Capitolo VI-3

1761 Words
“Sire” rispose con tranquillità Tréville “vengo al contrario per chiedervela.” “E contro chi?” esclamò il Re. “Contro i calunniatori” rispose il signor di Tréville. “Ah! questa è nuova” riprese il Re. “Non vorrete dirmi che i vostri tre dannati moschettieri, Athos, Porthos e Aramis, e il vostro cadetto del Bearn non si siano gettati come anime dannate sul povero Bernajoux e non l’abbiano maltrattato in così malo modo che a quest’ora, forse, sta morendo! Non vorrete negarmi che dopo di ciò abbiano assediato il palazzo del duca de La Trémouille e che siano stati lì lì per incendiarlo, il che, a dire il vero, non sarebbe stata una gran disgrazia in tempo di guerra, visto che è un nido di Ugonotti; ma in tempo di pace, è un cattivo esempio. Non vorrete negarmi tutto questo, spero?” “E chi vi ha fatto questo bel racconto, Sire?” chiese tranquillamente Tréville. “Chi mi ha fatto questo bel racconto, signore? E chi volete che sia se non colui che veglia mentre io dormo, che lavora quanto mi diverto, che dirige tutto dentro e fuori del regno, in Francia come in Europa?” “Sua Maestà vuole certamente parlare di Dio” disse il signor di Tréville “perché solo Dio è tanto superiore a Vostra Maestà.” “No, signore, vi parlo del sostegno dello Stato, del mio solo servitore, del mio solo amico, di monsignor Cardinale.” “Sua Eminenza non è sua Santità, Sire.” “Che cosa intendete di dire, signore?” “Che solo il Papa è infallibile, e che questa infallibilità non si estende ai cardinali.” “Volete dire ch’egli m’inganna, che mi tradisce. Allora voi l’accusate? Suvvia, confessatemi francamente che lo accusate.” “No, Sire, non dico questo, dico che egli si inganna, dico che è stato male informato, dico che ha avuto troppa fretta di accusare i moschettieri di Vostra Maestà, verso i quali egli è sempre ingiusto, dico che non ha attinto a una buona fonte le sue informazioni.” “L’accusa parte dal signor de La Trémouille, dal duca stesso. Che sapete rispondere a ciò?” “Potrei rispondere, Sire, che egli è troppo interessato nella questione, per essere un testimonio imparziale: ma lungi da me questo pensiero; io conosco il duca e so che è un galantuomo, mi rimetto dunque a lui, ma ad una condizione, Sire.” “Quale ?” “Che Vostra Maestà lo faccia venire e lo interroghi direttamente, ma da solo a solo e senza testimoni; e che io rivedrò Vostra Maestà non appena il duca sia partito.” “Bene” fece il Re “e vi rimetterete completamente a quanto dirà il signor de La Trémouille?” “Sì, Sire.” “Accetterete il suo giudizio?” “Senza dubbio.” “E vi assoggetterete alle riparazioni che esigerà?” “Perfettamente.” “La Chesnaye!” fece il Re. “La Chesnaye!” Il cameriere privato di Luigi XIII, che stava sempre fuori della porta, entrò. “La Chesnaye” disse il Re “mandate subito a cercare il signor de La Trémouille, voglio parlargli questa sera.” “Vostra Maestà mi dà la sua parola d’onore che non parlerà con nessuno tra il signor de La Trémouille e me?” “Con nessuno, sulla mia parola di gentiluomo.” “Allora a domani, Sire.” “A domani, signore.” “A che ora, di grazia, Maestà?” “All’ora che vorrete!” “Ma venendo troppo presto temo di svegliare Vostra Maestà.” “Svegliarmi? Dormo io forse? Io non dormo più, signore, tutt’al più qualche volta sogno. Venite dunque presto come vorrete, anche alle sette, ma guai a voi se i vostri moschettieri sono colpevoli!” “Se i miei moschettieri sono colpevoli li rimetterò nelle mani di Vostra Maestà che li punirà come le piacerà meglio. Vostra Maestà vuole altro da me? Parli, sono pronto a obbedire.” “No, signore; non è senza ragione che mi chiamano Luigi il Giusto. A domani dunque, a domani.” “Sino allora, Dio guardi Vostra Maestà.” Per quanto poco dormisse il Re, Tréville dormì meno ancora; la sera stessa aveva fatto avvertire i tre moschettieri e il loro compagno perché si recassero da lui la mattina dopo alle sei e mezzo. Egli li condusse con sé senza affermare nulla, senza nulla promettere, e non nascondendo loro che la loro fortuna e la sua stessa erano alla mercé di un gittata di dadi. Arrivati ai piedi della scala privata, li fece aspettare. Se il Re era sempre irritato contro di loro, si sarebbero allontanati senza farsi vedere; se il Re acconsentiva a riceverli, li avrebbe fatti chiamare. Arrivato nell’anticamera particolare del Re, il signor di Tréville trovò La Chesnaye che gli disse che la sera prima non si era trovato il duca de La Trémouille al suo palazzo, che egli era rincasato troppo tardi per presentarsi al Louvre, che era arrivato poco prima e che in quel momento era dal Re. Questa coincidenza soddisfece molto Tréville il quale fu così ben sicuro che nessuna interferenza estranea si sarebbe inserita tra la deposizione del signor de La Trémouille e lui. Infatti, erano appena trascorsi dieci minuti, che la porta del gabinetto del Re si aprì e Tréville vide uscirne il duca de La Trémouille che venne a lui e gli disse: “Signor di Tréville, Sua Maestà mi ha mandato a chiamare per sapere da me come andarono le cose ieri mattina al mio palazzo, Gli ho detto la verità, vale a dire che la colpa era delle mie genti e che ero pronto a farvi le mie scuse. Poiché v’incontro ve le faccio subito e vi prego di volermi considerare sempre vostro amico”. “Signor duca” disse il signor di Tréville “ero così pieno di fede nella vostra lealtà che non ho voluto altri difensori che voi, presso Sua Maestà. Vedo che non mi ero ingannato e vi ringrazio poiché per merito vostro, posso affermare che in Francia esistono ancora uomini dei quali si può dire ciò che io ho detto di voi.” “Bene, bene” disse il Re che aveva ascoltato tutti questi complimenti tra le due porte “soltanto ditegli, Tréville, poiché egli afferma di essere vostro amico, che anch’io vorrei essere compreso tra i suoi, ma che egli mi trascura; che sono tre anni che non l’ho visto e che non lo vedo se non quando lo mando a chiamare. Ditegli tutto ciò da parte mia, perché si tratta di cosa che un re non può dire egli stesso.” “Grazie, Sire, grazie” disse il duca “Vostra Maestà ricordi che non sono coloro, e non dico ciò per il signor di Tréville, non sono coloro ch’essa vede in ogni ora del giorno che gli son più devoti.” “Ah! avete inteso ciò che ho detto, tanto meglio, duca, tanto meglio” disse il Re avanzando sino alla porta. “Ah, Tréville, siete voi; dove sono i nostri moschettieri? Ieri l’altro vi dissi di condurmeli, perché non lo avete fatto?” “Sono dabbasso, Sire, e col vostro permesso La Chesnaye può farli salire.” “Sì, vengano subito. Sono ormai le otto e alle nove attendo una visita. Andate, signor duca, fatevi rivedere. Entrate, Tréville.” Il duca salutò ed uscì mentre i tre moschettieri e D’Artagnan guidati da La Chesnaye apparivano sull’alto della scala. “Venite, miei valorosi” disse il Re “venite ché debbo rimproverarvi.” I moschettieri si avvicinarono inchinandosi; D’Artagnan li seguì ma rimase dietro a loro. “Come diavolo avete fatto” continuò il Re “voi quattro soli a mettere in due giorni sette guardie del Cardinale fuori combattimento? È troppo, signori, è troppo. Di questo passo, Sua Eminenza sarà costretta a rinnovare la sua compagnia in tre settimane, e io dovrei fare applicare gli editti col massimo rigore. Una, per combinazione, passi, ma sette in due giorni è troppo, lo ripeto, è troppo!” “Per questo, Sire, essi vengono contriti e pentiti a farvi le loro scuse.” “Contriti e pentiti! Uhm!” fece il Re “non mi fido delle loro facce ipocrite, specialmente di quel Guascone laggiù. Venite qui, signore.” D’Artagnan, avendo compreso che questo complimento era rivolto a lui, si avvicinò assumendo la sua aria più contrita. “Ebbene! che cosa mi dicevate che era un giovanotto, signor di Tréville? Questo è un ragazzo, un vero ragazzo! Ed è lui che ha dato quel famoso colpo di spada a Jussac?” “E quei due bei colpi a Bernajoux.” “Davvero?” “Senza contare” disse Athos “che se egli non mi avesse difeso da Bicarat, io non avrei ora certamente l’onore di inchinarmi umilmente alla Maestà Vostra.” “Ma questo Bearnese è dunque un vero demonio, ‘ventre saint-gris!’ signor di Tréville, come avrebbe detto il Re mio padre. In questo modo egli bucherà molte giubbe e spezzerà molte spade. Ora, i Guasconi sono sempre poveri, è vero?” “Sire, devo confessarvi che non hanno ancora trovate delle miniere d’oro nelle loro montagne, sebbene il Signore dovesse loro questo miracolo in premio del coraggio con cui sostennero i diritti di vostro padre.” “E poiché io sono figlio di mio padre, ciò vuol dire che sono i Guasconi che mi hanno fatto Re, è vero Tréville? Ebbene! alla buon’ora, non dico di no. La Chesnaye, andate a vedere se, frugando in tutte le mie tasche, trovate quaranta pistole e portatemele. E ora, giovanotto, ditemi, con la mano sulla coscienza, come sono andate le cose.” D’Artagnan raccontò con tutti i particolari l’avventura del giorno prima; disse come non potendo dormire per la gioia che provava all’idea di vedere Sua Maestà si fosse recato dai suoi amici tre ore prima dell’udienza, come fossero andati insieme a una bisca e come, avendo egli dimostrato di aver paura di ricevere una palla sul viso, Bernajoux lo avesse canzonato ed avesse corso il rischio di pagare con la vita la sua canzonatura e il signor de La Trémouille, che non c’entrava per nulla, fosse stato lì lì per avere il palazzo incendiato. “Va bene” mormorò il Re “è proprio così che il duca mi ha raccontato la cosa. Povero Cardinale! Sette uomini in due giorni e fra i più cari! Però ora basta, signori, basta, mi capite? Voi avete ben presa la vostra rivincita per l’attacco subìto in via Férot e dovete essere soddisfatti.” “Se lo è Vostra Maestà” disse Tréville “lo siamo anche noi.” “Sì, lo sono” rispose il Re prendendo un pugno d’oro dalle mani di La Chesnaye e, mettendolo in quelle di D’Artagnan “ed ecco” aggiunse “una prova della mia soddisfazione.” In quell’epoca certe idee di fierezza che sono di prammatica ai nostri giorni, non erano ancora di moda, ed un gentiluomo non si sentiva umiliare se il Re gli regalava del denaro. D’Artagnan intascò dunque le quaranta pistole di buon grado e ringraziò con effusione Sua Maestà. “Ed ora” disse il Re guardando la pendola “poiché sono le otto e mezzo, ritiratevi: alle nove, come vi ho detto, attendo qualcuno. Grazie della vostra devozione, signori. Posso contarci, non è vero?” “Oh, Sire!” esclamarono ad una voce i quattro compagni “ci faremo tagliare a pezzi per Vostra Maestà!” “Bene, bene; ma restate interi; è meglio e mi servirete di più. Tréville” aggiunse il Re a mezza voce mentre gli altri si ritiravano “dato che per ora non ci sono posti nei moschettieri, e siccome d’altronde abbiamo, deciso che non si possa entrare in quel corpo senza aver fatto prima un noviziato, fate entrare il giovanotto nella compagnia delle guardie del signor Des Essarts, vostro cognato. Perbacco, Tréville, come mi diverto all’idea delle smorfie che farà il Cardinale; egli sarà furioso ma non me ne preoccupo perché sono nel mio diritto.” Ed il Re salutò con la mano Tréville che uscì e andò a raggiungere i suoi moschettieri; li trovò che stavano dividendosi con D’Artagnan le quaranta pistole. Il Cardinale, come aveva detto il Re, fu così furioso che per otto giorni non andò al giuoco di Sua Maestà; ciò che non impediva al Re di fargli ogni volta che lo incontrava la più graziosa accoglienza e di chiedergli con la voce più carezzevole: “Ebbene, monsignor Cardinale, come stanno quei poveri Jussac e Bernajoux che vi sono tanto fedeli?”
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