Loreyn

2593 Words
Loreyn Quando riaprì gli occhi, il panorama non era cambiato di molto. Si trovava ancora in groppa al cavallo di Yabut, presumibilmente nella stessa foresta che aveva lasciato prima di addormentarsi. Eppure, sembrava passata un'eternità... Si guardò intorno circospetto. Non c'era nessuno attorno a lui, né pareva che qualcuno lo stesse seguendo. Si sistemò a cavalcioni e ripercorse nella sua testa quanto era successo a palazzo. Nei suoi occhi la rabbia si mischiò al dolore per un attimo. Alzò un braccio per asciugarsi una lacrima che stava per scendergli sulla guancia quando si accorse che gli occhi di Balanet erano ancora nelle sue mani. Stranamente, non gli erano caduti mentre dormiva. ‒ Dannazione! ‒ disse ricordando di aver gettato la loro custodia a palazzo ‒ Dove li nascondo? Non posso tenerli in vista. Guardò velocemente intorno a sé sperando di scorgere sul dorso dell'animale delle fodere da usare come involucro ma... niente. Il cavallo non era nemmeno sellato. Notò, però, che i suoi vestiti erano diversi da quelli che portava in precedenza; simili, ma dai colori meno sgargianti. Inoltre erano coperti quasi per intero da un saio di tela, grigio, lungo e abbastanza sgradevole all'olfatto. ‒ Opera di Yabut sicuramente ‒ pensò. Osservò meglio; a sinistra e a destra della spessa fascia di cuoio che portava alla vita pendevano ora tre ruvide borse di pelle. Due erano sottili e vuote, della stessa grandezza e scendevano poco sotto l'anca da entrambi i lati. Un sottile filo bianco, tanto piccolo da sembrare trasparente, le teneva saldamente legate alla cintola. Sebbene l'estremità superiore delle tasche fosse aperta erano perfette in quanto a dimensioni come contenitori degli anelli da guerra. La terza sacca era più piccola delle altre due ed essendo nascosta dietro una di esse Randet la scorse solo in un secondo momento. A differenza delle precedenti questa era chiusa da un grosso spago che formava più nodi vicino all'attaccatura. La posizione di Randet era un po' scomoda per sciogliere i nodi e l'andatura del cavallo non l'aiutava di certo ma, dopo vari tentativi, riuscì a disincastrare il piccolo borsello. Se lo portò davanti al volto per ispezionarlo da vicino: conteneva qualcosa al suo interno, qualcosa di non molto pesante. Quando finalmente si decise a svuotarne il contenuto sul palmo della mano, scesero sette pezzi d'oro e tre piccole gemme. Abbastanza per vivere agiatamente per un lungo periodo. Lo stregone aveva pensato proprio ad ogni cosa, insomma. Se non l'avesse conosciuto, Randet avrebbe potuto pensare che si trattasse di un tranello premeditato per farlo allontanare. Già, il viaggio. ‒ Vai dagli hatag! ‒ gli aveva ordinato. Chi sa se era riuscito a cavarsela. Non averlo trovato al suo fianco, al risveglio, non era di buon auspicio ma, in cuor suo, sperava ancora di vederlo spuntare dal sentiero alle sue spalle. Quanti ricordi gli balzavano alla mente; tutti vivissimi nel suo cuore. Si ricordava ancora dei doni e degli oggetti provenienti da ogni parte del mondo che ogni anno lo stregone gli portava per l'anniversario della sua nascita, tutti gli insegnamenti che, pazientemente, gli impartiva e le lunghe passeggiate nei boschi attorno al castello. Spesso, quando suo padre era chiamato in lontani luoghi del regno o era troppo preso dalle faccende di corte, era proprio Yabut a stargli vicino e a badare a lui. ‒ Chi sa cosa sarà successo al palazzo... ‒ si domandava il giovane. Tutto ciò a cui teneva di più e al quale era maggiormente affezionato era davvero scomparso per sempre? Procedeva sul dorso dell'animale con lo sguardo, triste, rivolto perennemente verso il basso. Si alternavano come se le avesse davanti agli occhi le tremende immagini dell'assalto al palazzo da parte di Arkas che, con un manipolo di uomini, aveva senza pietà ucciso o fatto prigionieri tutti i presenti alla cerimonia. ‒ Jakesh, Dyanum, Avrya, chissà se state bene... ‒ rifletté. Nonostante il principe non avesse alcuna idea di chi fosse Arkas né del perché avesse compiuto un gesto tanto meschino, di una cosa era certo: perché andare fino a Tetrakon per chiedere aiuto? Gli uomini che avevano attaccato la corte non superavano il centinaio. Sarebbe bastato allertare i soldati della città più vicina per radunare abbastanza igson da riconquistare la reggia. Un piccolo barlume di ottimistica speranza si riaccese negli occhi del giovane che, per la fretta di vedere attuato il suo piano, accelerò l'andatura. Il sentiero, dritto e stretto, si faceva più largo a mano a mano che proseguiva. Ora cominciava ad orientarsi, aveva già utilizzato diverse volte quel percorso. Il cavallo lo aveva spinto ad est del castello, su di una scorciatoia che collegava i sentieri del bosco della reggia alla via del commercio: la principale arteria di congiunzione delle maggiori città del regno, da Kotis a Syomer. Osservando la luce del sole stabilì che doveva già essere pomeriggio. Se i suoi ricordi erano giusti, Loreyn non doveva trovarsi a più di qualche ora di strada. Ben presto il bosco terminò e con esso il sentiero. Gli alberi si fecero molto radi e piatti campi si stendevano su colline smussate in una distesa di erba giallastra. Al bivio prese dunque a destra verso quella che aveva scelto come sua destinazione. Come previsto, non durò molto la cavalcata e i primi agglomerati di abitazioni si affacciarono tra le coltivazioni. Loreyn si estendeva su una serie di piccole alture ravvicinate ed era un punto di passaggio quasi obbligato per chi dovesse raggiungere il Mare Piccolo da Korades o dalla costa ovest del regno; unica caratteristica che aveva fatto crescere di importanza una città con, altrimenti, ben pochi meriti. Nella periferia i casolari erano radi e circondati da prati coltivati a granturco. Al suo passaggio, Randet notò, più in là, qualche contadino ancora intento a zappare la terra mentre due carovane di commercianti si dirigevano dalla parte opposta alla sua. Ancora qualche tratto di dolci salite e discese e le abitazioni si infittirono e il traffico aumentò. Dietro i banconi, ai margini della strada, commercianti elogiavano merci di ogni tipo mentre le donne valutavano meticolosamente la qualità dei prodotti. Si sentivano alcuni uomini, più avanti con l'età, lamentare i propri stati di salute da un capo all'altro della carreggiata. Altri, invece, se ne stavano seduti in silenzio ad osservare i passanti. Nonostante la via fosse abbastanza larga, soprattutto se paragonata alle piccole casupole stipate ai lati, le persone che la percorrevano erano tante da intralciare ugualmente il passaggio del principe; Randet decise quindi di scendere dall'animale e di proseguire a piedi tenendo le briglie con una mano. Non era certo abituato ad essere ossequiato ogni volta che si spostava da palazzo ma in quel momento, da solo e con quei vestiti, passava tra la folla completamente inosservato. Notò, più avanti, in una viuzza meno trafficata che si defilava sulla destra, un'insegna di legno che indicava una taverna. Non conoscendo la posizione del forte dei soldati decise di recarsi al suo interno per chiedere informazioni. Legò l'animale alla staccionata esterna, nient'altro che una ventina di assi di legno dondolanti, vicino ad un abbeveratoio in terracotta, salì i tre piccoli scalini scricchiolanti ed entrò. ‒ Buona sera signore! Come posso esservi utile? ‒ disse un uomo alto e magro, tutto preso ad asciugare boccali, da dietro al bancone. ‒ Salve, ho affari urgenti da sbrigare, qual è la strada più breve per la guarnigione dei soldati? ‒ Uhm... affari urgenti dite? La guarnigione dite? Siete fortunato ad avere imbroccato la via giusta signore! All'uscita della staccionata continuate a sinistra, quando cominciano i campi la vedrete. Non più di cinquecento metri e certo che la vedrete! ‒ Ah ‒ sussurrò Randet, perplesso dal modo di fare anche eccessivamente ammiccante del locandiere ‒ E ancora, potete rifocillare e badare al mio cavallo? Se è vicino come dite mi recherò a piedi. Vi pagherò al ritorno... ‒ Ma certamente! Ci penserà il mio ragazzo di certo! ‒ disse il locandiere urlando il nome del figlio ‒ Vosh! Vosh! ‒ Vi ringrazio signor...? ‒ Rosh! Rosh degli Okur è il mio nome, e questo è mio figlio Vosh, sarà ben lieto di accudire il vostro animale fino al vostro ritorno. Senz'altro! ‒ ribadì indicando la figura se possibile anche più alta e longilinea del figlio, intento a scendere frettolosamente le scale dietro di lui. Randet ringraziò nuovamente e uscì di buon passo. Rimase abbastanza incredulo nel notare che nessuno dei tre tizi seduti ai tavoli, ognuno per conto suo, sembrasse prestare attenzione allo strano modo di parlare del locandiere. Seguì comunque le indicazioni fornitegli e in effetti, già dopo qualche centinaio di metri, notò una spessa cinta di mura di colore giallo ocra, con fessure larghe quanto un dito e due soldati svogliati di guardia. Uno sbadigliava mentre l'altro, appoggiato ad una delle colonne all'ingresso, lanciava ripetutamente in aria una moneta riafferrandola con la stessa mano. Se l'aspettava molto più grande, a dire il vero, la roccaforte; le pareti esterne potevano facilmente essere scavalcate aggrappandosi alla sommità con le braccia e anche la struttura interna non superava per estensione più di quattro delle case appaiate avvistate per le vie del centro. Si fermò proprio davanti all'ingresso, tra le due guardie. Quella più assonnata lo osservò per qualche secondo con un occhio socchiuso per la luce contraria, portò più vicino a sé la lunga alabarda e abbaiò ‒ Motivo della visita? ‒ Sono il principe Randet degli Yan, desidero parlare urgentemente con il vostro comandante! Le due guardie si destarono per un momento e la monetina smise di colpo di saltare dalla mano di quella appoggiata alla colonna. Entrambe vestivano una divisa di tonalità azzurra con ampie spalline e che scendeva a punta sia davanti che dietro. Quello con la monetina inoltre portava alla cintola una serie di coltelli da lancio. ‒ Perché mai il principe dovrebbe venire fin qui da solo e così trasandato? ‒ Già! ‒ incalzò l'altro sfregando la punta delle dita sulle lame. ‒ Sono capitate vicende molto spiacevoli di cui devo discutere con chi è a capo del fortilizio ‒ rispose Randet, triste delle perdite che portava con sé. ‒ Ci è difficile crederti ragazzo... ‒ ribatté l'alabardiere ‒ Ad ogni modo non possiamo fare entrare all'interno nessun civile armato. Negli occhi del principe si riaccese la speranza di poter essere creduto. ‒ Le mie armi... osservatele e mi crederete!! ‒ disse estraendo gli anelli da guerra delicatamente ‒ Questi sono gli anelli da guerra di Yan, il fondatore della nostra terra, solo un suo discendente può brandirli. Quelle parole non furono di gran conforto alle guardie che, invece, indietreggiarono di un passo mettendosi sulla difensiva. Con un occhio al ragazzo e uno al compagno si fecero verso il centro. Quella con l'arma ad asta, con un cenno del capo, ordinò all'altra di andare a controllare. Il soldato con i coltelli da lancio, tuttavia, non obbedì prima di aver mostrato evidenti segnali di disappunto; estrasse una delle lame con la mano destra e si fece avanti. ‒ Tienili sul palmo delle mani e rivolti verso di me e non fare scherzi! Randet non ci pensava neanche a fare movimenti bruschi; rimase immobile. Lo svogliato era più basso ed esile di Randet, aveva una barba corta e ispida e un sottile naso aquilino. Con lo sguardo controllò velocemente e tornò alla sua posizione. ‒ Allora? Che ti sembra? ‒ sussurrò la prima guardia. ‒ Grandi per essere anelli da guerra, di un buon materiale credo. Ci sono dei simboli, tutt'attorno... sembra l'antica lingua igson. Che si fa? ‒ Avverti il comandante, resterò io qui con lui. Così, ripose la lama nella custodia e rovistò in un grosso mazzo di chiavi dal quale estrasse quella con cui aprì il cancello. Il sole era vicino al tramonto, Randet ripose gli anelli nelle fodere e stette immobile a guardarsi intorno nervosamente mentre la guardia, interposta tra lui e l'ingresso, lo fissava seria. ‒ Se davvero siete il principe... dico... se davvero siete chi dite di essere, capirete l'esigenza di queste procedure. In caso contrario... ‒ e si fece più cupo ‒ Sappiate che non apprezziamo gli impostori. Dopodiché ritornò il silenzio, nessuno passava da quella strada ormai da un po'. Era quasi ora di cena e, in lontananza, si potevano vedere gli ultimi mercanti raccattare spezie e tele e tornare verso le proprie abitazioni. Randet si faceva più intollerante ad ogni minuto che passava e l'assenza di rumori dava spazio ai ricordi, vivi, dolorosi e pieni di rabbia. Finalmente vide scendere dalle scale la seconda guardia. Quello che doveva essere il comandante, invece, lo attendeva davanti alla porta dello stabile. Lo si intravedeva aguzzare gli occhi con le braccia dietro la schiena. ‒ Il comandante ha ordinato di farlo entrare ‒ disse la guardia al suo pari ‒ Parlerete direttamente con lui ‒ continuò rivolgendosi stavolta a Randet e aprendo il cancello. I tre salirono la rampa uno davanti all'altro. Una volta in cima il principe e il comandante si salutarono con riverenza. Il comandante lo squadrò e prese la parola per primo: ‒ I miei sottoposti mi riferiscono che, nonostante le apparenze, possedete qualcosa che solo il re può maneggiare. Randet mosse una mano per prelevare una delle due armi ma venne prontamente fermato dal comandante. ‒ Non c'è bisogno che me le mostriate; o perlomeno, non qui. Seguitemi nei miei alloggi, saremo più a nostro agio. Mentre le due guardie tornavano alla loro mansione, il comandante aprì il portone di legno che li separava dall'interno della struttura ed entrò con il principe. Quanto visto finora risultava abbastanza trasandato per trattarsi di un contesto militare. Nel minuscolo giardino che costeggiava le pareti esterne, le siepi erano lasciate crescere e le erbacce si facevano largo tra la pavimentazione. Anche il comandante aveva un aspetto non molto curato: la barba non veniva tagliata da giorni ed era diventata un tutt'uno con i capelli spettinati, macchie di cibo erano sparse un po' ovunque sulla maglia e sul colletto di pizzo e la mantellina azzurra, legata alle spalle da due esuberanti spillette, aveva assunto un colore nerastro là dove strisciava per terra. Continuando a camminare, prima di salire al piano superiore, i due passarono per un corridoio poco illuminato ma dal quale il principe riuscì a scrutare, da una porta semiaperta sulla destra, la mensa e alcuni soldati al suo interno. Cominciarono quindi le scale, e anche lì, Randet si accorse che alcuni dei gradini avevano bisogno di manutenzione; erano scricchiolanti, non molto stabili e costringevano i due a proseguire a zig zag. ‒ Mi stupisce tutta questa incuria, comandante! Non siamo forse in una struttura militare? ‒ disse il principe non riuscendo più a contenersi ‒ E le altre milizie dove sono? ‒ Sono spiacente... del caos ‒ rispose il comandante con voce bassa ‒ Non sapevamo di una vostra visita altrimenti avremmo fatto il possibile per accogliervi adeguatamente. Loreyn è una città che si espande in fretta; tutte le nostre forze sono concentrate per contenere la criminalità, al forte resta solo chi deve rifocillarsi o i pochi qui di guardia. ‒ Capisco... ‒ rispose il principe ritenendo che, rispetto al motivo della visita, la questione dell'ordine fosse trascurabile. In cima alle scale si trovavano solo cinque porte, tutte chiuse. Il comandante estrasse una chiave sfusa dalla tasca e si accinse ad aprire quella al centro. ‒ Accomodatevi, qui parleremo con più tranquillità. Randet seguì le indicazioni e si sedette su una grossa sedia a destra della porta. Per via dell'agitazione, non riuscì a rimanervi seduto per più di qualche secondo mentre il comandante andava ad occupare quella dalla parte opposta della scrivania. La stanza era davvero minuscola, arredata in modo spartano e ogni piccolo movimento causava la caduta di pile di fogli sparsi un po' ovunque. ‒ Mi ricordo di voi, mio principe, di quando con vostro padre qualche anno fa faceste visita alla città. E quella strana energia che proviene dalle armi che portate ai fianchi... questo e la parola dei miei soldati mi bastano per credervi L'aria rilassata che fino a quel momento aveva creato delle piccole rughe a contorno degli occhi del comandante lo abbandonò di colpo; egli incrociò le dita delle mani sul tavolo e riprese serio ‒ In cosa posso servirvi?
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