vi siano due partiti, due teste alla regalità; ma tutto ciò finirà, Tréville, tutto ciò finirà. Dunque voi dite che le guardie hanno provocato i moschettieri?” “Dico che è probabile le cose siano andate così. Ma non lo giuro, Sire. Voi sapete come sia difficile conoscere la verità, a meno di non essere dotati di quell’istinto ammirevole che ha fatto sì che Luigi XIII sia chiamato il Giusto...” “Avete ragione, Tréville; ma non erano soli i vostri moschettieri, con loro c’era un fanciullo?” “Sì, Sire, e un ferito, di modo che tre moschettieri del Re, di cui uno ferito, e un fanciullo, non solo hanno tenuto a bada cinque delle più terribili guardie del Cardinale, ma ne hanno stese a terra quattro.” “Ma questa è una vittoria!” esclamò il Re raggiante “una vittoria completa!” “Sì, Sire, non meno completa di quella dei Ponts-de-Cé.” “Quattro uomini, di cui uno ferito e un fanciullo, dite?” “Un ragazzo appena, il quale si è anzi così ben condotto in questa occasione che mi prenderò la libertà di raccomandarlo caldamente a Vostra Maestà.” “Come si chiama?” “D’Artagnan, Sire. È il figlio d’uno dei miei più antichi amici; il figlio di un uomo che ha fatto la guerra partigiana col Re vostro padre di gloriosa memoria.” “E voi dite che questo giovanotto si è condotto bene? Raccontatemi la cosa, Tréville; sapete bene che amo i racconti di guerra e di combattimento.” Ed il Re Luigi XIII rialzò fieramente i baffi mettendosi una mano sul fianco. “Sire” riprese Tréville “come vi ho detto, il signor D’Artagnan è quasi un fanciullo e siccome non ha l’onore di essere moschettiere, era in abito borghese; le guardie del Cardinale, notando la sua giovine età e, inoltre, che non apparteneva al corpo, lo invitarono ad allontanarsi prima dell’attacco.” “Allora vedete bene che sono stati loro ad attaccare, Tréville.” “È vero, Sire, non possono sussistere più dubbi; dunque, gli imposero di ritirarsi, ma egli rispose che per sentimento si sentiva moschettiere, e che era tutto per Vostra Maestà e che restava perciò con i signori moschettieri.” “Bravo giovanotto!” mormorò il Re. “E infatti rimase con loro; e Vostra Maestà ha in lui un così valoroso campione che fu proprio lui a dare a Jussac quel terribile colpo di spada che mette tanto in collera monsignor Cardinale.” “È lui che ha ferito Jussac?” esclamò il Re. “Ma se avete detto che è un ragazzo! La cosa mi pare impossibile, Tréville.” “È come ho avuto l’onore di dire a Vostra Maestà.” “Jussac, una delle prime lame del regno!” “Ebbene, Sire, ha trovato il suo maestro.” “Voglio vedere questo giovanotto, Tréville, voglio vederlo e se si può far qualche cosa per lui, la faremo.” “Quando si degnerà di riceverlo, la Maestà Vostra?” “Domani a mezzogiorno, Tréville.” “Dovrò accompagnare soltanto lui?” “No, accompagnateli tutti e quattro insieme. Voglio ringraziarli tutti in una volta. Gli uomini devoti sono rari, Tréville, conviene ricompensarne l’abnegazione.” “A mezzogiorno, Sire, saremo al Louvre.” “Passate dalla scala privata, Tréville. È inutile che il Cardinale sappia...” “Sarete obbedito, Sire.” “Voi mi capite, Tréville, un editto è pur sempre un editto, e in fin dei conti abbiamo decretato che non ci si deve battere.” “Ma questo scontro, Sire, non è uno dei soliti duelli; è piuttosto una rissa e la prova di ciò è che le guardie del Cardinale erano cinque contro tre moschettieri e D’Artagnan.” “È giusto” disse il Re “ma non importa, Tréville, venite ugualmente dalla scala privata.” Tréville sorrise. Ma siccome era già molto per lui aver ottenuto che quel fanciullone si ribellasse al suo mentore, tacque; e salutando rispettosamente si congedò. La sera stessa i tre moschettieri furono avvertiti dell’onore loro accordato. Ma siccome da lungo tempo conoscevano il Re, non si entusiasmarono troppo. D’Artagnan invece, con la sua fantasia di Guascone, immaginò di avere già raggiunto la fortuna e passò la notte in sogni dorati, e appena alle otto del mattino era da Athos. D’Artagnan trovò il moschettiere già pronto per uscire. Siccome non dovevano presentarsi al Re che a mezzogiorno, egli si era proposto di andare, insieme con Porthos e Aramis, a fare una partita di pallacorda in una bisca vicinissima alle scuderie del Lussemburgo. Athos invitò D’Artagnan a seguirlo, e quantunque egli ignorasse assolutamente quel giuoco al quale non aveva mai preso parte, accettò di buon grado non sapendo come impiegare il suo tempo dalle nove a mezzogiorno. I due moschettieri erano già arrivati e avevano cominciato il giuoco. Athos, che era fortissimo in tutti gli esercizi fisici, passò con D’Artagnan dal lato opposto e li sfidò. Ma al primo movimento, sebbene giocasse con la mano sinistra, capi che la sua ferita era ancora troppo recente per permettergli un simile sforzo. D’Artagnan restò dunque solo, e siccome dichiarò che era troppo maldestro per sostenere una partita in regola, continuarono a lanciarsi le palle senza contare i punti. Ma una palla lanciata dall’erculeo Porthos passò così vicina al viso di D’Artagnan che questi pensò che, se invece di passare di fianco, lo avesse colpito in pieno, l’udienza reale sarebbe andata in fumo, perché gli sarebbe stato impossibile presentarsi al Re. Ora, poiché da questa udienza, nella sua immaginazione di Guascone, dipendeva tutto il suo avvenire, salutò gentilmente Porthos e Aramis, dichiarò che non avrebbe ripreso la partita se non quando fosse stato degno dei suoi avversari, e andò a mettersi vicino alla corda, fra gli spettatori. Per sua disgrazia, fra gli spettatori c’era una guardia di Sua Eminenza che, ancora tutta ardente per la sconfitta dei suoi compagni, arrivata in città soltanto il giorno prima, si era ripromessa di cogliere la prima occasione per farne vendetta, Egli credette quindi che l’occasione fosse propizia e indirizzandosi al suo vicino disse: “Non c’è da meravigliarsi che questo giovanotto abbia avuto paura di una palla, è certamente un aspirante moschettiere.” D’Artagnan si volse come fosse stato morsicato da un serpente e guardò fissamente la guardia che aveva pronunciato quelle parole insolenti. “Perbacco!” riprese questa arricciandosi i baffi con aria insolente “guardatemi pure finché vi piacerà, mio piccolo signore, quello che ho detto ho detto.” “E siccome quello che avete detto è chiarissimo” rispose a bassa voce D’Artagnan “vi prego di seguirmi.” “E quando?” disse la guardia con la stessa aria canzonatoria “Subito, se vi piace.” “Certamente voi sapete chi sono?” “Non lo so e non mi importa saperlo.” “Avete torto, perché se sapeste il mio nome, avreste forse meno fretta.” “Come vi chiamate?” “Bernajoux, per servirvi.” “Ebbene, signor Bernajoux” disse tranquillamente D’Artagnan “vado ad attendervi alla porta.” “Andate, signore, vi seguo.” “Non affrettatevi troppo, affinché non ci si accorga che usciamo insieme; capirete che per fare ciò che dobbiamo fare, un pubblico troppo numeroso ci disturberebbe.” “Va bene” rispose la guardia meravigliata che il suo nome avesse fatto così poco effetto sul giovanotto. Infatti il nome di Bernajoux era conosciutissimo da tutti tranne che da D’Artagnan; egli era uno di quelli che prendevano parte il più sovente alle risse giornaliere a cui tutti gli editti del Re e del Cardinale non avevano potuto porre fine. Porthos e Aramis erano così occupati nella loro partita e Athos li guardava con tanta attenzione che non si accorsero che il loro giovane compagno usciva. Questi, come aveva detto alla guardia di Sua Eminenza, si fermò sulla porta; un istante dopo, la guardia discese a sua volta. Poiché D’Artagnan non aveva tempo da perdere essendo l’udienza del Re fissata per mezzogiorno, si guardò intorno e, vedendo che la strada era deserta, disse al suo avversario: “In fede mia, è una bella fortuna per voi, quantunque vi chiamiate Bernajoux, di avere a che fare con un semplice aspirante moschettiere; tuttavia, state tranquillo che cercherò di fare del mio meglio. In guardia!” “Ma” disse colui che D’Artagnan provocava in questo modo “mi sembra che questo non sia un luogo bene scelto per il nostro affare, staremmo meglio dietro l’abbazia di Saint-Germain o nel Pré-aux-Clerc.” “Ciò che dite è pieno di buon senso” rispose D’Artagnan “disgraziatamente non ho tempo da perdere perché ho un appuntamento per mezzogiorno preciso. In guardia dunque, signore, in guardia!” Bernajoux non era uomo da farsi ripetere due volte un simile invito. Nello stesso istante la sua spada brillò nella sua mano ed egli si slanciò sul suo giovanissimo avversario, sperando di intimidirlo. Ma D’Artagnan, che il giorno prima aveva fatte le sue prime prove e, fresco e orgoglioso della sua vittoria e pieno di speranza per l’avvenire, era ben risoluto a non indietreggiare di un passo, non si mosse e le due lame si incrociarono fino alla guardia, e siccome il Guascone si tenne fermo al suo posto, fu l’avversario che dovette fare un passo indietro. Ma D’Artagnan colse il momento in cui, per questo movimento, la lama di Bernajoux deviava dalla linea di guardia, si disimpegnò, tirò una botta a fondo e toccò il suo avversario alla spalla. Immediatamente, D’Artagnan arretrò a sua volta di un passo e rialzò la spada; ma Bernajoux gli gridò che non era niente, e, gettandosi ciecamente su di lui, si infilzò da sé.
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