Preferisco di notte
Cerco emozioni forti.
Preferisco le notti serene quando mi bucano l’anima quei paesi aggrappati alla montagna che si snodano come comete o si raccolgono come costellazioni in alto, oltre l’autostrada. A mezza costa le luci disegnano il percorso delle strade, su, giù, secondo la forma del pendio o la cima del poggio, strade scalpellinate nel marmo delle Apuane che le sorreggono, e le luci schizzano e sfarfallano contro il cielo della notte.
Con movimenti rapidi dell’occhio colgo tutti i paesi, poi torno a guardare la strada.
È morbido il piede sul gas, il respiro pacato. Appoggio bene le spalle allo schienale, le distendo e le snodo per farmi abbracciare, mentre la radio racconta nell’abitacolo qualche scena degli ultimi film.
Attenta alla strada.
Se lo martellava nel cervello, staiattentaallastrada, staiattentaallastrada, mentre l’auto filava veloce come uno schizzo, di notte. Una notte festiva senza camion, menomale, ma con una nebbia che un po’ stazionava a mezz’aria e a tratti toccava la strada con una nuvolaglia più fitta che inghiottiva la macchina. E quell’ansia che la attanagliava e finiva per vincere sulla prudenza.
Ma Emilia non aveva nulla da temere da lui, non era possibile che l’avesse inseguita. E se anche l’avesse voluto, con chi o con che cosa? In taxi? Come nei film dove lui dice al tassista “segui quella macchina”, mentre gli si chiude addosso la portiera e poi l’operatore fa un primo piano su un piede che pigia sul gas e sul contachilometri e sull’auto inseguita che svolta a una curva.
L’aveva conosciuto a una festa in una piazzetta di paese, un paese minuscolo dove tutti conoscono tutti e se tu sei straniera lo ricordano subito il tuo nome, mentre tu, mannaggia, non ne ricordi uno. Una di quelle feste dove poi si balla, con una chitarra e una tastiera che incominciano a farti sgambettare sul selciato.
Lui aveva accanto sua moglie, una rossina cresputa e rotondetta, attaccata per mano a due bimbi, uno tutto il padre, uno la madre.
Lui si avvicina che Emilia sta zampettando con una ragazzina, un due tre, un due tre, e la ragazzina si guarda i piedi e dice: “Non mi riesce”.
Le si avvicina e fa: “Balliamo, dai”.
Intanto quel tre tempi è finito, stoppandosi secco sull’ultima nota segnata dal battere forte del piede.
“Tua moglie non balla?” gli dice, gettando un sorriso in tralice alla donna.
“No, no, lei non sa ballare, non le è mai piaciuto.”
La guida deciso e leggero.
Ha gli occhi di azzurro ghiacciato, una barbetta corta tra il grigio e il nero intorno al mento, grigi i capelli rasati bassi.
“Sei sola?”
Massì, non si vede? “Hoamiciquassù.”
“Li conosco?”
“Può darsi.”
Emilia fa un cenno festoso a una donna più anziana che la sta osservando dal bordopista. “Vedi? È lei. Frequento la sua famiglia da anni.”
“Li conosco tutti. Sono amici dei miei genitori,” fa lui. E poi: “Sei brava a ballare”.
Emilia arrossisce e quasi si scusa.
“Ti va di venire a ballare con me?”
“E ora che stiamo facendo?”
“Intendo una sala, non qui.”
Emilia allunga lo sguardo di fuori e vede la madre bambina con i figli attaccati alle mani, che ora la stanno tirando, da una parte e dall’altra, verso una bancarella di dolciumi.
“E tua moglie cosa dice?”
“Lei è contenta, lo sa che mi piace.”
“Contenta?”
“Sì. Lei non esce, i bimbi vogliono tempo, e si sente un po’ in colpa, come se mi avesse tarpato le ali.”
“Ma tu, in famiglia… il tuo ruolo…” Emilia balbetta.
“Io mantengo la famiglia. Non faccio mancare niente a nessuno.” Lo dice con una sicurezza dura, che smonta ogni possibilità di replica.
“Ah!” fa Emilia, e un’onda nervosa le scuote la massa di capelli castanodorati, ma si concentra su un ritmo di walzer.
Il walzer lento ha portato un languore un po’ strano, come un ritorno di emozioni, con le gambe docili che affondano nel passo lungo e ruffiano, che le fa dire tra sé: Perché non dovrei uscire a ballare con lui, che abbiamo anche amici in comune, e anche la moglie mi ha visto, magari le parlo, le chiedo dei bimbi… un po’ mi dispiace, per lei… ma poi sarà vero? Fatti loro. Io vado. Sì, forse sono egoista, ma mi piace ballare.
Si incontrarono al casello, quella sera, e la nebbia era sottile e alta.
“Si va con la mia macchina,” disse lei, in un risveglio improvviso di autorevolezza maschile, come le capitava spesso, da quando era rimasta senza marito.
Il dancing li inghiottì con le sue fauci di balena che si aprivano su forme in moto sul posto, nello spazio scandito a spruzzo dai colori diversi delle luci. Una batteria d’assalto dava il ritmo e ondate di suoni metallici battevano le tempie e si infilavano come spilli dentro il cervello.
Oddio noneraquestochecercavo, pensò, ma non provò a parlare, tanto non l’avrebbe capita nessuno, e lui le gridò: “Ora c’è pausa disco, poi la musica cambia”.
Nella penombra che avvolge le poltrone, ai limiti della pista da ballo, sguardi maschili scrutano il suo passaggio, fin dentro la maglietta, fin sotto la gonna.
Emilia procede sicura perché c’è lui che le guarda le spalle.
Si fanno strada tra la folla. C’è un posticino sulla pista, in zona d’orchestra, dove il suono offende di più.
Lascia la borsa su una poltrona vuota. Lui la prende per mano e le fa strada.
Emilia sente la tempesta di note che le precipita addosso, cerca il ritmo ma le gambe non rispondono, rimangono rigide e pesanti.
Che ti prende? si chiede. Okay, okay, non è il posto che sognavi, ma ora sei qui, sciogliti, ecco, così, rilassati. Sì, ma dai, che cosa te ne importa se il rumore ti buca il cervello? Per una sera non si muore. Sentilo dentro, il ritmo, snoda le spalle, ecco, brava, ora le braccia… sì, sì… nell’aria, sciogli i fianchi… Il bacino? Anche il bacino e le ginocchia. Ora la musica è dentro.
Lui è lì davanti, preso dallo stesso ritmo, in un assolo di coppia. Vicino e distante, chiuso nel suo mondo di suoni e di moto sul posto, ma a Emilia va bene così, e col corpo disegna nello spazio il tracciato della musica.
Il ritmo cambia. Lui l’abbranca con una mano aperta, gliela posa sul fianco e la guida nel tango. Emilia sente addosso lo sguardo di lui e gli sorride ogni tanto, per tenere i contatti.
Poi il suo sguardo si perde sulla pista, oltre la spalla dell’uomo. In quel momento sente la sua mano appoggiarsi più forte sul fianco, farsi prensile e aggrappare le mutandine sotto la stoffa sottile della gonna. Una mano che è un richiamo.
Sono fermi. La musica tace per pochi secondi. Lui la guarda con occhi piccini, il dito puntato. È serio.
“Guardami negli occhi, bambina, quando balli con me.”
Ha occhi di ghiaccio azzurro, la luce scandisce i suoi capelli grigi e la barba. Verrebbe quasi da prenderlo sul serio, ma Emilia pensa che scherzi e si chiede il perché di quello scherzo infelice.
Riparte la musica e lui la riaggancia deciso e la scuote.
“Negli occhi!” ripete. “Negli occhi!”
Non scherza. La presa sul fianco è una morsa. Sente che la gonna ha ruotato, il fianco le brucia. Rimane bloccata da un filo ghiacciato che la tiene appesa a quegli occhi e la fa muovere avanti, indietro, di lato, e lei intanto pensa al malocchio. Lo diceva la nonna, quand’era bambina, ti basta un’occhiata, diceva la nonna, di un malintenzionato, e sei fritta. Che poi la nonna glielo sfaceva, il malocchio. Ma ora non c’è più la nonna, che aveva quella scodellina bianca con l’acqua di fonte e si faceva un segno di croce e ci versava l’olio, tre gocce, sì, di quello buono. Se si sfanno nell’acqua, diceva, te l’hanno dato. E allora, nonna, come faccio col malocchio addosso? Vieni qua, sciocchina, che ci penso io. Ma attenta agli occhi della gente. Invidia. E le faceva tre volte il segno della croce sulla fronte. Con acqua e olio.
Gli occhi di lui sono due cunei piantati nei suoi. Le gambe di Emilia si muovono a ritmo, ma sale una nausea sottile, la sala le ruota intorno con una luce sinistra popolata da figure su cui quella luce si spacca.
Macchemmodo!
Stacca il contatto e la mano pizzica forte il suo fianco.
“Dammi gli occhi. Io ballo così.”
“Ma io non…”
“Non ti mettere a fare la stronza.”
Sì, sì, ha detto stronza. Ha capito bene, nonostante il rumore. Nessuno le ha mai parlato così e quello sconosciuto come si permette?
Emilia solleva il viso che ha reso immobile, senza espressione. Le gambe ora le tremano piano, sono elefanti che attraversano lenti la savana.
“Che c’è?”
“Sono un po’ stanca.”
C’è una pausa. La nausea si fa prepotente.
“Ho bisogno del bagno.”
“Fa’ presto, io ordino qualcosa da bere.”
“Faccio presto.”
Sorride e cerca la borsa sulla poltrona. Dove sono i bagni? Cammina piano tra la gente accaldata con la mano che fruga impaziente in fondo alla borsa, poi scopre la porta d’uscita, la infila con calma studiata, la chiave già in mano, il cuore che va in extrasistole per la paura di essere vista da lui.
Il parcheggio è stracolmo di auto, non era così quando sono arrivati, ed ora si deve orientare e lo spazio continua a dilatarsi tra lei e la sua macchina.
Eccola la sua auto. Apre la portiera. Fugge via con il piede sul gas.
La nebbia è scesa più in basso, ora tocca la strada con nuvole brevi.
Il cuore scavalla nel petto.
Attenta alla strada.
Preferisco viaggiare da sola di notte.
Sale un tepore lieve dal riscaldamento acceso. Fuori è gelo.
Sciolgo le spalle e mi lascio abbracciare dalla poltrona mentre il cuore parla piano piano con le stelle delle case che brillano a mezzacosta.